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avevo una buona tavola, un bell’appartamento, donne, società, avevo la gloria: per conseguenza ciò che insegnavo era assai buono.

Questa fede nell’importanza della poesia e dello svolgimento della vita era una religione di cui io ero uno dei pontefici; cosa molto piacevole e molto vantaggiosa, ed io vissi parecchi mesi in questa religione senza mai aver il dubbio che non fosse la vera.

Ma il secondo e soprattutto il terz’anno di questa vita, cominciai a dubitare dell’infallibilità della nostra religione e mi misi ad esaminarla. Il primo motivo di dubbio fu questo: avevo finalmente notato che i sacerdoti della nostra religione non erano tutti d’accordo fra di loro. Gli uni dicevano: Siamo noi i maestri migliori e più utili; noi insegniamo ciò che è necessario, gli altri non insegnano la verità. E questi dicevano: No, siamo noi nel vero, voi insegnate l’errore. E disputavano, litigavano, si insolentivano, s’ingannavano a vicenda. Inoltre molti di noi non si curavano neppure di saper chi avesse ragione o chi avesse torto, e seguivano semplicemente il loro scopo materiale. Tutto ciò mi condusse a dubitare della verità del nostro culto.

Avendo così messa in dubbio la religione degli scrittori, cominciai ad osservare più attentamente i suoi ministri, e mi convinsi che quasi tutti questi scrittori erano uomini senza moralità, cattivi per la maggior parte, nullità, assai inferiori per il carattere a quelli che avevo incontrato in passato, nella mia vita militare, ma per contrapposto molto sicuri e contenti di sè come possono esserlo o i santi o quelli che non sanno neppur che sia la santità. Questi uomini m’ispirarono un gran disgusto, ne sentii anche