Le caverne dei diamanti/6. Caccia agli elefanti

6. Caccia agli elefanti

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6.

CACCIA AGLI ELEFANTI


Per altri quattro giorni noi continuammo ad avanzare nell'immenso territorio dei bechuana, senza aver più incontrato non solo alcun villaggio, ma nemmeno un essere umano.

Sitanda si può dire che si trova affatto isolata da qualsiasi centro abitato. Per uno spazio di duecento chilometri all'ingiro non si trovano che pianure deserte, boschi immensi, sabbie aride, ma nemmeno una capanna.

Avevamo già percorsa mezza distanza, quando decidemmo di fare una sosta di ventiquattro ore per cercare di rifornirci di viveri, essendo stati consumati tutti quelli che avevamo portati con noi.

Eravamo giunti in mezzo ad una catena di collinette coperte di ammassi di piante spinose chiamate wht-een-beche ossia aspetta un po', nome un po' singolare ma giustissimo, perché se un uomo penetra là in mezzo è costretto a fermarsi ad ogni passo se vuole sbarazzarsi di quelle spine che lo trattengono da ogni parte, essendo uncinate.

In mezzo a quei cespugli vi erano però anche numerose piante che portavano delle frutta giallastre, assai ricercate dagli elefanti.

— Signor Good — diss'io, scorgendo quegli alberi. — È probabile che noi qui troviamo qualche pachiderma.

— Avete scoperto le tracce di qualcuno di quei giganti? — mi chiese premurosamente.

— No, — risposi, — ma dove sorgono quegli alberi se ne trovano quasi sempre.

— Speriamo adunque di poter finalmente assaggiare un piede d'elefante. Mi hanno detto che è un boccone eccellente.

— Squisito, signor Good.

— Si cucina allo spiedo?

— No, al forno.

— Ma dove troveremo un forno qui?

— Lo faremo noi e senza troppa molta fatica.

— Oh!... Vorrei vedervi all'opera.

— Aspettate che l'elefante venga e vi mostrerò come gl'indigeni fabbricano i loro forni.

— Quando ci metteremo in caccia?

— Verso il tramonto. Ho veduto laggiù un corso d'acqua e andremo ad imboscarci presso le sue rive e se non verranno gli elefanti, vi prometto per lo meno una giraffa od un'antilope.

— Accettato — risposero Good ed il genovese.

Attendemmo la sera, passando il nostro tempo a fumare ed a chiacchierare, poi, dopo d'aver cambiate le cariche ai nostri fucili per essere più certi dei nostri colpi, lasciammo il campo, dirigendoci verso il fiumicello.

I nostri due negri ci precedevano per aprirci il passo attraverso la foresta, tagliando a gran colpi le piante spinose che si estendevano dinanzi a noi, sempre più fitte.

Dopo una mezz'ora di marcia faticosissima, giungemmo finalmente al fiume.

Era un piccolo corso d'acqua, dalle acque chiare, limpide e freschissime, che doveva attirare di certo tutti gli animali dei dintorni.

Ci nascondemmo in mezzo a tre o quattro tronchi d'alberi i cui rami si curvavano sul fiumicello, proiettando una fitta ombra.

Ci trovavamo colà da soli pochi minuti, quando i nostri negri, che avevano attraversato il fiume per battere le macchie, alzarono una truppa di giraffe. Erano quindici o venti e fra le file si trovavano dei faoni, ossia dei giovani animali alti due metri e degli adulti che ne misuravano perfino quattro e mezzo. Questi animali sono ancora numerosi in Africa, specialmente nelle regioni meridionali e non è raro il caso di trovare delle bande di cinquanta e perfino di cento giraffe.

Esse passarono dinanzi a noi a corsa sfrenata, con quell'andatura bizzarra che le fa parere zoppicanti e con grande fracasso, alzando e piegando il collo con delle mosse comicissime.

Erano di già quasi fuor di portata di fucile prima ancora che avessimo potuto alzarci, ma Good fece egualmente fuoco e per un caso veramente straordinario, colpì l'ultima al collo, ferendole la colonna vertebrale.

Il povero animale s'arrestò di colpo, poi stramazzò al suolo agitando pazzamente le sue gambe smisurate.

— Diavolo! — esclamò Good, trionfante. — L'ho fatta cadere.

— Hou! Hou! Bougouen! — gridarono i due negri. — Hou! Hou!

Essi l'avevano soprannominato Good Bougouen — occhio di vetro — in causa del suo monocolo. Da quel momento la reputazione del tenente fu stabilita pei miei due negri, mentre invece egli non era che un meschinissimo cacciatore.

Ci affrettammo ad attraversare il fiumicello e ad accorrere là dove l'animale era caduto. Io mi ricorderò sempre dell'aspetto compassionevole di quella povera giraffa. Essa girava gli occhi verso di noi, due occhi dolci e che parevano pieni di rimprovero, bagnati da abbondanti lagrime.

Quantunque gravemente ferita, faceva ancora sforzi disperati per alzarsi, ma ben presto l'agonia la sorprese. Le sue membra furono scosse da un tremito convulso, la sua pelle si tese, il lungo collo si ripiegò e la testa finalmente ricadde al suolo.

— Povera bestia! — esclamò il genovese. — Avete notato l'espressione dei suoi occhi lagrimosi?

— Sì, — disse Good, — e per poco non mi pentivo di averla uccisa.

— Consolatevi pensando che avete fatto un bel colpo — diss'io. — Uccidere una giraffa? una cosa un po' difficile, anche per un cacciatore di professione.

— A me invece sembra cosa facilissima, signor Allan.

— Perché le giraffe vi sono passate dinanzi, ma se sapeste come sono diffidenti! Sentono il cacciatore ad una grande distanza e se non si possiede un buon cavallo non si raggiungono più. Anche Gordon Cumming, il famoso cacciatore che pretende di aver ucciso tante giraffe da averne dimenticato il numero, confessa di aver trovato sempre delle grandi difficoltà ad avvicinarle.

Mentre noi chiacchieravamo, i nostri due negri avevano destramente scuoiata una parte della giraffa e avevano tagliate numerose costolette, e spaccate alcune ossa per estrarne la midolla onde cospargerle e renderle più eccellenti.

Il fuoco fu presto acceso sulle rive del fiumicello, dopo però d'aver tagliato per un certo tratto le piante spinose, onde non provocare un incendio, e mezz'ora dopo noi assaporavamo quella carne succolenta, facendone una vera scorpacciata.

Quando la nostra fame fu calmata, accendemmo le nostre pipe e ci sdraiammo presso la riva, ammirando la luna che allora si alzava, specchiandosi nelle limpide acque che scorrevano ai nostri piedi, mentre i due negri preparavano dei giacigli di fresche erbe.

Verso la mezzanotte noi ci coricammo, mentre Umbopa montava il primo quarto di guardia, non essendo prudente addormentarci tutti.

Avevo chiuso gli occhi forse da una mezz'ora, quando fui bruscamente svegliato dal negro.

— Padrone, — diss'egli, scuotendomi, — qualche animale si avvicina.

Balzai subito in piedi, col fucile in mano, chiedendo da qual parte venisse.

— Ho udito le piante a muoversi laggiù — mi rispose Umbopa, indicandomi la riva opposta del fiumicello.

— Che sia qualche antilope?

— Non credo.

— Qualche leone?

— Non ho udito alcun ruggito.

I nostri compagni, udendoci parlare, s'erano pure alzati, preparando le armi.

— Ohe! Signor Quatremain, abbiamo delle altre giraffe? — mi chiese Good.

— Credo che si tratti di qualche animale ben più pericoloso, signor mio — risposi. — Se si avvicina a noi, non deve essere né una paurosa antilope, né una sospettosa giraffa.

In quel momento in mezzo ai cespugli spinosi udii come una specie di ouf! ouf! soffocato.

— Cosa può nascondersi laggiù, — mormorai, — che vi sia qualche leone?

Ci eravamo tutti alzati, colle dita sui grilletti delle carabine e gli occhi in guardia.

Ad un tratto udimmo echeggiare un barrito formidabile.

— Icoubou! Icoubou! (l'elefante) — si misero a gridare i nostri negri.

Delle grandi ombre attraversavano in quel momento il fiume, dirigendosi verso i fitti cespugli che coprivano il versante d'una collina.

Good aveva puntato prontamente il suo fucile, immaginandosi di abbattere qualche elefante colla stessa facilità con cui aveva fatto cadere la giraffa. Io mi affrettai a trattenergli il braccio, dicendogli:

— Non s'uccide uno di quei colossi come fosse un coniglio, camerata, e poi ormai sono lontani.

— Inseguiamoli.

— Con questa oscurità? Sarebbe una imprudenza.

— Pure sarebbe spiacevole non approfittare dell'occasione — disse il signor Falcone. — Sarei ben lieto di poter abbattere uno di quei colossi.

— Non andranno molto lontani, signore — risposi. — Qui vi sono le piante che preferiscono e si fermeranno fra queste colline.

— Possiamo allora trovarli domani?

— O domani o posdomani noi li troveremo di certo.

— Ci fermeremo qui alcuni giorni, signor Quatremain; giacché la selvaggina abbonda, ne approfitteremo.

— E quando andremo a scovare quei giganti? — chiese Good, con impazienza.

— Domani all'alba.

— Ossia fra quattro ore.

— Sì, se non vi rincrescerà.

— Sarò pronto prima di tutti.

— Intanto approfittiamo per dormire — conclusi.

Io ed il genovese ci coricammo avvolgendoci nelle nostre coperte, ma Good non ci imitò. Lo vidi per parecchi minuti a muoversi come se facesse dei preparativi, poi il sonno mi prese.

Ahimè! Quel secondo sonno fu di breve durata, forse più breve ancora del primo. Un ruggito formidabile che rintronò sotto la foresta come un colpo di tuono, mi fece balzare nuovamente in piedi. Diavolo! Non eravamo già in una casa ben chiusa per continuare il nostro sonno!... E poi, chi avrebbe osato starsene tranquillo con un vicino così pericoloso?

— Si vede? — chiesi ad Umbopa, che s'era spinto innanzi di alcuni passi.

— Mi pare che sulla riva opposta succeda una lotta — mi rispose il negro.

— Che il leone sia alle prese con qualche altro animale? — mi chiese il signor Falcone.

— Lo suppongo — risposi.

— Andiamo a cacciarlo — disse Good.

— Calmatevi, bollente camerata! — esclamai. — Volete distruggere tutti, voi? Badate che i leoni sono peggiori degli elefanti.

— Siamo in tre ed armati di buoni fucili.

— Ed il leone ha quattro zampe e venti artigli, senza contare i denti. Seguitemi, ma siate prudente e fate fuoco solamente quando io ne darò il comando.

Al di là del fiumicello pareva che si fosse impegnata una lotta fra il re della foresta e qualche altro animale. Udivamo sempre echeggiare i formidabili ruggiti e vedevamo i cespugli spinosi agitarsi burrascosamente e piegarsi fino a terra.

Ad un tratto i ruggiti cessarono ed i cespugli non si agitarono più. Udimmo, dopo qualche minuto, una specie di gemito, poi ogni rumore si spense.

— Cosa vuol dire ciò? — chiese Good. — Che il leone abbia ucciso il suo avversario?

— Ma... — diss'io, con imbarazzo. — Avrebbe fatto udire un ruggito potente, il ruggito della vittoria.

— Vedete nulla? — mi chiese il genovese.

— Assolutamente nulla — risposi.

— Che il leone sia fuggito colla preda?

— Lo avremmo veduto attraversare lo spazio scoperto.

— Andiamo a vedere — disse Good.

— Andiamo, ma non abbandonate il grilletto dei fucili.

Avevamo attraversato il fiume e ci eravamo arrestati sulla riva opposta. Prima d'inoltrarmi tesi gli orecchi e con mia sorpresa non udii il più lieve rumore.

— Ciò è strano — mormorai. — Che il leone, accortosi della nostra presenza, si sia appiattato per piombarci addosso? Eh! Mio caro, sono troppo esperto per lasciarmi sorprendere come un cacciatore novellino.

Colla canna del fucile allontanai i rami e vidi fra i cespugli una massa confusa ed immobile.

— I due lottatori sono morti! — esclamai.

In mezzo all'erba aveva veduto il leone, rovesciato su di un fianco e presso a lui una grande antilope nera la quale aveva cacciato le sue lunghe ed acute corna nel petto del formidabile avversario.

Evidentemente l'antilope si era accostata al fiume per bere; il leone che avevamo udito a ruggire s'era gettato improvvisamente su di essa, sperando di avere una pronta vittoria, ma aveva fatto i conti senza le corna della povera bestia.

Una lotta disperata doveva essersi impegnata ed entrambi erano caduti uccisi.

— Sembrerebbe impossibile che un'antilope potesse uccidere un animale così formidabile! — esclamò Good, stupito.

— È stato un colpo maestro — diss'io. — Guardate, signori: le corna dell'antilope sono entrate tutte nel ventre del feroce animale.

— La vittoria però non le è stata di nessuno giovamento — osservò il genovese.

Coll'aiuto dei nostri negri ci impadronimmo dell'antilope e la trascinammo all'accampamento, contando d'assaggiare le sue costolette a colazione.

Certi ormai di non venire oltre disturbati, ci ricoricammo e fummo così fortunati da dormire tranquilli fino allo spuntar del sole.

Appena svegliati facemmo i nostri preparativi per andare alla caccia degli elefanti. Visitammo le nostre armi, cambiammo le cariche, precauzione necessaria essendo le notti umide sotto le foreste, poi sorseggiammo alcune tazze di thè freddo, la bevanda migliore, a mio avviso, per calmare il caldo e rinvigorire il corpo e facemmo una leggera colazione con alcune bistecche d'antilope, preparateci dai negri.

— Partiamo — diss'io. — Non bisogna lasciare tempo agli elefanti di allontanarsi troppo.

Appena attraversato il fiume, scoprimmo subito le tracce dei pachidermi, profondamente segnate sul terreno umido del bosco. Venvogel, il nostro cafro, abilissimo cacciatore e bravo soprattutto nel seguire le orme della selvaggina, ci assicurò che la banda doveva comporsi di almeno trenta capi.

Salendo la collina, scorgemmo in breve delle nuove tracce lasciate da quei giganti. Vi erano parecchi alberi privi del loro fogliame e colla corteccia in parte strappata e numerosi cespugli calpestati, massacrati da quelle enormi masse di carne.

Erano quasi le nove, quando il nostro cafro ci avvertì che gli animali non dovevano essere lontani. Era già perfino troppo tardi poiché a quell'ora il sole cominciava a diventare insopportabile, pure non ci arrestammo, tutt'altro.

Eravamo tutti ansiosi di scoprire quei colossi e di fare una buona caccia.

Ad un tratto il cafro, che ci precedeva di alcuni passi, lo vedemmo arrestarsi, facendoci segno di non far rumore.

— Ci sono? — gli chiesi, quando lo ebbi raggiunto.

— Sono a breve distanza — mi rispose. — Ho già udito a schiantarsi un albero.

— Che ci siano tutti?

— Le tracce sono sempre numerose.

— Siate prudenti e non fate rumore — dissi a Good ed al signor Falcone. — Se si accorgono che noi siamo qui fuggiranno a tutte gambe, poiché non si rivoltano se non quando vengono feriti.

Continuammo ad avanzare con mille precauzioni, strisciando come serpenti fra le piante basse e tendendo gli orecchi. Avevamo così percorsi circa cinquanta passi, quando il cafro ci disse, con voce soffocata:

— Eccoli!

Venvogel non si era ingannato. Venti o venticinque elefanti, di taglia enorme, si trovavano radunati in una depressione del suolo. Avevano appena finito di spogliare gli alberi e giuocavano fra di loro, scherzando colle formidabili trombe ed agitando le loro grandissime orecchie.

Trovandosi a circa cento metri da noi, salii un poggio di sabbia e di là vidi che se il vento non cambiava direzione, noi avremmo potuto accostarci di più, senza tema di venire scoperti o sentiti.

Strisciando sotto i cespugli, in breve giungemmo a soli quaranta passi da tre elefanti i quali erano occupati a spogliare una pianta di frutta selvatiche rassomiglianti a certe specie di zucche.

Feci segno ai miei compagni di mirare, l'animale che si trovava a miglior portata, poi gridai con voce tuonante:

— Fuoco!...

Tre spari rimbombarono simultaneamente. L'animale mirato dal signor Falcone cadde di colpo, essendo stato toccato al cuore; il mio cadde sulle ginocchia e credetti che fosse pure per spirare, ma d'improvviso lo vidi alzarsi e precipitarsi addosso a me.

D'un solo balzo mi gettai verso una macchia di cespugli e di là gli sparai contro una seconda fucilata. La povera bestia questa volta stramazzò per sempre, mandando un barrito lamentoso e vomitando dalla proboscide tutta l'acqua che aveva in corpo.

Introdotta prontamente una nuova cartuccia nel fucile, guardai che cosa aveva fatto Good.

Il suo elefante, riconoscibile per le sue zanne formidabili, aveva ricevuto una palla di fucile, ma invece di slanciarsi contro il cacciatore era fuggito e lo vidi correre in direzione del nostro accampamento.

I compagni, spaventati da quella detonazione, avevano già preso rapidamente il largo, cacciandosi in mezzo alla foresta.

— Quatremain! — mi gridò Good. — Il mio elefante fugge!

— Lasciatelo correre — risposi. — Diamo addosso alla truppa!...

La nostra buona fortuna ci aveva messi in gran vena e ci slanciammo dietro alla banda, quantunque il sole fosse ormai diventato intollerabile.

Nella corsa furibonda i pachidermi fracassavano tutto sul loro passaggio, lasciando dietro di loro un immenso solco facile a seguirsi.

Per due ore continue noi corremmo sulle loro tracce, senza badare al calore intenso che ci faceva sudare come zolfatare, poi riuscimmo a raggiungerli nuovamente.

Si erano arrestati in una specie di spianata e si erano sdraiati per riposare, mentre un vecchio maschio si era posto in sentinella per non farsi sorprendere.

Dal modo con cui quelle povere bestie aspiravano l'aria per fiutare il nemico, ci accorgemmo che erano ancora estremamente inquiete.

— Facciamo fuoco sul maschio — diss'io.

Mirammo la disgraziata sentinella. I tre spari rimbombarono formando quasi una sola detonazione e l'animale cadde di colpo, rompendosi una delle sue lunghe zanne.

Al rimbombo di quegli spari la truppa fuggì di nuovo, precipitandosi in un torrente disseccato, dalle rive assai elevate e di difficile accesso.

I poveri pachidermi si accavallavano in una confusione indescrivibile cercando, ma invano, di rimontare l'opposta riva. Qualcuno riusciva ad inerpicarsi; poi capitombolava sconciamente nel torrente, cadendo addosso ai compagni.

Per noi era un'occasione straordinaria; potevamo far fuoco a volontà senza più correre il menomo pericolo; ci mettemmo dietro la riva del torrente ed incominciammo a sparare in mezzo al gruppo.

Altri cinque di quei colossi furono così abbattuti! Noi avremmo potuto ucciderli tutti se lo avessimo voluto, ma la tema di consumare troppe munizioni ci trattenne e lasciammo che i superstiti si salvassero scendendo il letto del torrente.

Veramente noi eravamo estremamente sfiniti dalla fatica e dal caldo; d'altronde potevamo ben essere lieti dello splendido successo, poiché credo che a nessun cacciatore sia forse mai riuscito uccidere otto elefanti in una sola mattina.

— Che giornata! — esclamò Good, con aria trionfante. — Una simile caccia merita un viaggio di quaranta o cinquanta giorni!... Amico Quatremain, avete mantenuto pienamente la vostra promessa.

— Potete essere lieti e soddisfatti di tale massacro — risposi io. — Nemmeno Cumming, il famoso cacciatore, ha mai potuto uccidere più di due elefanti in un giorno.

— E senza riportare alcuna ferita! — esclamò Good. — Ormai non temo più quei colossi!

— Adagio, amico!... Se l'elefante che ho ucciso con una seconda palla l'avessi mancato, non so se io sarei ancora qui a tenervi compagnia. Vedete!... Gli elefanti sono talvolta assai bizzarri. Certe volte invece di fuggire si scagliano con furore estremo addosso ai cacciatori e non c'è alcun pericolo che li spaventi; altre invece, ma più di rado, si spaventano e fuggono come un branco di antilopi.

— Signor Quatremain, — disse il signor Falcone, — che cosa faremo noi di tutti questi animali?

— Sceglieremo qualche pezzo migliore e lasceremo il resto alle jene ed agli sciacalli.

— Un vero peccato perdere tanta carne!

— E perdere anche le zanne!... — aggiunsi io. — Lasceremo qui parecchie migliaia di lire, signori!

— Sarebbe impossibile portarle con noi — disse il genovese. — Mi rincresce per voi, Quatremain.

— Bah! Ho dovuto perdere tante volte l'avorio acquistato col pericolo della vita. Signori miei!... Pensiamo alla colazione.

I nostri due servi avevano tagliato un pezzo di tromba ed una zampa d'elefante per farle arrostire, quindi ci mettemmo in cammino per fare ritorno al nostro accampamento. Eravamo già giunti a mezza via, anzi sul luogo dove Good aveva ferito l'elefante dalle grandi zanne, quando incontrammo una banda di gnù, bellissimi animali grossi quanto un giovane bue e col capo adorno di corna assai aguzze.

Essendo noi provvisti di carne in abbondanza li lasciammo andare senza inquietarli, ma Good che non aveva mai veduto questi animali in libertà, volle avvicinarli per osservarli a suo comodo.

Dato il suo fucile ad Umbopa per essere più leggero, si mise a correre dietro a loro sperando di raggiungerli; io ed il genovese ci eravamo in quel frattempo fermati per riposare un po'.

Erano appena trascorsi cinque minuti quando udimmo echeggiare un grido stridente.

Nel medesimo istante, sul cielo rosseggiante, vedemmo delinearsi la figura massiccia di un enorme elefante, mentre giungevano ai nostri orecchi delle urla di terrore.

— È l'elefante ferito da Good! — gridai, balzando in piedi.

— E che perseguita i nostri compagni — aggiunse il genovese, impallidendo.

Era vero: dinanzi all'elefante furioso correvano disperatamente Good, e Venvogel, l'uno era inerme e l'altro armato solamente della sua lancia.

Noi avevamo i fucili in mano, ma non osavamo far fuoco per tema d'uccidere i nostri compagni.

Durante quella corsa disperata Good, vittima del suo attaccamento alla civiltà, non poteva correre troppo in causa dei suoi calzoni che si attaccavano alle spine e dei suoi stivali che scivolavano sulle erbe secche. Era da temersi che da un istante all'altro cadesse e che la tromba dell'elefante gli piombasse addosso.

Noi non respiravamo più, aspettavamo con angoscia che il nostro disgraziato compagno si gettasse fuori di linea per fare fuoco.

— Good! — gridai. — Gettatevi da un lato.

Egli probabilmente non intese, anzi in quel momento sdrucciolò, cadendo a cinque passi dall'animale.

Lo credevamo ormai perduto ed avevamo già alzati i fucili quando il negro Venvogel, vedendo il povero tenente in pericolo, si volse verso l'elefante colla lancia alzata. Il pachiderma, furioso, si volse verso l'africano, ma questo, pronto come il lampo, gli squarciò il petto con un poderoso colpo della sua arma, facendo schizzare un torrente di sangue. L'animale, colpito a morte, cadde prima sulle ginocchia, poi stramazzò al suolo rimanendo immobile.

— Grazie, mio bravo cafro — disse Good, balzando in piedi. — A te devo la vita.

Umbopa si avvicinò a Venvogel e ponendogli una mano sulla spalla, pronunciò queste strane parole:

— Tu sei un valoroso: se un giorno dovessi diventare re, ti nominerei capo.