Le caverne dei diamanti/17. Il ritorno

17. Il ritorno

../16. Le angosce della morte ../18. Una partita di caccia di Quatremain IncludiIntestazione 4 febbraio 2018 75% Da definire

16. Le angosce della morte 18. Una partita di caccia di Quatremain

17.

IL RITORNO


Terminato quel pasto che a noi sembrò il più delizioso fatto nella nostra vita, narrammo ad Infadou ed alla sua scorta le nostre stupefacenti avventure, facendo pianger più volte o fremere d'orrore l'uditorio.

— Ma dell'infame Gagoul, che cosa è avvenuto adunque? — richiese con stupore Infadou, quando io ebbi terminato il racconto.

— Ma non è tornata fra voi?... — chiedemmo noi con pari sorpresa.

— No, nessuno di noi l'ha veduta — ci risposero i koukouana.

— Che sia morta nell'abbassare la pietra? — disse il signor Falcone.

— Io comincio a crederlo — risposi.

— Vorrei essere certo di questo — disse Good. — Io ho giurato di vendicare la morte del povero Foulata e non abbandonerò questo paese se prima non ho la certezza che quella jena è morta; in caso contrario io andrò a cercarla dovunque e la strangolerò.

— Ma dimmi — chiesi ad Infadou. — perché sei venuto qui?

— Pel motivo che vi credevamo morti. Non vedendovi più tornare, Ignosi, inquieto sulla vostra sorte, mi comandò di venirvi a cercare e di esplorare la caverna.

— Conosci l'entrata?

— Sì — rispose il capo. — Ero già entrato nella caverna della morte dove trasportai il padre d'Ignosi assassinato da Touala.

— Ed il segreto delle caverne delle pietre scintillanti? — chiesi io.

— Ohime, no!... Se l'avessi conosciuto vi avrei guidato io, invece di affidarvi a quella vecchia jena. Uomini bianchi, ora che avete mangiato, riposatevi, poi ripartiremo per Loo onde tranquillizzare il re.

Accettammo il consiglio, essendo noi così stanchi da non poterci più reggere dopo tante fatiche, tante emozioni e tante veglie.

Ci sdraiammo sotto la tenda che i negri avevano rizzata e potemmo finalmente assaporare alcune ore di sonno tranquillo.

Infadou intanto aveva fatto i preparativi per la partenza, avendo fretta di ricondurci dal re. Prima però di abbandonare la montagna, noi volemmo rivedere la grotta della morte per sapere cosa era avvenuto della Gagoul ed anche per cercare, se era possibile, di entrare nella caverna dei diamanti, quantunque già io e Good avessimo le tasche piene e fossimo certi di possedere una cifra favolosa.

Guidati dal vecchio capo, rientrammo quindi nelle caverne e potemmo facilmente giungere là ove si trovavano assisi, alla funebre tavola, i defunti re dei koukouana e dove Touala lentamente si pietrificava.

Giunti presso l'enorme pietra che chiudeva la galleria della caverna dei tesori, scorgemmo un braccio magro e nero che era stato completamente staccato; lo riconoscemmo subito: era della Gagoul.

Comprendemmo tutto: la miserabile vecchia, per tema di non poter uscire in tempo, aveva allungato al di fuori del passaggio un braccio ed aveva fatto scattare la molla segreta, preferendo farsi stritolare sotto l'enorme peso della pietra, piuttosto che correre il pericolo di farsi prendere da noi o che giungessimo in tempo per sfuggire alla morte orribile, a cui la vendicativa donna ci aveva condannati.

Cercammo di scoprire il segreto, ma perdemmo inutilmente il nostro tempo. La parete rocciosa non aveva traccia alcuna ed appariva perfettamente liscia ed uniforme dovunque. La vecchia, morendo, aveva portato con sé anche il segreto di far scattare la molla e di riaprire la via che conduceva a quei favolosi tesori. È bensì vero che rimaneva il passaggio della miniera; avevamo però già provate tante angosce in quelle spaventose gallerie, che nessuno di noi si sentiva in caso di avventurarsi ancora là dentro, colla tema di smarrirsi in quel labirinto e di non poter poi più mai uscire.

Verso il tramonto abbandonammo la montagna per avviarci verso Loo e due giorni dopo noi rivedevamo finalmente il bravo Ignosi a cui raccontammo le nostre avventure. Apprendendo la fine della Gagoul, ci disse:

— Io sono contento di sapere che quella vecchia strega ha avuto la punizione che si meritava. Era da troppo lungo tempo la piaga di questo paese; era stata la causa principale di tutte le ribellioni e di tutti gli assassinii, come se quell'infame avesse avuto bisogno di spegnere continuamente delle vite per prolungare la sua. Colla sua morte la pace regnerà, d'ora innanzi nel mio regno.

Poi guardandoci con tristezza, continuò:

— È vero che voi vi preparate ad abbandonarci?

— Sì — rispose il signor Falcone. — Qui più nulla abbiamo da fare; tu eri venuto con noi come semplice servitore e ti lasciamo re possente d'un popolo ormai interamente devoto a te.

— Che cosa potrò fare per voi, per dimostrarvi la mia gratitudine?

— Governare il tuo popolo con giustizia, con saviezza e con moderazione ed abolire quelle atroci feste notturne che costavano tanto sangue ai tuoi sudditi. Sii felice, Ignosi e non dimenticare di rispettare la vita dei tuoi sudditi.

Il re stette alcuni istanti silenziosi, coprendosi il volto con ambe le mani, poi rispose con voce addolorata:

— Sì, io giuro di seguire i saggi consigli dei buoni capi bianchi, ma non potrò mai consolarmi dell'assenza vostra. Perché volete voi abbandonare il mio regno? Vi manca forse qui qualche cosa? Vi ho fatto io qualche cosa che possa esservi spiaciuta, per lasciarmi? Nei giorni dell'avversità voi mi avete prestato il vostro possente aiuto, e ora che io sono diventato re, che la pace regna e che i giorni difficili sono trascorsi, voi volete andarvene. No, miei padri bianchi, rimanete nel mio regno, rimanete presso di me. Prendetevi tutto quello che volete, chiedetemi qualunque cosa, io sono e sarò sempre pronto a soddisfare i vostri minimi desideri. Voi lo vedete, il mio regno ora è tranquillo, il soggiorno è felice, nulla manca qui e potreste essere forse più contenti qui che nei paesi civili.

— Grazie, Ignosi — disse il signor Falcone, con voce commossa. — Noi apprezziamo il tuo buon cuore, pure noi desideriamo rivedere la nostra patria.

— Oh!... — riprese egli con amarezza. — Ora vi comprendo!... Voi non desideravate che il possesso dei diamanti! Voi ora ne possedete e li preferite al vostro amico. Voi siete avidi di ricchezze come tutti gli uomini bianchi. Siano maledette le pietre scintillanti che mi rubano i capi bianchi! Io pronuncerò sentenza di morte contro chiunque ne farà uso nel mio regno. Andate, uomini bianchi! Voi potrete partire quando lo vorrete e vi darò una scorta. Ho detto!...

— Ignosi — diss'io, mettendogli affettuosamente una mano sulla spalla. — Tu adunque non ti rammenti più come il tuo cuore soffriva quando tu eri a Natal?... Tu sospiravi sempre di rivedere il paese ove eri nato e tutte le attrattive delle nostre città e tutti gli agi della civiltà non potevano farti dimenticare, né soffocare, il desiderio che ti spingeva verso le terre dei koukouana. E perché vuoi che il nostro cuore non provi il medesimo desiderio di rivedere la patria nostra? Io colà ho lasciato un figlio: perché suo padre dovrebbe abbandonarlo?

Ignosi abbassò il capo, mentre i suoi occhi diventavano umidi.

— Tu hai detto la verità, padre bianco — mi disse poi. — Le tue parole sono piene di saggezza. Sì, comprendo il vostro desiderio di tornare nella vostra patria.

«Voi partirete, il mio cuore però rimarrà ben triste, perché sento che io non vi rivedrò più mai e che io non udrò più mai parlare di voi.

«Quando l'età avrà incanutiti i vostri capelli, e che tutti tremanti vi stringerete verso il fuoco, col vostro pensiero tornate indietro e rammentatevi dei giorni che noi abbiamo trascorsi insieme, dell'aspra battaglia che diede a me il trono di Touala che tu, genovese, hai abbattuto colla tua forza di toro selvaggio.

«Amici, partite prima che i miei occhi si fondano in un ruscello di lagrime!

«Addio, amici bianchi! Siate felici nel paese dei vostri padri!...»

Si era alzato. Si avvicinò a noi guardandoci a lungo come se avesse voluto scolpirsi per sempre nel cuore i nostri volti, poi si gettò sul capo il mantello per nascondersi gli occhi e ricadde sulla sua sedia, mentre dei sordi singhiozzi gli sollevavano il petto.

Noi ci allontanammo in silenzio, col cuore rattristato da quella separazione ed entrammo nel nostro kraal senza aver scambiato una parola.

L'indomani noi abbandonavamo la capitale dei koukouana.

Infandou ci accompagnava con una scorta di venti uomini scelti fra i reggimenti dei bufali.

Quantunque l'ora fosse mattutina, tutti i dintorni del nostro kraal formicolavano d'indigeni, accorsi a darci l'ultimo saluto.

Gli uomini si gettavano ai nostri piedi stringendoci le ginocchia e le donne ci baciavano le mani gettandoci addosso dei fiori. Quella dimostrazione spontanea ed inattesa ci toccò vivamente il cuore.

Infadou ci condusse attraverso alle montagne prendendo un largo sentiero che si trovava al nord della grande via che noi avevamo percorsa e che era più comodo, essendo più piano. I cacciatori del paese lo frequentavano a preferenza dell'altra, quando si recavano nei paesi civili a vendere le penne di struzzo.

Fu anzi da uno di quei cacciatori che Infadou apprese, come in mezzo al deserto che noi ci preparavamo ad attraversare, si trovava una vasta oasi assai fertile e ci consigliò di dirigerci a quella volta per evitare il pericolo di morire di sete fra quelle sabbie infuocate.

Questo ci fece supporre che la madre d'Ignosi, prima di giungere alla colonia di Natal, fosse giunta in quell'oasi, salvando così la propria vita e quella del futuro monarca. Quattro giorni dopo noi giungevamo alla grande catena di montagne che divideva il paese fertile dei koukouana dalle sabbie aride del gran deserto.

Gli addii con Infadou e la sua scorta furono commoventi. Il bravo e valoroso capo, prima di lasciarci per sempre, ci chiese il permesso di abbracciare tutti, poi ci separammo e noi ci mettemmo animosamente in marcia attraverso le sabbie per giungere all'oasi, dove contavamo di arrestarci qualche tempo, prima d'intraprendere la seconda e più lunga marcia che doveva condurci al kraal di Sitanda.

Ci eravamo già allontanati dalla scorta, quando Infadou ci raggiunse per salutarci ancora. Il povero vecchio aveva le lagrime agli occhi e pareva che non sapesse decidersi a lasciarci.

— Addio, uomini bianchi — ci diss'egli, singhiozzando. — Io non rivedrò più mai le vostre sembianze!... Più mai i miei occhi potranno rivedere i grandi capi dalla pelle bianca! Non vi vedrò più, ma ricorderò sempre la vostra bravura nel condurre gli uomini alla guerra; mai dimenticherò il terribile duello che ha ucciso Touala e che ha dato un trono a mio nipote! Addio una volta ancora, valorosi uomini!

Noi eravamo più commossi di quanto credevamo, dinanzi a quella affettuosa dimostrazione. Good fu talmente tocco, che volle offrire un ricordo al vecchio capo e fece il sacrificio del suo monocolo, di quell'occhialetto che mai aveva abbandonato, nemmeno nei più tremendi momenti. Infadou apprezzò il giusto valore di quel sacrificio e vide subito quale prestigio gli avrebbe dato quel pezzo di vetro, che era appartenuto all'uomo bianco, di fronte ai suoi compatrioti.

Dopo alcuni tentativi infruttuosi riuscì ad aggiustarselo ad un occhio e ci lasciò commosso sì, ma fiero di quell'ornamento che forse lo stesso Ignosi gli avrebbe invidiato.

La nostra peregrinazione fra le sabbie infuocate del deserto cominciò. Marciammo tutta la giornata con grande lena, frettolosi di giungere nei paesi civili, poi alla sera ci accampammo in un avvallamento, ove avevamo trovato degli sterpi secchi.

Sapendo che il fuoco è indispensabile in quei paesi per tenere lontano le fiere, raccogliemmo quanti sterpi trovammo, quindi ci allestimmo la cena, consistente in gallette di sorgo, carne arrostita e birra indigena.

Quella prima notte la passammo tranquilla, e l'indomani riprendevamo la marcia sotto un sole cocente che ci minacciava ad ogni istante qualche insolazione pericolosa. Per due giorni ancora avanzammo in mezzo alle sabbie, poi il quarto giorno, essendo privi di provviste e stanchi, ci arrestammo ai piedi di alcune colline brulle e calcinate dal sole.

La nostra situazione tornava a diventare difficile, non avendo ancora raggiunto l'oasi. Correvamo un'altra volta il pericolo di morire di sete. La nostra provvista era già ridotta a due sole bottiglie d'acqua e molto scarse, essendo l'evaporizzazione rapidissima in quelle regioni così ardenti.

— Fermiamoci alcune ore e perlustriamo queste colline, per vedere se vi è qualche sorgente — disse il genovese. — L'oasi è forse ancora lontana e non è prudente continuare la marcia, stanchi come siamo e senza una briciola di sorgo.

— Se non troviamo dell'acqua, sarà un po' difficile che troviamo della selvaggina — rispos'io.

— Gli struzzi, voi lo sapete, frequentano anche le parti più aride dei deserti.

— È vero, potendo essi rimanere lunghissimo tempo senza bere, più ancora dei cammelli, ma finora non abbiamo veduto ancora uno solo di quei giganteschi volatili.

— Chissà! Speriamo — concluse il signor Falcone.

Dopo esserci riposati qualche ora, ci dirigemmo verso quel gruppo di colline per esplorarlo.

Il sole cominciava a tramontare in mezzo ad un orizzonte di fuoco e la luna a sorgere, quando giungemmo sulla più alta collina del gruppo. Girando intorno gli sguardi, in fondo ad uno stretto vallone scoprimmo delle piante che ci parvero delle acacie.

— Forse laggiù vi è qualche corso d'acqua — disse Good.

— È probabile — risposi io.

— Allora troveremo anche della selvaggina.

— Andiamo a vedere — suggerì il genovese.

Ci affrettammo a scendere la collina e giunti nel vallone, oltre parecchi gruppi d'acacie trovammo anche dei folti cespugli di mimose bianche e delle bellissime felci arborescenti che proiettavano una fresca ombra.

Proseguendo nelle nostre ricerche, non tardammo a scoprire un ampio stagno che serviva di scolo alle acque che si raccoglievano negli avvallamenti delle colline, durante i rarissimi sì, ma abbondantissimi acquazzoni, che talvolta si rovesciano su quelle regioni.

Subito notammo sulla sabbia umida delle rive numerose tracce di selvaggina, di struzzi, di antilopi, di giraffe, di zebre e perfino talune che sembravano fatte dalle zampe dei leoni.

Pel momento nessun animale si scorgeva; se però quelle tracce esistevano, ciò significava che gli animali dei dintorni dovevano talvolta venire a dissetarsi.

— Aspettiamo questa sera e vi prometto una buona cena — diss'io.

— Purché invece della minuta selvaggina, non arrivi quella grossa, armata di unghie e di denti — osservò Good.

— L'accoglieremo egualmente a colpi di fucile, è vero Allan? — disse il signor Falcone.

— E perché no? — risposi io. — La carne del leone non è così cattiva come si dice.

— Sarà dura come quella d'un vecchio mulo — disse Good.

— Non dico che sia tenera, ma per gente affamata può passare.

Ci dissetammo abbondantemente, poi essendo stanchissimi ci sdraiammo sotto la fresca ombra d'una felce arborescente e non tardammo ad addormentarci d'un sonno di piombo.

Quando mi svegliai il sole era tramontato, ed una splendida luna brillava in un cielo senza nubi. Vedendo che i miei compagni dormivano, trassi la pipa e due pezzi di selce regalatimi da Infadou per accenderla. Stavo per sbattere le pietre, quando pervenne ai miei orecchi un rumore come di foglie smosse.

Temendo che qualche fiera stasse spiandoci, armai pian piano il mio fucile, poi colla sinistra scossi fortemente il signor Falcone che mi dormiva accanto, dicendogli:

— Presto, svegliatevi, signore.

— Che cosa avete? — mi chiese il genovese, sbadigliando e stropicciandosi gli occhi.

— Credo che la cena stia per giungere.

— Sotto forma di quale animale?

— Pel momento lo ignoro, ma un animale è nascosto fra le mimose.

— Allora non lo lasceremo scappare.

Svegliammo Good, mettendolo al corrente di quanto accadeva, quindi ci nascondemmo in mezzo a una fitta macchia, aspettando che l'animale si mostrasse se per fargli fuoco addosso.

Passarono alcuni minuti senza che alcun rumore giungesse ai nostri orecchi, poi alla pallida luce della luna vedemmo uscire fra le mimose una massa enorme che a prima vista scambiammo per un elefante, quantunque ci sembrasse un po' troppo basso per essere uno di quei mostruosi pachidermi.

— Che bestione è quello la? — mormorò Good.

— Sembra un elefante — disse il signor Falcone.

— Od un ippopotamo?

— Un ippopotamo nel deserto? Non vi sono né laghi né fiumi qui.

— Signori miei, — diss'io che avevo osservato attentamente quell'animalaccio, — non è né l'uno né l'altro.

— Che cos'è adunque? — chiesero entrambi.

— Io vi dico che si tratta d'un rinoceronte.

— Cattivo vicino — disse il genovese.

— Dite cattivissimo. Simili animali sono più pericolosi dei leoni, degli elefanti e degli ippopotami.

— Allora lasciamolo bere in pace.

— E la nostra cena? — disse Good.

— Ci rifaremo più tardi — diss'io. — Se vi preme la vita non fate fuoco.

Infatti nulla avremmo avuto da guadagnare impegnando la lotta con quel mostruoso animale. È il più violento di quanti ne esistano ed anche il più coraggioso; perché quando è arrabbiato, e lo è quasi sempre, non esita a scagliarsi anche contro un'intera tribù di negri armati. È poi difficilissimo ad uccidersi, perché coperto d'una pelle assai fitta, e poche volte le palle riescono a colpirlo in qualche organo vitale.

Quello che ci stava dinanzi era lungo più di quattro metri e sul naso portava un corno formidabile, alto un metro, arma della quale si serve per sventrare gli avversari.

Essendo d'indole sospettosa, giunto all'aperto si arrestò per guatare a destra ed a manca ed aspirando fragorosamente l'aria, quindi si diresse verso lo stagno, mettendosi a bere.

— Allan — mi disse il signor Falcone che tormentava la batteria della sua carabina. — È buona la sua carne?

— Vorreste far fuoco, signore? — gli chiesi con tono spaventato.

— Ci si presenta così bene, che mi sento tentato di fargli fuoco addosso.

— Se siete stanco di vivere, fatelo pure.

— Non ho alcuna intenzione di morire, ma io credo che con tre palle lo si potrebbe abbattere e procurarci delle buone costolette.

— Che poi non sareste capace di digerire, essendo la carne di quelli animali eccessivamente coriacea.

In quell'istante l'animalaccio, quasi si fosse accorto della nostra presenza, volse la testa verso di noi, dando segni d'una certa impazienza.

— Non muovetevi — mormorai. — Se si accorge che noi siamo qui, ci piomberà addosso come un uragano.

— E noi lo riceveremo con una scarica generale delle nostre armi — rispose flemmaticamente il genovese.

Così dicendo aveva alzato il fucile per mirare, e nel fare quell'atto aveva urtato colla canna contro un ramo, producendo un rumore lieve bensì, ma che non era sfuggito all'udito acuto del rinoceronte.

Il sospettoso animale abbassò subito la testa mostrandoci il suo formidabile corno, come si preparasse a caricarci, però non si mosse. Noi, pur conservando una immobilità assoluta, ci eravamo preparati a riceverlo con una scarica generale delle nostre armi, quantunque io avessi ben poca fiducia nell'efficacia dei nostri proiettili contro quella corazza vivente.

L'animale continuava a guardarci, sempre tenendo il corno teso, come si divertisse delle nostre angosce. Ad un tratto però retrocesse vivamente verso i cespugli, guardando in direzione dello stagno.

Un ruggito formidabile si era udito nella valletta, rompendo il profondo silenzio che regnava sulle rive del bacino.

— Un leone! — esclamò Good.

— Ecco perché il rinoceronte si è affrettato a nascondersi — diss'io.

— Forse che così poderosi animali non osano affrontare i leoni? — chiese il genovese.

— Non è la paura che lo ha fatto nascondere — risposi. — I rinoceronti si battono contro tutti, perfino contro gli elefanti.

— Ed allora?

— Vorrà prima vedere che cosa farà il leone, per piombargli addosso di colpo.

— Stiamo per assistere ad una tremenda lotta?

— Certo, signore, ma avrà esito negativo per entrambi, lo vedrete. Se le unghie del leone poco possono contro la grossa pelle del rinoceronte, il corno di questi non potrà sfondare le costole a quello.

— Lo credete?

— Aspettate e ne sarete convinto.

Alla luce della luna, scorgemmo in quell'istante un superbo leone avanzarsi lentamente nella valletta, diretto verso la sorgente. Conscio della propria forza, veniva innanzi facendo udire, di quando in quando, la sua possente voce.

Pareva che sdegnasse di prendere qualsiasi precauzione, anzi che volesse annunciare a tutti la sua presenza.

Passo a passo giunse sull'opposta riva dello stagno e si mise a bere a lunghi sorsi, gettando però, di tratto in tratto, degli sguardi sospettosi a destra ed a manca. Forse il venticello notturno aveva portato fino a lui le emanazioni del rinoceronte.

— È splendido quell'animale — disse Good. — Quanta differenza di gesti dai leoni che si vedono nei serragli.

— E che incedere maestoso — aggiunse il genovese.

— Attenti al rinoceronte — diss'io. — Si prepara ad assalire.

Il colosso infatti era uscito pian piano dai cespugli, senza essere stato scorto dall'avversario, essendosi questo rimesso a bere.

Con uno slancio di cui non lo si sarebbe creduto capace, il rinoceronte attraversò lo spazio che lo divideva dalla riva, poi si scagliò in mezzo allo stagno, sollevando un'ondata gigantesca.

Il leone, scorgendolo, aveva fatto un salto indietro, sottraendosi a quel violento attacco e si era piantato sulle zampe, pronto a prendere, a sua volta, lo slancio.

I due formidabili avversari si guardarono l'uno l'altro per parecchi istanti, poi il rinoceronte abbassò l'aguzzo corno e caricò a fondo, all'impazzata, credendo forse di frantumare il re delle foreste.

Questi con un secondo slancio sfuggì a quella nuova carica, poi scattò spiccando un gran salto e cadde sul largo dorso dell'assalitore, tentando di lacerargli la pelle colle poderose unghie e di morderlo al collo.

Sentendosi straziare il dorso, il rinoceronte parve che impazzisse. Saltava come un dannato, si rizzava sulle zampe posteriori, mandava fischi stridenti e si scaraventava furiosamente in mezzo ai cespugli cercando di sbarazzarsi di quello strano cavaliere, ma senza riuscirvi. Il leone non lasciava il posto, anzi raddoppiava colpi di zampa, aprendo a poco a poco la grossa pelle del nemico e toccando la carne viva.

Perduta ogni speranza di scavalcarlo, il rinoceronte si diede ad un tratto ad una corsa precipitosa, sfrenata, attraverso la valletta. Lo vedemmo per alcuni istanti fra le piante della gola, poi scomparve ai nostri occhi senza che fosse riuscito a liberarsi dell'avversario.

— Ecco la nostra cena che se ne va — disse il genovese che si era prontamente alzato.

— Lasciamola correre, signore. C'era poco di buono da guadagnare, affrontando quei due formidabili animali, tanto più che ci avrebbero somministrato delle costolette indigeste.

— Credete che il leone possa riuscire ad abbattere il rinoceronte? — mi chiese Good.

— Lo dubito assai. A quest'ora il re delle foreste avrà lasciato la sua cavalcatura, mettendosi in salvo su qualche roccia.

— Che ferite però avrà fatto!

— Gravi senza dubbio, ma non mortali però. Bah! Hanno la pelle dura quegli animalacci e non si uccidono cosi facilmente.

— Pst!...

— Che cosa avete, signor Falcone? — chiesi.

— Ecco la cena che si avanza, e questa, migliore e meno pericolosa dell'altra. Guardate laggiù, Quatremain.

Guardai verso il deserto e vidi avanzarsi verso la gola della valletta una banda di giganteschi volatili, i quali si avvicinavano cautamente allungando i loro colli smisurati.

— Degli struzzi!... — esclamai. — Signori miei, se non vi muovete, ne abbatteremo qualcuno.

— Che entrino nella valletta! — chiese Good.

— Lo vedremo — risposi.

Gli struzzi si avvicinavano lentamente, come fossero indecisi sul da farsi.

Erano una dozzina, tutti altissimi, dai due ai tre metri e ricchi di quelle splendide piume che si vendono ad un prezzo così alto anche al capo di Buona Speranza.

Noi ci eravamo tutti alzati per salutarli con una scarica, ma quei giganteschi volatili non parevano disposti ad avvicinarsi, anzi nemmeno ad entrare nella valletta.

Dopo d'aver ronzato qua e là, vedemmo alcuni di loro scavare la sabbia colle zampe, poi coricarsi, mentre gli altri si tenevano in sentinella a varie distanze.

— Ora comprendo — dissi a Good, che mi interrogava. — Quelle che sono accovacciate sono femmine e stanno deponendo le uova nella sabbia. Amici miei: la cena è finalmente venuta e più deliziosa di quanto credevo.

Attesi alcuni minuti, poi vedendo che qualche femmina cominciava ad alzarsi, feci cenno ai miei due compagni di seguirmi.

Celandoci ora dietro le macchie ed ora dietro ai monticelli di sabbia che il vento aveva accumulati nella valletta, giungemmo ben presto a tiro di fucile.

— Mirate la testa — diss'io.

Tre spari rimbombarono, uno dietro l'altro. La banda dei volatili, spaventata, fuggì a precipizio sollevando, coi larghi piedi, un nuvolone di sabbia; uno però, dopo d'aver percorso cinquanta o sessanta passi cadde al suolo per non più rialzarsi. Gli altri invece continuarono la corsa e ben presto scomparvero dietro gli avvallamenti sabbiosi del deserto.