Le caverne dei diamanti/18. Una partita di caccia di Quatremain
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18.
UNA PARTITA DI CACCIA DI QUATREMAIN
Pochi minuti dopo noi eravamo seduti attorno ad un allegro fuoco, occupati a sorseggiare tre uova di struzzo che avevamo cucinate sulla cenere calda, in attesa che terminasse di arrostirsi un bel pezzo di carne.
Nella sabbia avevamo trovate quindici di quelle enormi uova, due delle quali sono sufficienti per fare una frittata per sei persone, quindi ormai non avevamo più da temere la carestia, per di più poi avevamo lo struzzo il quale avrebbe potuto bastarci per quindici giorni se avessimo potuto conservare la carne, cosa assolutamente impossibile, non avendo noi che una scarsissima provvista di sale.
In attesa dell'arrosto, ci eravamo sdraiati mollemente in mezzo alla fresca erba, assaporando un ben meritato riposo e chiacchierando tranquillamente sulle cacce, sugli animali e soprattutto sugli struzzi.
— Ditemi, Allan — mi chiese ad un tratto Good. — Avete cacciato altre volte lo struzzo?
— Parecchie volte — risposi. — Anzi un giorno ne abbattei un bel numero nel paese dei basuto.
— Raccontate un po', amico — disse il genovese. — Intanto l'arrosto si cucinerà perfettamente.
— Volontieri, — risposi, — tanto più che il mio racconto vi farà conoscere certi usi dei capi tribù negri, usi che voi forse non conoscete ancora.
— Udiamo!... Udiamo!... — esclamò Good.
— Avevo lasciato la colonia di Natal per condurre una carovana nel paese dei basuto. Si componeva di alcuni olandesi, i quali volevano recarsi presso quelle bellicose tribù per fare grandi acquisti di piume di struzzo.
«Eravamo già giunti nel distretto di Malupe e ci eravamo accampati presso un grosso villaggio comandato da un capo assai rapace, al quale dovevamo mandare dei regali perché ci accordasse il permesso di attraversare il suo territorio.
«In Africa, specialmente al sud, se non si paga il diritto di passaggio non si può avanzare che combattendo. I capi negri su questo punto non la cedono e cercano di spogliare meglio che possono le carovane, con quel sistema.
«Volendo noi procedere senza dover ricorrere alle armi, avevamo mandato in regalo, a quel piccolo re, alcuni fazzoletti; il furbo però che voleva taglieggiarci, colla scusa che la giornata era troppo avanzata per trattare, aveva rimandato l'affare all'indomani. Temendo però che noi ci disgustassimo ci aveva mandato in dono un bue, tisico e magro come un merluzzo, ma non importa.
«Era un dono da ladro, che ci faceva presagire, per più tardi un formidabile tributo da pagare.
«Quando all'indomani i nostri mandatari si ripresentarono al capo, dovemmo aggiungere al regalo alcuni metri di panno rosso e, di nascosto, facemmo tenere qualche cosa al vizir, un vuangana della costa, avido quanto il suo padrone, del quale era l'intimo consigliere.
«Pur facendo un po' il difficile, il capo finì coll'aggradire la nostra offerta: ma quando aprì la bocca, fu per tassarci di duecento dotis di hongo, più di seicento metri di stoffa, una vera rovina!
«In risposta a ciò, gli facemmo rimettere venticinque dotis che egli ci rimandò, e salimmo fino a quaranta, dichiarando che non ne avrebbe uno di più.
«Si profuse in belle parole: e ci spedì una capra che noi rifiutammo. Allora fece preparare del pombè — specie di birra africana ottenuta dalla fermentazione del sorgo — e ce ne fece portare delle otri. Egli stesso si mise a berne tanta, che in breve tempo cadde in una profonda ubriachezza.
«Ogni speranza di discutere il tributo per quel giorno, doveva essere abbandonata.
«All'alba del dì successivo gli rimandammo i nostri quaranta dotis con altre stoffe che egli di nuovo ci rinviò; e prima di mezzogiorno, l'interessante monarca aveva ricominciato a bere del pombè in quantità così grande, che ogni discussione dovette essere di nuovo interrotta.
«Il capo arabo, in compagnia del quale viaggiammo dal nostro ingresso in quella regione, venne allora a trovarmi, e mi propose di fare una battuta nelle vicinanze.
«"Il paese è ricco di struzzi," mi disse, "mi avete manifestato, lasciando Kuzi, il desiderio di dar loro la caccia; e questa è una bella occasione, che non bisogna lasciarci sfuggire."
«Ed era tanto più bella, in quanto che mi offriva il mezzo di vendicarmi di quell'insolente monarca, che passava in orge il tempo che avrebbe dovuto impiegare nel discutere il nostro tributo, e ciò coll'evidente scopo di trattenerci presso di lui il maggior tempo possibile ed obbligare in tal guisa i nostri portatori ad acquistare quantità di viveri dagli indigeni, giacché in questo consiste tutta la tattica di quei potentati: l'hongo è destinato a loro ed alla loro corte; l'utile del popolo consiste nelle provvigioni che vengono vendute alle carovane, ed il capo si guarda bene dal malcontentare i suoi sudditi, liberando troppo presto una spedizione.
«Feci sapere dunque allo scortese capo che non avendo nessuna volontà di lasciarmi spogliare, e che non avendo fretta a lasciare quel luogo, partivo per una passeggiata nei dintorni, dalla quale sarei ritornato quando Sua Maestà avesse digerito il suo pombè in modo da poter discorrere ragionevolmente.
«All'indomani, un'ora prima dell'alba, scelti dieci dei miei uomini e l'arabo venti dei suoi, ci incamminammo verso la grande pianura di Kuzi, che si stende all'est di Khunko.
«Non era ancora giorno quando uscimmo dalla foresta: allora fu stabilito che andrei a pormi, con dieci negri, nei cespugli che circondano la pianura dalla parte di Kuzi, mentre, risalendo un po' verso il nord e scaglionando i suoi uomini sul limite della foresta, l'arabo avrebbe formato un cordone di battitori, incaricati di spingere verso di me gli struzzi.
«Quando l'orizzonte cominciò ad illuminarsi, io mi trovavo al mio posto, mentre i negri erano disseminati intorno a me, nei cespugli: ma essendo cattivi tiratori in generale, mi avevano domandato il permesso, presentandosi l'occasione, di servirsi dei loro archi, il che m'affrettai ad accordar loro, colla espressa raccomandazione che nessuno di loro si muoverebbe prima che ne avessi dato io stesso il segnale, facendo fuoco.
«Frattanto il sole apparve; una pioggia d'oro fiammeggiante incendiò il suo canto mattutino: gli uccelli scherzavano tra le fronde, l'insetto sibilava sul suo filo d'erba, e, di tratto in tratto, correndo in cerca di un po' d'acqua, appariva un'antilope; s'arrestava un istante come pietrificata, poscia fuggiva con tutta la celerità, senza che un solo movimento da parte nostra avesse salutato il suo passaggio.
«La nostra immobilità era completa; il nostro silenzio assoluto.
«Ad un tratto, laggiù all'orizzonte, fin dove poteva giungere la nostra vista, apparve una nube che sembrava ondeggiare sulla pianura. Ma no, non è vapore, e lungi dal dissiparsi ai raggi del sole, si muove verso di noi, accorre, si avvicina, prende una forma, diventa una striscia nerastra: è qualche cosa che si avanza sollevando nembi di polvere.
«Molto da lontano si ode un fragore, come il mormorìo delle onde: sono i battitori; e quella tromba di sabbia è sollevata da una truppa di struzzi che si spinge verso di noi.
«Il mio cuore batteva violentemente, giacché finalmente li vedevo quei grandi trampolieri. Correvano con una rapidità vertiginosa, agitandosi un po' colle grandi ali, che fanno l'effetto di agili remi che battono l'acqua attorno ad una spiaggia.
«Dovetti risovvenirmi dei miei primi tentativi infruttuosi per non tirare troppo presto; nulla di più ingannatore delle pianure d'Africa; si crede la selvaggina a tiro, si fa fuoco, e l'animale quasi non se ne accorge. È soltanto dopo qualche tempo che vi accorgete ch'esso si allontana man mano che avanzate, e che vi tiene sempre ad una distanza rispettabile, la quale non può essere superata dalla portata del vostro tiro.
«Seppi contenermi; ma realmente era un bel spettacolo quello che offrivano quegli struzzi; accorrevano in squadroni serrati, dondolando senza grazia un collo lungo quanto le loro gambe, sormontato da una testa che sembrava piccolissima in proporzione della grossezza del corpo. I loro occhi grandi e spalancati ed il becco depresso dànno loro un'aria di stupore mista a stupidità; ed infatti è nota la fama meritata che hanno di imbecilli.
«Io, però, vedendoli giungere con quella celerità prodigiosa che certamente è una delle loro caratteristiche, li ammiravo e non pensavo che a misurare la distanza che me ne separava onde far cadere sotto i miei colpi il maggior numero possibile di quei giganteschi volatili.
«Accanto a me tenevo tre fucili carichi; appena gli struzzi furono a breve distanza presi di mira due dei più belli. Partiti i primi colpi, prendendo la seconda arma dalle mani del servo negro, feci fuoco ancora due volte sulla truppa che si sbandava; non ebbi il tempo di scaricare il terzo fucile, ma in compenso i miei uomini avevano salutate le prime detonazioni con una vera tempesta di frecce, parecchie delle quali colpirono nel segno.
«Senza indugiarmi nel guardare quelli fra gli struzzi che avevamo feriti e che si dibattevano sul suolo, avevo continuato il fuoco; ma si dovette presto perdere ogni speranza di inseguire la truppa.
«Allora uscii dal nascondiglio circondato dai miei negri, i quali sgambettavano allegramente alla vista di quei grandi corpi che giacevano a terra.
«Due struzzi erano stati uccisi dalle mie palle, un terzo era caduto crivellato di frecce; i negri tagliarono loro immediatamente la testa, gettando frenetiche grida.
«Non tardammo ad essere raggiunti dai battitori i quali avevano potuto uccidere uno struzzo. L'arabo ci felicitò vivamente, e ci assicurò che sebbene abbondante nella regione, quei grandi volatili sono difficilissimi a cacciarsi, tanto più non avendo cavalli per inseguirli finché siano stanchi, come si pratica ai confini del Transvaal e del deserto di Kalahari.
«Il nostro ritorno fu un vero trionfo. Il capo negro, tornato in sé per la ruvidezza della mia partenza, mi venne incontro con tutta gentilezza, m'assicurò della sua vera amicizia, ripetendo continuamente:
«"Oh! Questi bianchi! Essi possono tutto! Sono dei!"
«E, in una estasi religiosa toccava i miei fucili con rispetto e nello stesso tempo con bramosia.
«Ma all'indomani quando ricominciarono le trattative per l'hongo quell'ammirazione si tramutò nella domanda formale di un'arma simile; a questa condizione egli si sarebbe mostrato arrendevole nel resto. Nondimeno il tributo salì a novanta dotis di buone stoffe alle quali dovetti aggiungere un bariletto di polvere ed un fucile a pietra.
Gli struzzi potranno senza paura avventurarsi attorno alla capanna reale perché non sarà certo il regalo nostro, massime nelle mani del vecchio negro, quello che potrà arrestarli nella loro corsa. Dietro preghiera del capo gli lasciammo anche la pelle dei giganteschi volatili colla quale voleva fare degli eccellenti scudi.»
— Che furfanti di capi! — esclamò Good. — Sono tutti così avidi?
— Uno peggio dell'altro — risposi io. — Se date dieci vi domandano venti, e quando date venti vi domandano cinquanta.
— E se non si dasse niente e si passasse sui loro territori a grandi marce?
— Sarebbe peggio, non si tarderebbe ad avere alle spalle tutti i loro guerrieri. L'allarme si propagherebbe di villaggio in villaggio e si sarebbe costretti a procedere combattendo continuamente.
— Amici! — disse il genovese. — L'arrosto minaccia di abbruciarsi.
La cena non fu così eccellente come avevamo sperato. Sia che quello struzzo fosse assai vecchio o che la carne di quei giganteschi volatili sia realmente poco succolenta, trovammo l'arrosto assai coriaceo, tanto anzi che ci stancammo presto di masticare. Fortunatamente avevamo prima bevute le uova e le avevamo trovate non inferiori a quelle di gallina.
La notte trascorse tranquilla, però udimmo più volte risuonare nella valletta le risa sgangherate delle jene e le urla niente allegre di alcuni sciacalli, i quali si erano presi il permesso di offrirci una serenata poco attraente.
L'indomani, dopo d'aver vuotato tre altre uova di struzzo, riprendevamo la marcia su quelle sabbie ardenti che pareva non avessero mai confine. Cominciavamo a diventare inquieti, perché l'oasi indicataci da Ignosi e dai cacciatori della montagna non si scorgeva in alcun luogo.
— Che abbiamo smarrito la via? — mi chiese il signor Falcone, dopo due ore di marcia faticosissima. — A quest'ora noi dovremmo essere giunti all'oasi.
— Noi abbiamo costantemente seguita la direzione indicataci — risposi.
— Suppongo che quell'oasi non sarà scomparsa.
— Non lo credo, non soffiando qui quel vento impetuoso che si scatena nel Sahara e che gli arabi chiamano il simun. Forse i negri si sono ingannati sulla distanza da percorrere, ciò che è possibile essendo essi grandi camminatori.
— Diavolo! — esclamò Good. — Che dobbiamo soffrire un'altra volta la sete?
— Abbiamo riempite tutte le otri — risposi io. — Per tre o quattro giorni non correremo alcun pericolo.
— Ma poi?
— Chissà, forse troveremo qualche altra sorgente, quantunque mi abbiano detto che in questo deserto sono assai rare.
— Ma, ditemi Quatremain, non vi sono abitanti in questo deserto? — mi chiese Good.
— Vi sono anzi non poche tribù — risposi.
— Che vivono fra queste sabbie infuocate?
— Si, e quei negri si chiamano bosiesmani.
— E come fanno a vivere?
— Oh! Sono uomini che si accontentano di tutto. Quando non possono avere delle antilopi o degli struzzi non si fanno nessun scrupolo a divorare i serpenti e le lucertole.
— E l'acqua dove la trovano!
— Scavando dei pozzi profondissimi che poi nascondono gelosamente onde non possano venire scoperti.
— E dove si trovano questi negri?
— Dispersi pel deserto.
— Ne incontreremo?
— Non auguratevi di trovare una di quelle tribù — risposi io.
— Sono cattivi forse?
— No, ma respingono inesorabilmente chiunque tenti avvicinarsi ai loro pozzi. Essendo le loro provviste d'acqua sempre scarsissime, tanto anzi da soffrire sovente la sete, non permettono che uno straniero vada a consumargliela.
— Bah! I nostri fucili avrebbero facilmente ragioni sulle loro armi — disse Good.
— Camerata, guardatevene da quelle armi.
— Le lance non hanno mai vinti i fucili.
— Ma le frecce avvelenate talvolta sì.
— Forse che quei selvaggi possiedono dei veleni?
— E di terribile effetto, camerata. Un uomo colpito da quelle frecce è irremissibilmente perduto e nessun antidoto varrebbe a salvarlo.
— Alla larga, da quei messeri?
Mentre così discorrevamo continuavamo a marciare attraverso a quelle sabbie interminabili, guardando in tutte le direzioni per vedere se all'orizzonte si disegnavano le piante dell'oasi e sempre senza risultato. Sabbie e poi sempre sabbie, ora piane ed ora avvallate come le onde del mare, interrotte solamente da qualche macchia di sterpi o di spine, si distendevano senza tregua dinanzi ai nostri occhi addolorati dalla polvere impalpabile che noi alzavamo camminando.
Perfino gli animali mancavano. Non si vedevano più né struzzi, né antilopi, né cuagga, né zebre, segno evidente che quella parte del deserto era la più arida, priva assolutamente di poggi o di sorgenti.
Tutta la notte continuammo a marciare con una specie di rabbia o meglio con una specie di disperazione, poi verso l'alba, sfiniti, assetati, ci arrestammo in mezzo ad alcune rocce che s'alzavano solitarie fra quell'oceano di sabbie. Il sole cominciava ad alzarsi e la tema di venire colpiti da una meningite fulminante, ci obbligava ad arrestarci.
Prima di coricarci perlustrammo quelle rupi per vedere se in qualche luogo si trovava una sorgente onde rinnovare la nostra già quasi esausta provvista d'acqua, ma fu fatica sprecata. Durante l'esplorazione non vedemmo che una specie di grossa lucertola: null'altro.
Quella giornata fu terribile per noi. Una profonda tristezza ci aveva invasi unitamente a delle paurose inquietudini.
Credevamo di essere anche noi destinati a morire di fame e di sete come erano morti i due portoghesi.
— Orsù — disse il genovese, il solo che conservasse ancora una calma ammirabile. — Se è destino che noi dobbiamo lasciare le nostra ossa in questo deserto, prima cercheremo di lottare finché ci rimarrà un soffio di vita.
— Sperate ancora? — gli chiesi.
— Penso che se i sudditi di Ignosi ci hanno parlato di quell'oasi, quella terra verdeggiante noi la troveremo.
— Ma sapete che le nostre provviste sono quasi esaurite? — gli dissi.
— Quant'acqua ci rimane ancora, Quatremain?
— Forse un litro e mezzo. Se prima di domani mattina non avremo trovato una sorgente, noi cadremo tutti su queste sabbie e per non più rialzarci.
Il genovese mi guardò senza rispondere, poi si prese il capo fra le mani e mi parve che s'immergesse in tristi pensieri.
La giornata trascorse senza che la nostra situazione si cambiasse e giunta la sera riprendemmo la terribile marcia fra un calore così spaventevole, che ci sembrava di camminare in mezzo alle fiamme.
Le precedenti marce e la sete ci avevano anche così indeboliti che dopo i primi chilometri ci trovavamo quasi nell'impossibilità di continuare il cammino.
Fummo costretti ad arrestarci ed a bere un altro sorso d'acqua per calmare l'arsura che ci tormentava.
Eravamo allora giunti in mezzo ad una serie di alture rocciose, le quali ci limitavano l'orizzonte, impedendo ai nostri sguardi di spaziare lontano. Volendo io vedere se da qualcuna di quelle alture si poteva scorgere la sospirata oasi, facendo appello a tutte le mie forze mi arrampicai su una rupe, la quale s'alzava per cinquanta o sessanta metri.
Ero appena giunto sulla cima, quando scorsi delle ombre umane dirigersi verso una specie di gola, portando sulle spalle dei pacchi assai voluminosi e biancastri e che subito non riuscii a conoscere.
— Dei bosiesmani! — esclamai. — Che cosa vengono a fare qui?
Mi nascosi dietro un macigno onde non venire scorto, cominciando allora ad alzarsi la luna e stetti attento per vedere che cosa facevano e dove erano diretti.
Quei negri, una dozzina fra uomini e donne, si diressero lentamente verso l'uscita della gola, poi, dopo d'aver cercato per alcuni istanti, muovendo e rimuovendo le sabbie in vari luoghi, li vidi scaricarsi di quegli oggetti che portavano sulle spalle.
Compresi subito di che cosa si trattava.
— Sono venuti a fare le loro provviste d'acqua — mormorai.
Infatti, osservando con maggior attenzione, m'accorsi che quei fardelli altro non erano che delle reti ripiene di uova di struzzo, le quali dovevano servire da recipienti.
Non ne volli sapere di più e scesi precipitosamente per avvertire i miei due compagni.
— Amici — diss'io, correndo verso di loro. — Siamo salvi.
— Avete scoperto l'oasi? — chiese il signor Falcone, balzando in piedi.
— No, ma vi è una sorgente od un pozzo in queste vicinanze.
— Un pozzo? — esclamò Good. — Andiamo a vuotarlo, camerati. Io ho tanta sete da temere che tutta l'acqua che contiene non basti a spegnermela.
— Adagio amici, poiché ora vi sono i bosiesmani.
— Vi fossero anche venti leoni io andrò egualmente — disse il genovese. — Sono molti quegli uomini?
— Una dozzina.
— Divideranno l'acqua con noi o li prenderemo a colpi di fucile.
— Badate alle frecce avvelenate.
— Non mi fanno paura in questo momento. Presto, Quatremain, guidateci al pozzo.
Sapendo ormai dove si trovava la gola, mi cacciai in mezzo alle rocce, le quali formavano una specie di bizzarro labirinto, procedendo cautamente per tema che gl'indigeni avessero collocato delle sentinelle e che qualche freccia avvelenata mi colpisse d'improvviso. Dopo un quarto d'ora giungevo all'opposta estremità della valle, sempre seguìto dai miei compagni, i quali avevano armate le carabine.
Scorgemmo subito i negri ancora occupati a riempire d'acqua le uova di struzzo. Per compiere quell'operazione si servivano di cannelli che introducevano nella sabbia, sotto la quale doveva trovarsi il serbatoio d'acqua e passavano il liquido nelle uova riempiendosi prima la bocca, procurando di non perderne una sola goccia.
Quegli abitanti del deserto erano tutti di statura piuttosto bassa, d'una tinta giallo bruna, col corpo quasi ischeletrico, le braccia magre ma discretamente muscolose, le mani ed i piedi piccolissimi. Anche nei lineamenti erano un po' differenti dagli ottentotti che popolano le regioni sud-africane, avendo le labbra meno tumide, la fronte meno prominente ed il naso invece più schiacciato, anzi quasi quasi si confondeva cogli zigomi.
Tutti quegli uomini erano quasi nudi, non avendo che qualche pezzo di pelle ai fianchi, avevano delle strane pitture rosse, sul volto e sulle gambe.
Vedendoci, uno di essi si staccò prontamente dal gruppo e ci venne incontro tenendo in mano un arco ed una freccia, gridandoci in una lingua che subito compresi, avendo avuto già altre volte rapporti con quelli della sua razza.
— Che cosa vogliono gli uomini bianchi? Questa è la terra dei buschmen e nessuno ha diritto di calpestarla o le frecce tinte nel veleno dell'haja-uaje vi uccideranno.
— Noi siamo amici degli uomini dalla pelle nera, e non siamo qui venuti per farvi la guerra — risposi.
— Che cosa volete adunque?
— Veniamo a cercare un po' d'acqua perché moriamo di sete.
— L'acqua è troppo preziosa pei buschmen, perché possano darne agli estranei — rispose il negro.
— Voi avete un pozzo nascosto sotto le sabbie, perché non permettete agli uomini bianchi di bagnarsi la gola?
— Perché l'acqua racchiusa in quel pozzo è appena sufficiente alla nostra tribù.
— Noi ve la pagheremo.
— E noi non te la daremo — rispose duramente il negro.
— Allora ricorreremo alla violenza.
— Bada che noi abbiamo le frecce velenose.
— Noi possediamo delle armi ben più formidabili delle tue.
— Le frecce tinte nel veleno dell'haja-uaje non perdonano.
— E le nostre palle uccidono ad una distanza a cui mai giungeranno le tue frecce. Ne vuoi una prova?
— Dammela, e solo allora ti crederò.
— Ebbene, guarda.
In quel momento un grosso uccello dalle ali nere si era alzato da una rupe, tenendo stretto fra il becco un lunghissimo serpente, il quale si dibatteva tentando, ma invano, di sfuggirgli. Era un serpentario, uno di quei singolari volatili che pare non abbia altra missione che quella di purgare la terra dai rettili velenosi, che sono così abbondanti nelle regioni sud-africane. Sono uccelli assai coraggiosi e robusti, armati d'un becco acuto e molto lungo e di unghie poderose, e che alle estremità delle ali portano una specie d'uncini.
Non temono nessun serpente per quanto sia velenoso, ed appena ne scorgono uno vi piombano addosso stordendoli a colpi d'ala o spaccandone la testa a colpi di becco. Pare che il veleno non abbia nessuna influenza letale su di loro, poichè mangiano perfino la testa ai rettili che riescono a prendere, senza risentirne poi danno alcuno.
Vedendo quell'uccello volteggiare sopra di noi, ad un'altezza di cento metri, puntai rapidamente il fucile e dopo d'aver mirato alcuni istanti feci fuoco.
Il volatile, colpito mortalmente, ripiegò le ali, lasciò cadere il serpente, poi roteando su se stesso venne a cadere quasi ai miei piedi.
I bosiesmani, spaventati dalla detonazione e stupiti da quel colpo maestro si erano ritirati precipitosamente di alcuni passi, guardandoci con terrore. L'uomo che ci aveva minacciati era però rimasto intrepidamente al suo posto, tenendo sempre fra le mani l'arco e la freccia avvelenata.
— Saresti stato capace di fare altrettanto? — gli chiesi.
— Con quell'uccello no, ma con te, che mi sei così vicino sì — mi rispose egli arditamente.
Così dicendo aveva teso l'arco incoccando la freccia, come si preparasse a prendermi di mira.
— Che cosa fai? — gli chiesi.
— Provo contro di te la potenza della mia freccia avvelenata — mi rispose egli con accento freddo.
Il signor Falcone, sapendo che in quel momento io mi trovavo inerme, non avendo avuto il tempo di ricaricare l'arma, si era gettato dinanzi a me, mirando il negro.
— Fermati, uomo selvaggio, — gridò, — od io ti uccido.
Il negro probabilmente non lo comprese ed accostò la freccia all'occhio, prendendomi di mira; il genovese lo prevenne. Una detonazione rimbombò ed il bosiesmano, colpito in mezzo alla fronte, cadde al suolo fulminato.
I suoi compagni, vedendolo stramazzare, raccolsero precipitosamente le loro uova di struzzo e fuggirono all'impazzata nel deserto, gridando come una banda d'oche spaventate.
— Che cosa avete fatto, signor Falcone? — gridai.
— L'ho ucciso — mi rispose freddamente il genovese.
— Ma ora ci attireremo addosso l'ira dell'intera tribù.
— E noi la prenderemo a fucilate — disse Good. — Volevate che vi lasciassimo uccidere.
— Forse voi avete ragione, perché quel dannato negro pareva disposto a cacciarmi in corpo la sua freccia avvelenata, ma i suoi compagni vorranno vendicarlo.
— Credete che ritornino? — mi chiese il signor Falcone.
— Se non ritorneranno, ci aspetteranno di certo nel deserto.
— Bah! Quando vedranno che le nostre palle faranno dei grandi vuoti nelle loro file, ci lasceranno tranquilli. Amici, pensiamo all'acqua.
Assetati come eravamo ci mettemmo subito in cerca del pozzo, ma la cosa non era molto facile poiché, come dissi, i bosiesmani hanno l'abitudine di nasconderli gelosamente.
Infatti cercammo a lungo rimuovendo in più luoghi le sabbie e con esito negativo. Già disperavamo di trovarlo, quando tutto ad un tratto mancò il terreno sotto i piedi di Good e vedemmo scomparire il nostro compagno. Udimmo un tonfo seguito da un grido, ma che non era di spavento, anzi era un vero grido di gioia.
— Good! Good! — gridammo.
— Sono qui che bevo a crepapelle! — ci rispose.
Ci precipitammo verso il luogo dov'era scomparso e lo trovammo entro un piccolo serbatoio di due metri di circuito e profondo uno, immerso nell'acqua fino alle reni. Camminando a caso sopra il pozzo, la parte superiore, composta solamente di sterpi intrecciati, e ricoperti di sabbia, aveva ceduto sotto il peso ed il nostro amico era capitombolato dentro, senza di certo lamentarsi.
— Bevete amici! — diss'egli, porgendoci un otre ripiena d'acqua. — Questo liquido è più delizioso del miglior Champagne che produca la Francia, e della migliore birra che si fabbrichi in Inghilterra ed in Baviera.
— Non vi siete fatto alcun male almeno? — gli chiedemmo.
— Tutt'altro, ho preso un bagno delizioso che desideravo da lungo tempo.
La nostra sete fu estinta, ma vi assicuro che non avremmo fatto simile onore a nessun vino della terra, tanta fu l'acqua che ingoiammo.
Aiutato Good a risalire, pensammo a preparare la colazione. I nostri viveri ormai non consistevano che in un po' di sorgo e frutta secche; vi era però il serpentario, il quale poteva procurarci un arrosto, se non delizioso, almeno passabile.
Fatta raccolta di sterpi secchi accendemmo il fuoco ai piedi di un'alta rupe che proiettava su di noi un po' d'ombra, quindi preparammo il volatile, mettendolo ad arrostire infilato nella bacchetta d'un fucile.
Terminato il pasto, rinnovate le provviste d'acqua, ci affrettammo a trovarci un altro rifugio per non avere sotto gli occhi il cadavere di quel negro, accampandoci in un'altra valletta aridissima, dove avevamo scoperta una specie di caverna discretamente fresca.
Appena il sole tramontò decidemmo di rimetterci in marcia, temendo che i bosiesmani tornassero in grosso numero per vendicare il loro compagno. Sapendo io quanto sono vendicativi quei negri, avevo ragioni da vendere.
Marciammo tre ore continue, allungando sempre il passo e scrutando continuamente l'orizzonte per scoprire l'oasi tanto sospirata, poi affranti da quella corsa sostammo in mezzo ad alcune collinette di sabbia, dove si vedevano numerosi scheletri di antilopi e di struzzi, forse morti di sete o divorati da qualche banda di leoni.
Riposavamo da un'ora circa, quando il signor Falcone, che si era sdraiato sulla cima di una di quelle collinette per dominare il deserto, venne a dirci che aveva scorto dei punti neri avanzarsi attraverso le sabbie.
— Che siano i bosiesmani? — disse Good.
— M'è stato impossibile, in causa della grande distanza, distinguere se sono uomini od animali — rispose il genovese. — Credo però che faremo bene ad allontanarci subito di qui.
— No — risposi. — Rimanendo fra queste colline possiamo sfuggire agli sguardi di quegli uomini, ammesso che siano tali e nel caso che dovessimo venire assaliti, difenderci con vantaggio, mentre nella pianura verremmo subito scoperti e circondati.
— Voi parlate come un comandante — disse Good ridendo. — Signor Quatremain, noi vi nominiamo generale d'armata.
— Lasciate gli scherzi, signori — risposi. — Se sono i bosiesmani non avremo da stare molto allegri.
— Andiamo a vedere — disse il genovese.
Ci arrampicammo su di un monticello e guardammo attentamente l'immensa pianura sabbiosa, procurando però di non farci scoprire.
— Sono negri e non già animali — disse il genovese.
— E una truppa numerosissima — aggiunsi io.
— Una tribù intera — disse Good.
— Che siano i compagni dell'uomo che abbiamo ucciso od una tribù che attraversa il deserto? — chiese il signor Falcone. — So che i bosiesmani talvolta intraprendono delle emigrazioni.
— Vedremo dalla direzione che prenderanno — risposi. — Se si dirigono verso le vallette rocciose, non avremo più alcun dubbio sullo scopo del loro viaggio.
In quel momento udimmo Good a mandare un grido, poi rintronò un colpo di fucile.
— Fulmini!... — gridai.
Guardammo dietro di noi e vedemmo Good ai piedi della collinetta, mezzo sepolto fra la sabbia. Comprendemmo tosto che cosa era avvenuto. Il nostro compagno aveva perduto l'equilibrio ed era ruzzolato giù dal pendìo traendosi dietro un ammasso di sabbie, e nel cadere, il suo fucile, battendo forse contro qualche sasso si era scaricato.
Ci precipitammo verso di lui temendo che la palla lo avesse colpito; fortunatamente constatammo che il colpo era andato a vuoto.
— Imprudente!... — esclamò il signor Falcone. — Potevate uccidervi!...
— È stata la sabbia che è franata sotto i miei piedi — rispose Good.
— Dovevate abbandonare subito il fucile.
— È ciò che ho fatto, ma il colpo è partito egualmente.
— Sono felice che siate sfuggito al pericolo, camerata — dissi. — Ma con quello sparo ci mettete in pericolo.
— Che i bosiesmani abbiano udita la detonazione?
— Ne sono certo.
— Maledetto fucile!...
— Non maledite la vostra arma che a momenti ci sarà troppo preziosa.
Il signor Falcone era intanto risalito sulla collinetta per vedere se quella banda di negri aveva cambiata direzione.
— Amici — disse. — Essi hanno udito lo sparo e si dirigono da questa parte, correndo come antilopi ed agitando le loro zagaglie. Non udite queste urla selvagge?...
Tendemmo gli orecchi ascoltando con profonda attenzione; udimmo delle urla lontane, che diventavano però rapidamente più distinte.
— Sono i bosiesmani — dissi.
Risalii frettolosamente la collina e guardai nel deserto. La banda di negri correva verso di noi, urlando a squarciagola e tenendo alte le zagaglie dalla punta avvelenata e gli archi. Quei nemici che si preparavano ad assalirci per vendicare il loro compagno, erano almeno una sessantina, forza imponente per tre soli uomini, sia pure armati di fucili di lunga portata e ben provvisti di munizioni.
— Signor Quatremain, che cosa facciamo? — mi chiese il genovese. — Mi sembra che quei negri l'abbiano proprio con noi e che siano ben disposti ad assalirci. Credete che sia possibile la ritirata?
— Sarebbe troppo tardi — risposi. — E poi le nostre gambe non potrebbero gareggiare con quelle di quei negri. Fermiamoci fra queste colline che ci possono servire di barricate e prepariamoci a difenderci estremamente.
— Io credo che quando vedranno cadere parecchi di loro si decideranno a lasciarci tranquilli — disse Good. — Dannato colpo di fucile!... Senza quello sparo non avremmo addosso quei rettili velenosi.
— I rimpianti sono affatto inutili — rispose il genovese. — Siamo tutti buoni bersaglieri, le munizioni non ci fanno difetto e non siamo nuovi al fuoco. Voi Good difendeteci le spalle e noi due sosterremo l'attacco.
— Vado ad occupare la collina che sta dietro di noi — disse il tenente.
Il luogo dove ci trovavamo si prestava a meraviglia per una buona difesa. Era una specie di buca larga una trentina di metri e lunga il doppio, riparata da una collinetta di forma quasi circolare alta una ventina di meni, quindi con Good alle spalle noi potevamo essere certi di non venire colti di sorpresa.
I negri intanto si avvicinavano sempre, raddoppiando le urla. Ci avevano ormai scorti e si affrettavano, impazienti di darci battaglia.
Giunti a trecento metri da noi, s'arrestarono dietro un avvallamento del suolo, poi uno di loro, un capo certamente, avendo delle penne di avvoltoio infisse nei capelli, s'avanzò verso di noi tenendo in pugno uno scudo di pelle di elefante ed una lunga zagaglia colla punta di ferro.
Vedendolo accostarsi io balzai sulla cima della collina e lo presi di mira, gridando:
— Se tu ti avanzi, io ti uccido.
Il negro si arrestò, depose lo scudo e la zagaglia ed alzando le braccia disse:
— Che gli uomini bianchi odano le mie parole.
— Parla — risposi. — Noi ti ascoltiamo, ma poi uccideremo te ed i tuoi guerrieri, se sei qui venuto per intimarci la guerra.
— Voi avete ucciso un capo appartenente alla nostra tribù, il valoroso Pikakou.
— È vero — diss'io.
— La tribù chiede vendetta: voi consegnerete a noi l'uccisore o noi vi stermineremo tutti colle frecce avvelenate.
— E che cosa ne farete dell'uomo che ha ucciso Pikakou?
— Lo seppelliremo vivo nelle sabbie del deserto per placare lo spirito del morto.
— Grazie delle vostre buone intenzioni, ma nessuno di noi ha il menomo desiderio di andare a tener compagnia al vostro capo.
— Rifiutate?...
— Certamente — risposi. — Pikakou era un prepotente che tentava di uccidere a tradimento, mentre noi nulla avevamo fatto di male a lui, essendo noi amici dei negri e lo abbiamo ammazzato per legittima difesa.
— Pikakou era un prode.
— Era un furfante.
— Consegnateci l'uomo bianco che lo ha ucciso.
— Vieni a prendertelo, se l'osi.
— Allora noi vi uccideremo.
Il capo raccolse il suo scudo, poi impugnò la sua zagaglia ed in atto di sfida la scagliò, con un vigore ed una abilità straordinaria, fino alla base della collinetta, piantandola profondamente nella sabbia.
Io avevo alzato il fucile per abbatterlo con una palla nel petto, ma non volendo essere noi i primi a versare sangue umano, mi trattenni ed aspettai che i nemici cominciassero l'attacco.
Con mia grande sorpresa, vidi invece i bosiesmani accamparsi dietro alla collina, al riparo dei nostri colpi e raccogliere degli sterpi come si preparassero a costruirsi dei ripari contro i raggi infuocati del sole.
— Che abbiano voluto fare solamente gli spacconi? — disse Good. — Io credo che abbiano ben più paura delle nostre palle, che noi delle loro frecce avvelenate.
— Io penso invece che siano più furbi di quello che crediamo.
— E perché? — chiese il genovese.
— Quegli uomini, signor Falcone, si preparano a bloccarci nelle nostre trincee.
— Lo credete?
— Non vedete che stanno costruendo delle capanne?
— È vero, — disse Good, — ma noi non ci lasceremo di certo assediare.
— Allora bisognerà sloggiarli.
— E noi lo faremo.
— Saremo costretti ad abbandonare questi ripari naturali, ed esporci alle loro frecce avvelenate.
— Mi viene un'idea — disse il genovese.
— Gettatela fuori — diss'io.
— Aspettiamo la sera, poi tentiamo una vigorosa sortita notturna. Udendo gli spari delle nostre armi, e vedendo cadere parecchi di loro, forse non resisteranno all'attacco.
— Credo che la vostra idea sia la migliore — risposi io. — A mezzanotte noi tenteremo il colpo.
Vedendo che i negri non si occupavano di noi, approfittammo per fare colazione, poi ci accomodammo fra le sabbie, mettendoci in sentinella.
Essendo già spuntata l'alba, ed essendo noi sulla cima delle collinette, potevamo distinguere nettamente tutte le mosse dei negri. Essi avevano impiegato il resto della notte, a costruire numerosi ripari e ad aprire fra il bastione di sabbia che li difendeva, numerose brecce per poter più comodamente sorvegliarci.
Infatti, di quando in quando, delle teste si mostravano fra quegli squarci. Avremmo potuto facilmente colpirle, ma ci eravamo proposti di non aprire le ostilità prima che fosse giunta l'ora propizia. Il progetto di quei selvaggi era ormai chiarissimo. Essi contavano di costringerci alla resa, senza esporsi ai pericoli d'una battaglia. Ed infatti che cosa sarebbe accaduto di noi, se quel blocco fosse durato parecchi giorni. La fame, e soprattutto la sete, non avendo potuto portare con noi che l'acqua sufficiente per tre giorni, ci avrebbero obbligati a capitolare.
Come vedete la situazione era tutt'altro che allegra, non potendo noi recarci nella valletta dove avevamo ucciso il capo bosiesmano, senza esporci al pericolo di ricevere qualcuna di quelle terribili frecce avvelenate. La giornata, come avevamo previsto, passò tranquilla. I nemici non si mossero dalle loro posizioni; non ci perdettero di vista però un solo istante. Anzi ogni volta che qualcuno di noi si muoveva, trenta o quaranta teste apparivano improvvisamente dietro al bastione di sabbia ed altrettanti archi si tendevano, pronti a far piovere su di noi un nembo di dardi.
Giunta la sera, noi raddoppiammo la vigilanza, temendo qualche sorpresa; quelle precauzioni furono vane, poichè i nemici non diedero segno di vita.
Verso la mezzanotte, non udendo alcun rumore nel campo bosiesmano, ci alzammo tutti e tre risoluti a tentare un attacco disperato.
— Amici — disse il signor Falcone — combattiamo da forti o noi lasceremo qui la nostra pelle.
— Prima abbatteremo quel negro che veglia sul bastione — diss'io indicando un'ombra che si disegnava sulla cima della collinetta sabbiosa.
— M'incarico io di quell'uomo — disse Good. — Una domanda però: se i negri resistessero al nostro assalto, torneremo qui ad aspettare una morte angosciosa?
— No — rispose il signor Falcone risolutamente. — Noi fuggiremo attraverso il deserto difendendoci come meglio potremo. Chissà! Forse l'oasi non è molto lontana.
— Andiamo — diss'io. — Io ed il signor Falcone irromperemo nel campo girando il bastione a destra, mentre voi Good lo girerete a sinistra, così prenderemo i nemici fra due fuochi.
Ci stringemmo la mano, poi scendemmo risolutamente la collinetta, avanzandoci in silenzio verso il campo nemico.
Non essendo ancora sorta la luna, l'oscurità era così profonda da permetterci di avvicinarci al bastione, senza il pericolo di venire scorti dalla sentinella che vegliava sulla cima. Giunti a venti passi, senza che l'allarme fosse stato dato, dissi a Good, sottovoce:
— Incaricatevi di quell'uomo, ma aspettate che noi abbiamo girato il bastione.
— Avrò il tempo di mirarlo a mio comodo. Andate ed al momento opportuno prenderò i bosiesmani alle spalle.
— Siate prudente e non esponetevi troppo alle frecce di quei negri. Badate che le ferite che producono sono mortali.
— Mi nasconderò dietro qualche altura e farò fuoco al riparo dai loro dardi.
Egli si sdraiò sulla sabbia mirando la sentinella che se ne stava immobile sul bastione, appoggiata alla sua zagaglia, e noi ci mettemmo a strisciare per giungere al nostro posto.
Procedendo cautamente e nel più profondo silenzio, in pochi minuti riuscimmo a girare la collina senza essere stati scorti e ci trovammo a sessanta passi dalle capannucce dei bosiesmani.
— Mi pare che dormano tutti — mi disse il genovese.
— Infatti non odo alcun rumore — risposi.
— Quando Good farà fuoco, noi approfitteremo della loro sorpresa per attaccarli vigorosamente.
— Silenzio: guardate.
Alcune ombre erano in quel momento apparse dinanzi ad una capannuccia. Si erano accorte del nostro avanzarsi? Noi non lo potemmo sapere, poiché d'improvviso udimmo rimbombare la carabina di Good.
La detonazione fu seguìta da un urlo terribile, e vedemmo la sentinella cadere a capofitto giù dal bastione.
A quello sparo, che si ripercosse lungamente fra le colline di sabbia, tenne dietro un breve silenzio, poi delle vociferazioni spaventevoli echeggiarono nel campo nemico.
I bosiesmani, destati di soprassalto, si erano precipitati confusamente all'aperto, urlando ed agitando le armi. Delle frecce fischiavano in aria, ma lanciate a caso, essendoci noi tenuti bene nascosti.
— Siete pronto, Quatremain? — mi chiese il genovese.
— Sto già mirando il mio uomo — risposi.
Due spari rimbombarono e due negri, i più vicini, caddero l'uno sull'altro. I loro compagni invece di fuggire si precipitarono dalla nostra parte risoluti ad attaccarci, ma prima che fossero giunti a metà via altri due uomini stramazzarono sotto i nostri colpi.
Vedendo quel doppio colpo, s'arrestarono indecisi sul da farsi, scagliando un nuvolo di frecce, assolutamente inoffensive per noi, non avendo abbandonato il nostro riparo.
In quel momento udimmo Good a urlare:
— Avanti, compagni!... Spazziamo via queste canaglie!...
Poi seguì uno sparo.
I negri, accorgendosi d'essere presi anche alle spalle e credendo forse che ci fossero giunti degli altri rinforzi, abbandonarono precipitosamente il campo, disperdendosi pel deserto. Ne avevano avute abbastanza delle nostre palle e della perdita di sei uomini; per continuare la lotta.
— Evviva!... Urrah!... — gridò Good, correndoci incontro. — Speriamo che si siano convinti che le nostre armi sono ben più terribili delle loro frecce avvelenate. Credete che ritornino, Quatremain?...
— Lo dubito, — risposi, — però non fermiamoci qui a lungo. La loro tribù può essere numerosa e venire qui tutta. Vi ho già detto che questi negri sono assai vendicativi.
— Sì, partiamo — disse il signor Falcone. — Forse l'oasi non è lontana e giunti colà noi potremo riposare a nostro agio. Approfittiamo della insperata vittoria per prendere il largo.
Era forse il piano migliore e lo mettemmo in esecuzione senza altri ritardi, per impedire un nuovo assalto.
Orizzontatici colla Croce del Sud, abbandonammo il campo nemico, spingendoci rapidamente attraverso alle sabbie del deserto.
Marciavamo con grande lena per frapporre fra noi ed i nemici il maggior spazio possibile, non trascurando di guardarci attentamente attorno, per tema di un improvviso attacco.
I negri non si erano più fatti vedere; dubitavamo però che si fossero definitivamente allontanati. Essendo quella parte del deserto interrotta da un gran numero di colline sabbiose, poteva darsi che si fossero celati dietro a qualcuna per tenderci un agguato.
I nostri timori pur troppo non erano ingiustificati. Infatti avevamo percorso appena un miglio, quando passando accanto ad una collinetta fummo salutati da una volata di frecce.
Ci arrestammo subito dietro ad una roccia ed attendemmo che i nemici comparissero, per rispondere a quel brutale saluto.
Alcuni uomini non tardarono a farsi vedere, ma due colpi di fucile che gettarono a terra due di loro, bastarono per mettere in fuga gli altri.
Riprendemmo la ritirata, affrettando sempre il passo; fummo però costretti a sostare parecchie volte ancora per respingere nuovi attacchi. I bosiesmani, nascostisi fra le colline di sabbia, aspettavano che noi passassimo presso di loro per scagliarci dietro le loro frecce mortali. Combattemmo così tutta la notte sparando un gran numero di fucilate ed uccidendo parecchi nemici e fu solamente verso il mattino che riuscimmo a sbarazzarci completamente di quei negri vendicativi.
— Che testardi! — esclamò Good. — Dovevano ormai averlo capito che le loro frecce non valevano le nostre palle. Speriamo di giungere all'oasi senza venire altro disturbati.
— Chissà che a forza di marciare, un giorno o l'altro non si possa vederla — disse il genovese. — Se devo dire il vero, comincio a dubitare anche della sua esistenza.
— Sarebbe un colpo terribile, se noi non la trovassimo — diss'io. — Pensate che abbiamo una provvista d'acqua appena sufficiente per un giorno ancora: questo calore spaventevole ne consuma più di noi.
— Credete che ci manchi molto ad attraversare il deserto ed a giungere al kraal di Sitanda? — mi chiese il genovese.
— Almeno sei giorni — risposi.
— Allora senza trovar l'oasi o una nuova fonte, non si potrebbe giungere di certo in quel villaggio.
— È vero, signor Falcone. Senza l'incontro dell'oasi noi correremo nuovamente il pericolo di morire di sete fra queste sabbie.
— Ebbene, amici miei, allora vi dò la lieta novella che il pericolo è passato! — gridò Good che era dinanzi a noi.
— Perché? — chiedemmo noi ansiosamente.
— Perché scorgo laggiù delle piante.
— L'oasi forse?
— Lo credo.
— Allora siamo salvi!
Trovandosi sulla nostra destra una collinetta la salimmo rapidamente e di lassù potemmo distinguere una linea verdeggiante, la quale spiccava vivamente sulla sabbia quasi biancheggiante del deserto.
Un grido sfuggì dai nostri petti.
— L'oasi! L'oasi!...