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clusioni sulla vanità del mondo, confermate dai più grandi pensatori, qualche cosa mancava. Era nel ragionamento stesso, nella forma del problema? Non lo sapevo, ma sentivo che la mia convinzione non era sufficiente.

Tutte quelle conclusioni non potevano convincermi abbastanza per condurmi a fare ciò che risultava dai miei ragionamenti, cioè ad uccidermi. E mentirei se dicessi che la ragione soltanto m’impedì di suicidarmi. Il mio spirito lavorava, ma v’era qualche cos’altro che lavorava, qualche cosa che non posso chiamare altrimenti che la coscienza della vita. Era come una forza che m’obbligava a badare a questo piuttosto che a quello, e questa forza mi salvò dalla mia situazione disperata e diede tutt’altra direzione alla mia intelligenza. Questa forza mi obbligava a fissar la mia attenzione sul fatto che nè io nè centinaia d’uomini simili a me, non eravamo tutta l’umanità e ch’io non conoscevo ancora la vita dell’umanità.

Se esaminavo il ristretto circolo dei miei pensieri, non vedevo che uomini i quali, o non comprendevano il problema della vita, oppure, comprendendolo, lo soffocavano con l’ubbriachezza o mettevano fine ai loro giorni o, per debolezza, trascinavano una vita disperata. Questo era tutto quel ch’io vedevo. Mi pareva che questo circolo ristretto dei sapienti, dei ricchi, degli oziosi, al quale io appartenevo, fosse tutta l’umanità, e che i miliardi d’altri esseri che avevano vissuto prima di noi e vivevano ancora, non fossero uomini, ma bestie da soma qualsiansi.

Per quanto strano, incomprensibile, mostruoso mi sembri ora questo fatto, come ho potuto lasciar sfuggire, nella mia analisi della vita, tutto