Le caverne dei diamanti/3. La decisione

3. La decisione

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2. La leggenda delle caverne dei diamanti 4. Caccia alle zebre

3.

LA DECISIONE


Dal capo di Buona Speranza a Durban s'impiegano ordinariamente da quattro a cinque giorni, se il tempo si mantiene tranquillo, se la nave non è una pessima camminatrice e se non si fa uno scalo troppo lungo a East London, località ove sempre ci si ferma per caricare delle partite di merci che vengono spedite dall'interno.

Essendosi il mare mantenuto calmo, noi non ci fermammo in quella piccola città che poche ore, avendo potuto i rimorchiatori condurre facilmente fino alla nostra nave le chiatte cariche di merci, sicché riprendemmo subito il nostro viaggio lungo le coste della Cafreria, navigando verso Durban.

L'offerta fattami dal signor Falcone, non mi era uscita dalla testa, anzi avevo continuato a pensarci sopra, però né io né i due amici ne avevamo più riparlato.

Passavamo tuttavia quasi tutto il giorno in compagnia e io raccontavo loro le diverse avventure di caccia toccatemi in tanti anni passati negl'immensi territori dell'Africa del Sud.

Finalmente una bella sera di gennaio, il mese più caldo in quelle parti del continente africano, noi giungevamo sulle coste di Natal. Colà le spiagge sono molto più pittoresche di quelle della Cafreria. Parallelamente al mare corrono delle collinette formate di una specie di sabbia rossa, ma nelle loro vallette si scorgono dei bellissimi boschetti, sotto la cui ombra s'annidano numerosi kraal cafri.

Avvicinandosi poi a Durban, lo spettacolo è più variato. Molti fiumi precipitano in mare scrosciando e rimbalzando sulle rocce che scendono a picco, essendo tutta quella costa assai elevata; più innanzi la natura selvaggia sparisce per dar luogo a delle vaste piantagioni di canne da zucchero, a giardini accuratamente coltivati e a delle casette bianche.

Il sole stava per tramontare fra un mare di luce porporina, quando udimmo il nostromo di bordo annunciarci all'orizzonte Durban.

Allorquando, dopo terminato il pasto della sera, salimmo sul ponte, la luna rischiarava il mare facendo impallidire i fuochi dei fari. Il vento che soffiava dalla costa ci portava i profumi dei giardini e le case spiccavano sulla spiaggia, tutte costellate di lumi.

Era una bella notte come non se ne vedono che nell'Africa del Sud e che invitava alla pace dell'anima.

Noi, appoggiati al bordo, contemplavamo in silenzio quella bella scena, quasi con raccoglimento. Ad un tratto il signor Falcone volgendosi verso di me, mi chiese a bruciapelo:

— Avete voi pensato alle mie proposte, signor Quatremain?

— Io spero che voi avrete deciso di tenerci compagnia, — soggiunse Good, — e ciò, malgrado tutti i pericoli che può offrire la nostra spedizione.

Mi levai di bocca la pipa, vuotai la cenere in mare, poi dopo un momento di riflessione, risposi:

— Sì, miei signori, ormai ho preso la mia decisione.

— Verrete dunque con noi? — mi chiese il genovese, con ansietà.

— Verrò con voi.

— A quali condizioni?

— Eccole: 1° Che i profitti della spedizione, dato il caso che noi riusciamo a scoprire le caverne dei diamanti, vadano divisi in parti eguali, fra me e il signor Good.

«2° Io m'impegnerò di seguirvi fedelmente durante tutta la spedizione, salvo che un accidente non mi arresti, verso un compenso di dodicimila lire da versarsi prima della partenza.

«3° Che voi v'impegnate, con atto notarile, di versare annualmente e per la durata di cinque anni, a mio figlio Harry, la somma di cinquemila lire, nel caso che io dovessi perder la vita durante la spedizione, o rimanere così gravemente ferito di non esser più capace di poter guadagnare da vivere.

«Queste sono le mie condizioni; se voi le trovate esagerate, ditemelo francamente; ma io credo che non le troverete tali, considerati i pericoli che dovrò affrontare per una causa non mia.»

— No, signor Quatremain, io le trovo giustissime e se mi aveste domandato anche di più non avrei mercanteggiato — disse il genovese. — Io desidero talmente aver voi per guida, che vi sarei stato egualmente obbligato anche se avessi dovuto sobbarcarmi ad un sacrificio molto maggiore.

— Io sono contento che voi non abbiate trovato soverchie le mie domande; mi preme però giustificare quelle che ho fatto riguardo a mio figlio. Il viaggio che noi stiamo per intraprendere è tutt'altro che facile, anzi vi premetto fin d'ora che noi dovremo affrontare dei grandi pericoli e sopportare forse delle grandi privazioni. Voi sapete quale fu la triste sorte toccata al portoghese che trecent'anni or sono si avventurò fra le sabbie del deserto, come voi non ignorate la miseranda fine del suo discendente. Credete voi che noi saremo più fortunati di costoro? Io ho i miei dubbi, quindi è mio dovere pensare all'avvenire di mio figlio che rimarrà forse solo sulla terra.

M'arrestai per vedere quale effetto producevano le mie parole sui due amici, ma mi accorsi che entrambi le avevano ascoltate senza batter ciglio.

— Credete ora che abbia avuto torto a dettare quelle condizioni?

— No, signor Quatremain; voi avete avuto perfettamente ragione — mi rispose il genovese. — Noi vedremo più tardi se i vostri timori si avvereranno. D'altronde se noi dovremo lasciare la nostra vita nel deserto, avremo fatta qualche buona partita di caccia in vostra compagnia.

— E ciò sarà stato un bel vantaggio — aggiunse Good. — Siamo uomini amanti delle avventure ed affronteremo serenamente i pericoli senza andare indietro.

— Una domanda ancora, signor Quatremain — disse il signor Falcone.

— Sono ai vostri ordini, signore.

— Credete che noi riusciremo a trovare mio fratello.

— Lo spero, se non sarà morto. Comprenderete bene che il viaggio che ha intrapreso non era esente da pericoli.

— Voi avete la certezza che si sia diretto verso le montagne di Suliman, è vero?

— Sì, signore.

— Allora noi andremo a cercarlo colà, innanzi tutto. Quando partiremo?

— Appena avremo acquistati i carri e trovati dei servi.

— Siamo d'accordo — concluse il genovese.

L'indomani noi sbarcavamo a Durban ed invitavo il signor Falcone ed il tenente Good ad alloggiare in casa mia.

Il mio dominio si componeva di una graziosa cassetta circondata da una veranda riparata da stuoie variopinte e d'un giardino ombreggiato da alcune felci arborescenti e da cinque o sei colossali niawna.

Essendo stato incaricato dei preparativi del viaggio, mi misi alacremente all'opera, tanto più che il signor Falcone, fedele alla promessa fatta, mi aveva già versate le dodicimila lire ed assicurata con atto notarile la pensione di mio figlio.

Acquistai innanzi a tutto uno di quei grandi carriaggi usati dai böers del capo di Buona Speranza, carri veramente monumentali, riparati nella parte posteriore d'una grande tenda, e che offrono molte comodità; quindi una ventina di buoi zulù sales, i più piccoli della specie, ma anche i migliori ed i più robusti.

Questi buoi non vanno soggetti alle molteplici malattie che colpiscono i loro congeneri delle regioni africane, avendo prima subito una specie di innesto che li rende invulnerabili alle pneumoniti ed allo scolo rosso.

Per fare questo innesto si prende un po' di polmone d'un animale morto di pneumonite, e il siero che ne cola lo si inocula nella coda del bue che si vuole rendere immune dalle suddette malattie.

L'animale perde la coda, rimane ammalato, ma poi riprende la sua vitalità e non corre più il pericolo di subire altri malanni.

La questione delle provviste era pure di una importanza capitale, non potendo noi caricarci di cose inutili o che i grandi calori del deserto potessero guastare; ma fu da me, con un po' di pazienza, risolta.

Alle provviste aggiungemmo una piccola farmacia da viaggio, provveduta da Good il quale s'intendeva un po' di medicina.

Rimanevano due cose ancora da ultimare. La scelta delle armi e dei servi.

Le prime mi furono procurate dal signor Falcone, e consistevano in tre eccellenti fucili a retrocarica, di forte calibro e tutti eguali, precauzione utile onde poter adoperare le medesime cartucce, ed in tre pistole.

Un po' difficile fu la scelta dei servi non potendosi fidare sempre degl'indigeni; ma finalmente riuscii a trovare un ottentotto chiamato Venvogel, che mi aveva già accompagnato altre volte nelle mie cacce ed un giovane zulù che si chiamava Khiva.

Erano entrambi onesti, infaticabili e robusti; devo però dirvi che l'ottentotto aveva una passione spiccata pei liquori e che quando aveva bevuto un po' troppo, non conosceva più né amici, né padroni.

Avremmo avuto bisogno d'un terzo servo, ma non ci fu possibile trovarne un altro che fosse deciso ad intraprendere un così lungo e pericoloso viaggio, quindi risolvemmo di partire egualmente.

Però la mattina scelta per la nostra partenza, mentre stavamo facendo colazione, il zulù venne a dirci che un giovane negro desiderava parlarci.

— Fatelo entrare — diss'io.

Un uomo di alta statura, dell'età di ventidue o venticinque anni, dalla pelle assai più chiara degli zulù, con due occhi assai intelligenti e coi lineamenti molto regolari per essere un indigeno, entrò salutandoci molto cortesemente.

M'accorsi subito che quel negro doveva occupare presso i suoi compatrioti un posto elevato, poiché portava attorno al capo un diadema di penne di avvoltoio, distintivo delle persone di alto rango presso gli zulù, e che aveva i capelli intrecciati, altro segno di alta distinzione.

Guardandolo attentamente, mi parve di averlo già altre volte veduto.

— Come ti chiami — gli chiesi.

— Umbopa — rispose l'africano, con voce robusta.

— Se non m'inganno, io ti ho veduto ancora.

— Il capo bianco ha veduto il mio volto alla Petite-Main, alla vigilia della battaglia.

Io mi ricordai di avere effettivamente veduto quel negro durante la guerra intrapresa dagli inglesi contro gli zulù, allorquando io servivo di guida a lord Chelmsford.

Mentre io ero occupato a ricondurre dei carri carichi di provviste destinate al corpo operante contro il re Cettivajo, quel negro mi aveva allora espresso i suoi dubbi sulle precauzioni prese dagli inglesi ed i fatti gli avevano dato pienamente ragione.

— Sì, — gli risposi, — ora mi ricordo di te. Ma perché sei venuto qui?

— Mi hanno detto che tu stai per partire assieme a dei capi bianchi che sono venuti da paesi assai lontani.

— È vero.

— Mi hanno pure detto che tu devi condurli nel paese dei manicos.

— Chi ti ha raccontato tutto questo? — chiesi io, bruscamente.

La cosa mi sembrava un po' strana, perché noi non avevamo parlato con chicchessia dell'itinerario del nostro viaggio.

— Che gli uomini bianchi non si offendano — mi disse il negro con una dignità tale che mi colpì profondamente. — Io so che vanno lontano ed io mi offro di accompagnarli.

— A noi non importa molto sapere chi te lo ha detto, ma prima di prenderti ai nostri servizi vogliamo sapere di quale paese sei ed a quale tribù appartieni.

— Io mi chiamo Umbopa, già te lo dissi.

«La mia tribù abita molto al nord di questi paesi, però sono stato molto tempo presso gli zulù i quali anzi mi hanno adottato.

«Ho servito il re Cettivajo come soldato durante la guerra contro gl'inglesi, poi sono venuto qui.

«Apprendendo che voi state per recarvi verso il settentrione, sono venuto ad offrirvi i miei servigi, desiderando ardentemente di tornarmene in patria. Io non vi domanderò né regali né danaro; mi basterà d'essere nutrito e vi assicuro che voi non avrete da lagnarvi di me.»

Il modo di parlare di quel negro era singolare; pure si capiva che diceva la verità. Conoscendo molto le varie razze dell'Africa del Sud, mi accorsi che egli non era un zulù di nascita; mi destava però qualche sospetto l'offerta fatta di servirci senza alcun compenso.

Chiesi consiglio ai miei compagni. Invece di rispondermi, il signor Falcone fece cenno al negro di alzarsi. Egli obbedì subito, lasciando cadere il suo mantello, non conservando altro che una collana d'unghie di leone ed il suo sottanino di stoffa rossa che gli cingeva i poderosi fianchi.

Era alto quasi sei piedi ed il suo corpo era perfettamente proporzionato; la sua pelle era appena bruna, il suo petto amplissimo, e portava nel mezzo le tracce d'una ferita, prodotta forse da qualche colpo di zagaglia.

Il signor Falcone gli si mise dinanzi, guardando con ammirazione quello splendido campione della razza africana.

— Voi formate una superba coppia — disse il signor Good. — Siete entrambi alti come granatieri della guardia e per robustezza, l'uno non la cede all'altro.

— Voi mi piacete — disse il genovese al negro. — Voi siete un uomo capace di rendere dei preziosi servigi e perciò vi prendo con noi.

L'indigeno lo comprese perfettamente, parlando anch'egli la lingua inglese e rispose:

— Io vi sarò fedele.

Poi guardando il signor Falcone, aggiunse con un certo orgoglio:

— Tu ed io, siamo due uomini forti.