Le caverne dei diamanti/5. Un massacro mostruoso

5. Un massacro mostruoso

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5.

UN MASSACRO MOSTRUOSO


Dopo aver riposato l'intera giornata — riposo ben guadagnato d'altronde, dopo tanti giorni di marcia quasi continua — l'indomani riprendemmo le mosse per attraversare il paese dei bechuana, il quale si estende dalle rive del Limpopo, un grosso affluente dell'Orange, al principio del deserto. Per quindici giorni noi marciammo non senza una certa apprensione, allontanandoci sempre più dai paesi civili, attraversando di frequente delle grosse borgate di negri, poi ci ritrovammo ancora in paese selvaggio e ricco di selvaggina.

Umbopa ci aveva sempre guidati: quel negro conosceva le regioni che noi attraversavamo e non s'ingannava mai sulla buona direzione, senza aver bisogno di bussola.

Era davvero un prezioso compagno infaticabile, sempre di buon umore e soprattutto d'un talento e d'una bravura sorprendente. Si riconosceva sempre più in lui l'uomo di razza superiore, non un negro comune.

Ormai noi eravamo convinti che egli nel suo paese natìo avesse avuta una posizione elevatissima, ma mai aveva voluto dirci qualche cosa in proposito. Solamente una volta si era lasciato sfuggire una confessione e cioè che suo padre era stato un gran capo d'una nazione potente e numerosa.

Il sedicesimo giorno, stanchi, affamati, arrostiti da quel sole implacabile, ci eravamo accampati presso le rive d'un corso d'acqua onde riposarci ventiquattro ore di fila, quando in mezzo ad un bosco che si estendeva sulla nostra destra, inoltrandosi in mezzo ad una serie di colline, udimmo echeggiare improvvisamente delle urle acute, accompagnate da certi colpi sordi, che parevano prodotti da uno di quegli enormi tamburi di legno, coperti di pelle di cuagga, usati dai cafri e dai bechuana.

Non sapendo di che cosa si trattasse e trovandoci noi in paese selvaggio, abitato da tribù di negri bellicosi, ci affrettammo a balzare in piedi ed a preparare le armi.

— Vi è di certo qualche villaggio in mezzo a quella foresta — disse il signor Falcone.

— Lo credo anch'io — risposi.

— Che gli abitanti festeggino qualche lieto avvenimento?

— No — disse in quell'istante Umbopa, dopo d'aver ascoltato con grande attenzione le urla che echeggiavano sotto il bosco. — Quei negri sono in caccia.

Good si mise a ridere fragorosamente, udendo quella risposta.

— Se quei negri urlano in questo modo, faranno fuggire la selvaggina, invece di attrarla sotto il tiro delle frecce e delle zagaglie.

— Fanno la grande battuta dell'hopo — ripose il negro. — Umbopa ha veduto e preso parte alla grande caccia nel paese degli zulù.

— Io credo che tu abbia ragione — diss'io.

Poi mi volsi verso Good ed il genovese, aggiungendo:

— Signori miei, se lo desiderate, vi farò assistere ad una caccia che terminerà in un massacro spaventevole di struzzi, di antilopi, di gnù, di zebre, di giraffe, di cuagga, di bufali e di jene. Volete vedere la grande battuta dei negri?

— Non chiediamo che di essere condotti sul luogo — mi rispose il genovese. — Noi siamo venuti in Africa non solo per cercare mio fratello, ma per prendere anche parte alle grandi cacce.

— Allora andiamo a trovare quei negri.

— Adagio, signor Quatremain. Con quali uomini avremo da fare? Non vi sono qui tribù ostili agli uomini bianchi?

— Tutti i negri di queste regioni temono gli europei e non osano offenderli, né assillarli, quindi credo che nulla avremo da temere. Tenete nondimeno le armi pronte e seguitemi.

Preceduti dai nostri negri, incaricati di aprirci il passo, ci cacciammo risolutamente nella foresta, avanzando però con grandi fatiche e stenti in causa dell'enorme numero di piante agglomerate, strette le une alle altre e cinte e ricinte da vere reti di radici mostruose, uscenti dal suolo da ogni parte, e da certe specie di lime così tenaci, da resistere alle scuri dei nostri uomini.

Vi erano macchioni di bambù di dimensioni gigantesche che sorgevano in mazzi stretti alla base e che verso la cima si allargavano in pennacchi elegantemente ripiegati; gruppi di felci arborescenti che intrecciavano le loro foglie con quelle lunghe e dentellate dei datteri selvatici; macchioni di fichi sicomori dalle foglie biancastre nella parte inferiore e seminate al di sopra di macchiette brune, di acacie giraffe, di acacie dentines dai rami irti di spine pericolose, di sensitive giganti che racchiudevano lestamente le loro foglie al minimo contatto dell'ala d'un insetto; poi ammassi di bacchinie dai fusti bizzarramente alternati a zig-zag e di banani mostruosi, questi giganti delle foreste africane, che per massa di verzura contendono il primato ai colossali baobab.

Passando di macchione in macchione avevamo percorso circa mezzo miglio, guidati sempre da quelle grida che non erano cessate un solo momento, quando in una piccola radura circolare ci trovammo improvvisamente dinanzi ad una piccola banda di negri armati di lunghe zagaglie e di asce da guerra, e che pareva si tenesse colà in agguato.

Vedendoci comparire balzarono tutti in piedi e uno di loro ci mosse incontro, facendoci un gesto amichevole, come per rassicurarci che nulla avevamo da temere. Quel negro, dalle vesti che indossava, doveva essere il capo della tribù.

Come tutti i piccoli monarchi dell'Africa del Sud, che hanno la smania di scimmiottare gli uomini bianchi, quell'importante personaggio portava sul capo un vecchio cappello d'ufficiale di marina, coi galloni d'oro sbrindellati e sormontato da un enorme mazzo di piume di struzzo, il corpo lo aveva imprigionato in una lunga giacca con alamari rossi, qualche vecchia livrea di cocchiere andata a finire in quel lontano angolo dell'Africa chissà per quali singolari ed avventurose circostanze; e le gambe le aveva infilate in un paio di calzoni da marinaio, ridotti però in uno stato così deplorevole, da non poter più distinguere il loro colore, tanto erano coperti di grasso, di sangue e di zacchere di fango.

Non era nemmeno privo di stivali; però Sua Maestà negra, invece di calzarli, li teneva appesi alla cintura. Io andai incontro a quell'uomo che si pavoneggiava nel suo vestito e lo salutai, levandomi il cappello.

Egli mi restituì il saluto facendo volteggiare in aria una grossa canna da tamburo maggiore col pomo di metallo argentato, poi mi disse in lingua cafra, lingua che conosceva assai bene:

— Gli uomini bianchi siano i benvenuti: Katiko è felice di vederli e di ospitarli nel suo villaggio.

— Grazie, capo — risposi io, frenando a grande stento le risa, tanto mi sembrava comico quel negro. — Noi accettiamo volentieri l'ospitalità che tu ci offri, tanto più che siamo assai stanchi ed anche affamati.

— Se lo desiderate vi farò condurre tosto al mio villaggio, ma sarei dispiacente che gli uomini bianchi non prendessero parte alla grande battuta.

— Sono in caccia i tuoi uomini?

— Da ieri sera hanno costruito l'hopo ed ora stanno spingendo la selvaggina verso l'abisso.

— Noi non perderemo questo spettacolo — dissi. — I miei amici non hanno mai veduto cacciare coll'hopo.

— Gli uomini bianchi mi seguano ed i loro fucili ci aiutino ad abbattere la selvaggina. Questa sera avremo carne in abbondanza.

Ad un suo cenno ci fece portare una zucca ripiena di ottima birra di sorgo fermentato, poi ci mettemmo tutti in marcia, mentre la foresta echeggiava di grida acutissime, che si avvicinavano rapidamente.

La grande battuta era incominciata e l'intera tribù, scaglionata parte nella foresta e parte nella pianura erbosa che si estendeva al di là delle colline, si avanzava stringendo il cerchio, onde costringere la selvaggina a cacciarsi nell'hopo.

Mentre le urla crescevano d'intensità, il capo e la sua scorta ci condussero attraverso un sentiero e ben presto, ai miei due amici stupiti, mostrarono le prime palizzate della gigantesca trappola. Vi dirò ora in che cosa consiste l'hopo così tanto usato dai cafri e dai bechuana dell'Africa meridionale, per provvedersi ampiamente di selvaggina, e senza esporsi a gravi pericoli.

Figuratevi due palizzate formate da pertiche alte due metri, solidamente infisse nel suolo e legate fra loro con lime.

Queste palizzate, ciascuna delle quali è lunga tre o quattro chilometri, si stendono senza la minima breccia attraverso la pianura, formando un V colossale, la cui apertura è eguale alla lunghezza di uno dei lati.

Queste due linee oblique, invece di riunirsi completamente, nel momento di raggiungere la estremità dell'angolo, si prolungano parallelemente, in modo da formare una strada ben incassata, di sessanta ai settanta metri di lunghezza su venti circa di larghezza. Esse mettono capo finalmente ad una fossa che può misurare venti metri quadrati su quattro di profondità. Dei tronchi d'alberi sono posti in traverso, sugli orli di questa fossa dalla parte per la quale gli animali devono cercare di fuggire. Questi alberi formano al di sopra delle pareti un rialzo avanzato, la cui disposizione rende quasi impossibile ogni tentativo di evasione. Infine, uno strato di canne coperte di erbe e di foglie nasconde l'apertura entro la quale precipiteranno indistintamente gli animali che si saranno pazzamente cacciati fra le due siepi.

I battitori, che si riuniscono nel maggior numero possibile, si recano cinque o sei chilometri lontano dalle estremità delle due palizzate, formano un immenso semicerchio, poi si avanzano lentamente, gettando grida furiose, verso la base aperta del V. La selvaggina, spaventata da queste urla e dai colpi rimbombanti battuti col mezzo delle zagaglie sugli scudi di cuojo, non cerca punto di rompere la loro linea. Fugge ingenuamente verso l'hopo, penetra fra le due palizzate oblique, e talvolta tenta di voltare le spalle, quando s'accorge che improvvisamente si restringono. Ma è troppo tardi. Dei cacciatori nascosti in quel luogo, si levano ad un tratto come un'orda di demoni, brandiscono le picche, colpiscono a caso quella massa d'animali, i quali spaventati, non trovando più che un'apertura, si precipitano nello stretto viale che conduce alla fossa.

Le povere bestie vi si precipitano irresistibilmente, e cadono l'una sull'altra, fino a che la trappola sia piena di una massa palpitante, sulla quale passano gli ultimi superstiti.

Fu in quest'ultimo posto che noi fummo collocati, sicché noi potevamo seguire tutti gl'incidenti di quella caccia e prendere parte attiva alla lotta senza esporci ad alcun pericolo.

Essendo l'hopo stato costruito parte nella pianura e parte nella foresta, noi potemmo ripararci comodamente all'ombra dei grandi alberi.

Dopo due ore di paziente aspettativa, vedemmo alzarsi dei turbini di polvere, prodotti dalla corsa della selvaggina sorpresa nei suoi nascondigli, poi vedemmo un gran numero di punti neri attraversare la pianura e cacciarsi nella foresta. La battuta era cominciata su tutta la linea.

Già l'avanguardia graziosa dei blubocks arriva con un'impareggiabile leggerezza. Ecco i nakong dalle corna ricurve, dal pelo azzurrastro; poi alcuni struzzi si avanzano stupidamente ed incrociano una truppa di giraffe che s'inoltra al piccolo trotto come una pattuglia di esploratori di un corpo di cavalleria leggera. Presto però colpite da un terrore improvviso, scuotono le piccole teste, torcono le code a cavaturaccioli e si gettano a tutto galoppo nel mezzo di uno squadrone di zebre e di cuagga.

I cudu, le linci, le tseccè giungono esse pure precedendo la truppa feroce dei bufali dalle corna minacciose e dagli occhi iniettati di sangue.

Le antilopi sono molto più numerose. Le specie più svariate dalle forme più inattese appariscono ai nostri occhi, e le guardiamo colla più viva curiosità, dimenticandoci di essere tutti appassionati cacciatori.

La sfilata per momento non ha nulla di tumultuoso. Gli animali manifestano soltanto qualche inquietudine nel vedersi riuniti e confusi in modo tanto insolito. In questo frattempo, il semicerchio formato dai battitori si stringe lentamente, ma con precisione implacabile. Le grida si vanno facendo sempre più distinte, e l'inquietudine di quegli animali inoffensivi, ad eccezione dei bufali, si muta in angoscia.

I primi scorgono le siepi e si ripiegano su loro stessi, attraversando colla velocità di meteore il terreno compreso fra le due palizzate; si urtano l'un contro l'altro spinti dal flutto di quegli che sopraggiungono. Cadono, si rialzano, poi riprendono la corsa, più spaventati che mai.

Ma i bufali, le zebre, ed i cuagga, di temperamento meno tranquillo, pretendono di non seguire quella truppa impazzita e rifiutano d'impegnarsi fra quelle palizzate che si restringono parallelamente.

Essi operano un brusco movimento di conversione e vogliono risalire verso i battitori.

Il gruppo dei cacciatori, nascosti dietro i cespugli appositamente innalzati, balza fuori tumultuosamente. I negri brandiscono le loro picche e presentano improvvisamente ai fuggiaschi i loro lunghi scudi bizzarramente dipinti, mentre noi ci affrettiamo ad impugnare i fucili.

L'apparizione dell'uomo porta al colmo lo spavento e la collera di quegli animali. I bufali sbuffano e si scagliano contro i negri, che evitano i colpi con una agilità degna dei meros spagnoli.

Le zagaglie volano in aria e vanno a piantarsi nei fianchi degli animali; i cuagga e le zebre tentano di spezzare coi denti l'asta di quelle lance, le cui punte lacerano le loro carni.

Noi scarichiamo le nostre armi: un bufalo e due zebre cadono mortalmente feriti.

I battitori arrivano a tutta corsa. I clamori feroci raddoppiano e gli animali, in preda ad un panico spaventevole, si scagliano finalmente verso la fossa.

Giraffe, bufali, struzzi, antilopi, si urtano e si schiacciano. È una foresta di corna diritte, a punta, massicce, sottili, larghe, ricurve, od a spirale che si agitano, si cozzano, s'intrecciano. Poi echeggia un immenso urlo di dolore.

Il leggero strato che copre la fossa si rompe e l'escavazione si riempie in un batter d'occhio. Non è più che una confusione di membra fracassate, di teste spaccate, di fianchi sventrati.

Quelle bestie che non vengono uccise di colpo, si dibattono in fondo all'abisso e sollevano, nell'ultimo spasimo dell'agonia, quella massa di cadaveri, sotto la quale soffocano.

I negri, animati dalla lunga corsa, ebbri di sangue, colpiscono i fuggitivi che evadono passando sui corpi che colmano la fossa. È una gioia, una follia, un delirio. Noi stessi non risparmiavamo i nostri colpi, mantenendo un fuoco continuo.

Il bottino era enorme. Quando i negri, dopo fuggiti gli ultimi superstiti, sbarazzarono l'enorme fossa, contarono oltre sessanta capi di selvaggina fra bufali, zebre, cuagga, struzzi, grù, e diverse specie di antilopi.

Ci vollero quattrocento uomini per trasportare quell'ammasso di carne al villaggio.

Noi, cortesemente invitati dal capo, avevamo accettata l'offerta di fermarci almeno ventiquattro ore nel villaggio, onde prendere parte al banchetto mostruoso che contavano di prepararsi quei negri.

Quella borgata era assai popolosa, contando oltre tremila abitanti, ed assai pittoresca, avendo un gran numero di spaziose capanne cinte da giardini accuratamente coltivati ed ombreggiati da splendide mimose e da giganteschi fichi sicomori.

Appena il sole fu tramontato, dei fuochi enormi furono accesi nelle vie del villaggio e degli animali interi furono messi ad arrostire, da un reggimento di cuochi improvvisati.

Lascio immaginare a voi come i denti di tutti quei negri si misero al lavoro, non appena quegli arrosti furono pronti. Credo, che dopo l'australiano, non esista un popolo più insaziabile del negro. Quando nuota nell'abbondanza, divora con un'ingordigia incredibile, e non smette finché gl'intestini non minacciano di scoppiare.

A quei giganteschi arrosti, molto deliziosi del resto, seguirono dei veri torrenti di birra di sorgo, i quali finirono di mettere al colmo l'allegria di quel clan di negri. Il capo, volendo festeggiare la nostra presenza, volle improvvisare una festa notturna in nostro onore con assalti d'armi, corse, lotte, tiri, pantomine, ed altri esercizi nei quali i negri si distinguono.

La serie fu terminata da una strana danza eseguita dallo stesso capo. I suoi uomini portarono una zucca enorme dipinta di bianco e sulla cui rotondità, degli artisti primitivi avevano, bene o male, raffigurato in nero degli occhi, un naso, una bocca e degli orecchi. Il capo v'introdusse la testa, passò il busto in una specie di botte formata da rami flessibili ed intrecciati, in modo che si videro apparire solamente le gambe e le braccia. Quella botte egualmente dipinta in bianco ed in nero adorna con code di bue e piume di struzzo, era inoltre tagliata diagonalmente da un largo nastro di sargia rossa.

Così acconciato, il capo raggiungeva il colmo del grottesco.

I suoi uomini si disposero su una fila e cominciarono ad intonare un canto monotono, accompagnato dal battere di mani.

Il capo prese posto a venticinque o trenta passi dalla linea e cominciò una scena straordinaria nella quale rappresentava la parte di bestia feroce in furia.

Saltava, gesticolava, sgambettava fra gli applausi entusiastici che aumentavano la sua mania coreografica. Ciò durò mezz'ora, poi, stanco, sfinito, gettò all'aria la zucca e la botte e venne a sedersi presso di noi, vuotando di un sol fiato una fiasca piena di birra.

La festa notturna si protrasse fino alla mezzanotte, poi, tutti, essendo stanchissimi, si ritirarono nelle loro capanne. A noi ne venne offerta una assai comoda, situata accanto a quella del capo e dove potemmo riposare tranquillamente fino all'alba.

Alle otto del mattino, dopo un'abbondante colazione, noi lasciavamo quel villaggio ospitale, riprendendo la nostra marcia verso il kraal di Sitanda.