Le confessioni/II
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II.
Un giorno racconterò la storia della mia vita, storia commovente e istruttiva, durante questi dieci anni della mia gioventù. Credo che molti abbiano provato gli stessi sentimenti. Con tutta l’anima desideravo esser buono, ma ero giovane, tormentato dalle passioni, e mi trovavo solo, assolutamente solo nella ricerca del bene. Ogni volta che tentavo di esprimere il mio desiderio più intimo, quello di essere moralmente buono, non incontravo che disprezzo e canzonature; ma non appena mi davo alle più vili passioni mi si lodava e mi s’incoraggiava.
L’ambizione, l’amor del potere, del denaro, il lusso, la collera, la vendetta erano rispettati. Dando libero sfogo a queste passioni, diventavo simile a un uomo e sentivo che si era contenti di me. La mia buona zia, in casa della quale vivevo, l’essere più puro al mondo, mi diceva sempre di non desiderar per me nulla più che una relazione con una signora maritata: «Non vi ha nulla che formi un giovane quanto una relazione con una signora ammodo.» Mi augurava anche un’altra fortuna: quella di essere aiutante di campo, e soprattutto aiutante di campo dell’imperatore, e poi, come felicità suprema, di sposare una signorina ricchissima, per poter avere, con tal matrimonio, un gran numero di servi.
Non posso ricordare questi anni senza orrore, senza disgusto, senza sofferenza. Uccisi degli uomini in guerra, provocai in duello per uccidere, perdetti grosse somme al giuoco, dilapidai il frutto del lavoro dei contadini, li punii, commisi adulterio, ingannai. La menzogna, il furto, la cupidigia in tutte le sue forme, l’ubbriachezza, la violenza, l’assassinio... non v’ha delitto che non abbia commesso. E per tutto ciò mi si lodava, mi si considerava come un uomo relativamente morale. Vissi così dieci anni.
In questo tempo incominciai a scrivere, per ambizione, per avidità, per orgoglio. I miei scritti erano conformi alla mia vita. Per ottenere la gloria e il denaro, in vista dei quali scrivevo, era necessario nascondere il buono e pubblicare il cattivo, e questo io feci. Quante volte, affettando indifferenza e anche una leggera ironia, mi sforzai di scartare dai miei scritti quelle aspirazioni verso il bene che davano un senso alla mia vita! E raggiunsi il mio scopo, e tutti mi incoraggiavano.
Avevo ventisei anni, quando, di ritorno dalla guerra, andai a Pietroburgo e mi misi in relazione con degli scrittori, che m’accolsero come uno dei loro. Essi mi lodarono e, prima che avessi avuto il tempo di riavermi, le opinioni sulla vita, proprie a questi uomini, erano divenute mie e avevano completamente dissipato in me tutte le antiche tendenze a diventar migliore. Queste opinioni costituivano una teoria che giustificava la depravazione dei miei costumi. I miei confratelli in letteratura consideravano che la vita in generale va avanti progredendo e che in questo svolgimento spetta a noi, pensatori, la parte principale e, fra i pensatori, gli artisti e i poeti hanno la massima influenza. La nostra vocazione è quella d’istruire gli uomini.
Perchè non ci si rivolgesse neppure la domanda naturalissima: Che cosa so, e che cosa devo insegnare? si spiegava con la teoria che era inutile esser ben fissi su quel punto, giacchè l’artista e il poeta insegnano inconsciamente.
Io ero considerato come un artista eccelso e un grande poeta: naturalmente dunque adottai quella teoria. Artista e poeta, io insegnavo ciò che neppure sapevo. Mi si pagava per questo; avevo una buona tavola, un bell’appartamento, donne, società, avevo la gloria: per conseguenza ciò che insegnavo era assai buono.
Questa fede nell’importanza della poesia e dello svolgimento della vita era una religione di cui io ero uno dei pontefici; cosa molto piacevole e molto vantaggiosa, ed io vissi parecchi mesi in questa religione senza mai aver il dubbio che non fosse la vera.
Ma il secondo e soprattutto il terz’anno di questa vita, cominciai a dubitare dell’infallibilità della nostra religione e mi misi ad esaminarla. Il primo motivo di dubbio fu questo: avevo finalmente notato che i sacerdoti della nostra religione non erano tutti d’accordo fra di loro. Gli uni dicevano: Siamo noi i maestri migliori e più utili; noi insegniamo ciò che è necessario, gli altri non insegnano la verità. E questi dicevano: No, siamo noi nel vero, voi insegnate l’errore. E disputavano, litigavano, si insolentivano, s’ingannavano a vicenda. Inoltre molti di noi non si curavano neppure di saper chi avesse ragione o chi avesse torto, e seguivano semplicemente il loro scopo materiale. Tutto ciò mi condusse a dubitare della verità del nostro culto.
Avendo così messa in dubbio la religione degli scrittori, cominciai ad osservare più attentamente i suoi ministri, e mi convinsi che quasi tutti questi scrittori erano uomini senza moralità, cattivi per la maggior parte, nullità, assai inferiori per il carattere a quelli che avevo incontrato in passato, nella mia vita militare, ma per contrapposto molto sicuri e contenti di sè come possono esserlo o i santi o quelli che non sanno neppur che sia la santità. Questi uomini m’ispirarono un gran disgusto, ne sentii anche per me stesso, e compresi che tale religione era un inganno. Ma, cosa strana, pur avendo ben presto compreso tutta la menzogna di tale religione e avendola rinnegata, non seppi rinunciare al titolo che mi davano questi uomini, titolo di artista, di poeta, di maestro. M’immaginavo ingenuamente di essere poeta e artista e di poter insegnare a tutti senza saper io stesso ciò che insegnavo; e continuai in questo modo.
La mia relazione con quegli uomini mi valse un nuovo vizio: un orgoglio spinto fino alla malattia, e la folle sicurezza di credermi chiamato ad insegnare ciò che non sapevo io stesso.
Ora, quando ricordo questo tempo, lo stato del mio spirito d’alloŕa e quello di quegli uomini (del resto i loro simili si contano ora a migliaia), sento un insieme di pietà e vergogna; ho voglia di ridere, provo lo stesso sentimento che si prova in un manicomio.
Noi eravamo tutti convinti allora che bisognasse parlare e scrivere, pubblicare al più presto e il più possibile, che tutto questo fosse necessario per il bene dell’umanità, e migliaia di noi, nuocendosi e lanciandosi delle invettive reciprocamente, pubblicavano, scrivevano e istruivano gli altri. Senza notare che non sapevamo nulla, che al più semplice problema della vita: Che cosa è buono e che cosa è cattivo? non sapevamo che rispondere; senza dar retta a nessuno parlavamo tutti insieme, fingendo a volte di approvare e di lodare per essere noi pure approvati e lodati, a volte irritandoci gli uni contro gli altri come in un manicomio.
Migliaia di operai lavoravano giorno e notte, con tutte le loro forze, per stampare milioni di parole che la posta spargeva per tutta la Russia, e noi cercavamo d’insegnare ancor di più, senza riuscire ad insegnar tutto, e ci irritavamo sempre di non essere abbastanza ascoltati.
Cosa strana!... ora soltanto io lo comprendo. Il nostro desiderio vero, il più intimo, era quello di ricevere il massimo di denaro e di lodi. Per raggiungere questo scopo non potevamo che scrivere libri ed articoli; questo appunto facevamo; ma per fare un’opera così inutile e nello stesso tempo possedere la certezza di essere personaggi molto importanti, ci occorreva ancora un ragionamento che giustificasse la nostra attività, ed inventammo il seguente: tutto ciò che esiste è ragionevole, tutto ciò che esiste si svolge, tutto si svolge per mezzo dell’istruzione, l’istruzione si misura dal grado di diffusione dei libri e dei giornali, e noi venivamo pagati e stimati perchè scriviamo dei libri e degli articoli; per conseguenza siamo gli uomini migliori e più utili.
Questo ragionamento sarebbe stato perfetto se fossimo stati tutti d’accordo; ma siccome ad ogni idea pubblicata dall’uno si opponeva sempre un’idea diametralmente opposta pubblicata dall’altro, avremmo dovuto riflettere. Ma noi non notavamo questo: ci si pagava, gli uomini del nostro partito ci lodavano, e ciascuno di noi si credeva nel vero.
Oggi io vedo chiaramente che non v’era alcuna differenza fra la nostra società e un manicomio. Anche a quel tempo lo supponevo vagamente, ma, come fanno tutti i pazzi, trattavo ciascuno da pazzo, eccettuato me stesso.