Le caverne dei diamanti/16. Le angosce della morte
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16.
LE ANGOSCE DELLA MORTE
Nessuno potrebbe mai descrivere le angosce di quella prima notte passata nella caverna del tesoro; qualsiasi immaginazione non potrebbe avvicinarsi, nemmeno lontanamente, alla realtà.
Fortunatamente la natura, da buona madre, per qualche ora riprese i suoi diritti e, cosa appena credibile, noi, in mezzo a tante paure ed a tanti tristi pensieri, gustammo un po' di sonno calmando per qualche tempo le nostre ansietà.
Ma quanto fu terribile il risveglio! Avevamo creduto di aver fatto uno spaventevole sogno ed invece tutto era vero.
La tristezza, per un momento calmata, ci riprese più acuta di prima.
La sensazione più penosa per noi era quella del profondo silenzio che ci regnava attorno. Quel silenzio era assoluto, pauroso. Alla superficie della terra esiste sempre qualche suono, qualche movimento di cui non sappiamo renderci conto, che però esclude il silenzio assoluto, ma dove ci trovavamo noi, nel cuore della montagna, nessun rumore poteva giungere dal di fuori.
I nostri più prossimi vicini erano i re koukouana, avviluppati, rinchiusi nel loro involucro calcareo ed i morti, lo si sa, non sono capaci di produrre il menomo bisbiglio; e poi si fossero anche abbandonati a tutte le sarabande, a tutte le danze macabre, nulla avremmo potuto udire attraverso l'enorme spessore della roccia e la nostra tomba sarebbe rimasta egualmente silenziosa.
In mezzo a quelle tenebre, colla morte che ci stava così vicina, la vanità delle cose umane ci appariva allora in tutta la sua vacuità. Noi eravamo in mezzo a ricchezze incalcolabili: oro, avorio, diamanti: che cosa servivano a noi in questo momento? Ah! Con quanta gioia noi avremo scambiato quei tesori contro la nostra libertà, meno ancora, per un solo raggio di sole, per una boccata d'aria pura.
— Allan che ora abbiamo? — mi chiese ad un tratto il signor Falcone. — Voi avete ancora qualche zolfanello, se non m'inganno; guardate adunque.
Trassi di tasca la scatola e m'affrettai ad accenderne uno; il contrasto della piccola fiamma fra quelle tenebre profonde mi abbagliò; nondimeno vidi che erano le cinque.
In quel momento al di fuori l'alba doveva cingere di rosso la cima della montagna entro la quale noi eravamo sepolti e cacciare le tenebre dalle vallate. A quel pensiero un profondo sospiro di rimpianto mi uscì dalle labbra, e sentii il cuore farmisi grosso.
— Cinque ore! — esclamò il genovese. — Credo che faremo bene a mangiare un boccone onde conservare le nostre forze.
— A quale scopo? — chiese Good. — Se dobbiamo morire, trovo inutile prolungare la nostra agonia.
— No! — disse il signor Falcone, con energia. — Finché ci resta un atomo di vita non dobbiamo disperare: mangiamo.
Distribuì a ciascuno di noi un po' di sorgo, un pezzo di selvaggina arrostita e ci porse la bottiglia, consigliandoci però di economizzare l'acqua. Quantunque nessuno di noi avesse fame la piccola razione fu mandata giù e non ci trovammo male, poiché quel po' di nutrimento rialzò le nostre forze sì morali, che fisiche.
— Udiamo ora — disse Good, volgendosi verso il signor Falcone. — Quali speranze avete voi per cercar di prolungare la nostra esistenza?
— Nessuna finora — rispose il genovese. — Pure sento per istinto che noi non morremo qui dentro.
— Dite questo per farci coraggio?
— No, ve l'assicuro, Good.
— Allora voi contate su Ignosi?
— Forse.
— Ma, e la pietra che ci chiude, il cui segreto non è conosciuto da alcuno?
— Voi avete ragione, eppure non dispero ancora.
— Ascoltatemi amico; mi viene un'idea.
— Esponetela, Good.
— Se provassimo a gridare?
— Sono convinto che nessuno ci udrebbe.
— Se noi gridiamo qui, di questo sono certo, ma dietro il masso che ci chiude? Chissà, se qualcuno si trovasse nella camera della morte, forse potrebbe raccogliere qualche rumore. Volete che proviamo, Falcone?
— Tentiamolo, Good.
Quantunque fossimo più che convinti che nessuno sarebbe venuto in nostro soccorso, poiché certamente i re koukouana non si sarebbero mossi dalla loro funebre tavola alla quale si trovavano assisi da secoli e secoli, ci dirigemmo a tentoni verso la galleria, e giunti dietro alla pietra, ci mettemmo ad urlare con tutta la forza dei nostri polmoni. Good soprattutto metteva a dura prova la sua gola, facendo rintronare la galleria e la caverna, con una costanza invidiabile.
Naturalmente quello sforzo dei nostri polmoni fu assolutamente inutile; il ronzio d'una mosca avrebbe prodotto altrettanto effetto.
Più scoraggiati che mai per la nessuna riuscita di quell'ultimo tentativo e completamente sfiatati, ci ritirammo nella nostra caverna, lasciandoci cadere al suolo, ormai rassegnati alla nostra triste sorte.
Coricati l'uno vicino all'altro, sempre più atterriti da quel silenzio di tomba, attendemmo che la fame compisse il suo ufficio. Avevamo ormai perduto ogni speranza di rivedere la luce e non avevamo più nessuna fiducia nella Provvidenza.
La giornata passò senza che noi scambiassimo una sola parola.
Quale giornata! Io aveva passato nella mia vita degli anni che mi erano sembrati meno lunghi.
Quando accesi un altro zolfanello, vidi che erano trascorse già altre nove ore.
— Sono ventisei ore che siamo rinchiusi.
— Ventisei ore! — esclamò Good, balzando in piedi. — Ma com'è che l'aria non è ancora viziata?
Questa riflessione del nostro amico ci strappò bruscamente dal nostro mutismo.
— Ma sì! — esclamò il genovese. — Questa caverna non è grande ed in così lungo tempo l'aria avrebbe dovuto diventare irrespirabile.
— Che si rinnovi per mezzo di qualche fessura?
— Ma allora si dovrebbe vedere qualche barlume di luce — diss'io.
— Eppure quest'aria deve rinnovarsi — rispose Good.
— Amici! — gridò il signor Falcone. — Io comincio a sperare.
— Bisogna cercare.
Ci eravamo alzati tutti, girando intorno gli sguardi, pure nulla riuscimmo a vedere in alcuna direzione.
Ad un tratto un'ispirazione balenò nel cervello di Good.
— Rimuoviamo la catasta dei denti d'elefante! — esclamò.
Quegli enormi denti, disposti a strati, formavano una massa imponente alta più di quattro metri e larga altrettanto, occupando quindi un tratto considerevole della parete. Nella speranza che la fessura si trovasse da quella parte ci mettemmo febbrilmente al lavoro e alla luce di alcuni zolfanelli cominciammo a rovesciare quelle pesanti zanne, facendo un fracasso assordante.
Lavoravamo da circa dieci minuti con lena crescente, quando udimmo Good ad urlare:
— Camerati! Venite, adunque, venite!...
Guidati dalla sua voce lo raggiungemmo prontamente quantunque ci trovassimo nuovamente avvolti nelle tenebre.
— Che cosa avete trovato? — chiedemmo.
— Qui esiste un passaggio — ci rispose.
— Una galleria?
— Lo credo.
— Che abbia comunicazione con l'esterno? — chiese il genovese, con ansietà.
— Sento una corrente d'aria fredda che mi giunge sul viso.
— Vedete nessun barlume di luce?
— Non vedo che tenebre per ora.
— Potete passare?
— Sì, è abbastanza vasta per poter inoltrarmi.
— Purché poi non si restringa?
— Lo si vedrà più tardi.
— Avanti, Good.
— Sono già dentro! Seguitemi!
Il genovese s'aggrappò alla giacca del compagno, io a quella di lui, e tutti tre, spinti dalla speranza di poter lasciare la nostra tomba, ci mettemmo a strisciare in quella specie di tubo il quale saliva rapidissimo.
Di passo in passo che ci avanzavamo, una corrente d'aria pura ci giungeva, rianimando le nostre forze e riempiendo i nostri polmoni.
— Avanti, avanti — diceva affannosamente il genovese.
— Sì, avanti! — ripeteva Good che pareva delirante.
— Lassù vi è la libertà, la luce, la salvezza!
E tutti e tre procedevamo con impazienza, spingendoci l'un l'altro, ansiosi di lasciare quella caverna che per poco diventava la nostra tomba.
Tutto ad un tratto Good, che ci precedeva sempre, si arrestò, esclamando con accento spaventato:
— Tuoni! Cosa sono quei due punti luminosi?
— Vedete la luce? — chiese il signor Falcone.
— Ma no! Si direbbero due occhi fosforescenti.
— Qualche animale forse?
— Io non lo so, ma mi pare che si avvicinino.
— Bisogna retrocedere — diss'io. — Questa galleria potrebbe condurre nel covo di qualche bestia feroce.
— Good!
— Amico.
— Udite nulla?
— Sì, come un sordo miagolìo.
— Indietro! — gridai. — Potrebbe essere qualche leopardo.
Mi misi a retrocedere frettolosamente quantunque molto a malincuore, seguìto tosto dai miei due compagni ed in pochi istanti ci ritrovammo ancora nella caverna.
— Allan, voi che siete cacciatore, a chi credete che possano appartenere quei due punti luminosi? — mi chiese Good.
— Ad una fiera senza dubbio — risposi.
— Allora bisogna ucciderla — disse il genovese. — Lassù vi è la libertà e noi per conquistarla non dobbiamo arrestarci dinanzi ad una fiera, si tratti d'un leone, o d'un leopardo.
In quell'istante udimmo echeggiare entro la galleria un brontolìo rauco, gravido di minaccia.
— È un leopardo — dissi, armando precipitosamente il fucile, e mettendomi risolutamente dinanzi all'apertura.
— Come si trova in questo passaggio? — chiese il signor Falcone.
— Forse conduce nel suo covo — risposi.
— Allora abbiamo la possibilità di poter uscire.
— Sì, dopo ucciso il carnivoro.
— Lo scorgete?
Mi abbassai e guardai con precauzione entro quella specie di tubo e vidi, a breve distanza, brillare fra le tenebre due punti fosforescenti a riflessi verdastri.
— Eccolo! — esclamai.
— Appena comparisce nella caverna facciamo fuoco — disse il genovese, armando la carabina.
— No — gridai. — Simili animali posseggono uno slancio troppo pericoloso. No, amici: uccidiamolo prima che esca.
— Allora facciamo fuoco — disse Good.
Puntammo i fucili e tre detonazioni rimbombarono, facendo un fracasso assordante, che gli echi della galleria ripeterono a lungo.
Appena scaricate le armi balzammo giù dalla catasta dei denti d'elefante, rifugiandoci presso l'opposta estremità della caverna, non sapendo, con quell'oscurità, se la formidabile fiera era stata uccisa o se era ancora viva.
Cessato il rombo, verso la galleria udimmo a risuonare come un sordo miagolìo.
— Che l'abbiamo mancato? — chiese il genovese ricaricando precipitosamente l'arme.
— Mi sembra invece che il carnivoro sia agonizzante — risposi. — Se non fosse stato gravemente colpito, a quest'ora sarebbe qui; quei formidabili animali non esitano mai ad assalire i cacciatori.
— Bisogna assicurarsi se è vivo o morto — disse Good. — Non avete più zolfanelli?
— La mia scatola è vuota.
— Cerchiamo nelle nostre tasche — suggerì il genovese. — Forse ne troveremo ancora qualcuno.
Ci mettemmo a frugare e rifrugare tutte le saccocce e fummo tanto fortunati da trovarne sette: cinque ne aveva il signor Falcone e due io.
Ne accendemmo uno con grande precauzione, temendo che perdesse la capocchia di fosforo e salimmo sulla catasta di denti d'elefante, guardando entro la galleria.
Proprio presso l'uscita trovammo un superbo leopardo, grosso quasi quanto una tigre, con una splendida pelle giallo rossiccia a macchie nere irregolari, che diventavano più folte sulla spina dorsale.
Le nostre palle lo avevano colpito nel cranio e nel petto e la morte non aveva tardato a sorprenderlo.
— Sbarazziamo la galleria, poi fuggiamo — disse il genovese. — Se questo animale ha potuto giungere fino a noi, ciò significa che un passaggio esiste.
Afferrammo l'animale per le zampe anteriori e lo trascinammo fuori, precipitandolo nella caverna.
— Andiamo, amici! — gridò il genovese. — La libertà sta in fondo a questa galleria.
— Un momento, signori — gridai io.
— Che cosa volete?...
— E lasceremo qui tutti questi diamanti? Io voglio ben riempirmi almeno le tasche prima di andarmene. Camerati! Fate altrettanto!...
— Grazie, ma io ne ho abbastanza dei vostri diamanti, tanto anzi che mi fanno nausea — disse il genovese. — Eppoi pensate che non siamo ancora fuori e che potremmo essere costretti a ritornare.
Good non era più avido del suo compagno, pure tornò indietro ed entrambi ci gettammo sui tre forzieri riempendoci le tasche e la camicia di quelle preziose pietre. Ne avevamo almeno per trenta chilogrammi, una fortuna colossale, dei milioni e milioni.
Quando ci cacciammo nella galleria, il genovese si era già avanzato scandagliando prudentemente il terreno, per paura di cadere in qualche frana.
Ad un tratto Good, che era passato dinanzi al signor Falcone, avendoci assicurato che ci vedeva anche di notte, ci gridò:
— Fate attenzione!... Vi sono dei gradini.
— Abbiamo degli zolfanelli ancora — disse il genovese. — Accendiamone uno e vediamo dove si va.
Good ne prese uno e lo strofinò rapidamente. Alla luce di quel pezzetto di legno scorgemmo una scala scavata nella roccia e che discendeva.
— Avanti — disse il genovese.
Scendemmo adagio adagio contando i gradini; giunti al ventisettesimo trovammo una salita la quale pareva che descrivesse una curva verso sinistra, quindi sentimmo che le pareti si allargavano. Contemporaneamente un odore di carne corrotta ci giunse al naso.
— Questo deve essere il covo del leopardo — diss'io.
— Sì — confermò Good. — Vi sono delle ossa per terra.
— Allora l'uscita non deve essere lontana.
— Fermiamoci ed ascoltiamo — disse il genovese.
— Che cosa temete?...
— Se vi fosse la compagna della belva?...
A quella riflessione, non ostante il nostro provato coraggio, ci sentimmo invadere da un freddo sudore.
Ci arrestammo di colpo tutti tre, colle dita sul grilletto dei nostri fucili, guardando all'ingiro per vedere se scorgevamo degli occhi scintillare fra le tenebre; non vedemmo fortunatamente nulla.
— La tana è vuota — disse finalmente Good, respirando a lungo.
— Allora andiamo innanzi — disse il signor Falcone. — Ah!
— Che cosa avete! — chiesi.
— L'aria è diventata più fresca.
— Me ne sono accorto anch'io — risposi.
— Allora siamo vicini all'uscita.
— Lo spero.
— Avanti!... Avanti!...
Girammo lungo le pareti della piccola caverna e, trovato un passaggio, ci cacciammo risolutamente entro. La corrente d'aria veniva precisamente di là; era aria pura, fresca, vivificante.
Continuammo ad avanzarci in quella nuova galleria, mettendo un piede innanzi all'altro con precauzione e tenendo le mani tese per non romperci il capo contro qualche improvviso ostacolo. Tutto d'un tratto il corridoio ci parve attraversato da un altro passaggio.
— Che cosa facciamo? — chiese Gold indeciso sulla via da prendersi. — Vi è una galleria che taglia quella che abbiamo finora percorsa.
— Da dove viene la corrente d'aria? — chiese il genovese.
— Da destra, mi pare.
— Allora pieghiamo a destra.
Abbandonammo la vecchia galleria e prendemmo la nuova, la quale saliva rapidamente e irregolarmente, costringendoci a piegare di sovente ora a destra ed ora a manca.
La seguimmo per qualche tempo procedendo sempre con grandi precauzioni, essendo perfettamente all'oscuro, poi ci trovammo nuovamente dinanzi ad una nuova biforcazione. Una viva ansietà cominciò a prenderci, temendo di esserci smarriti in un vero labirinto sotterraneo.
— La nostra situazione si complica — disse Good. — Dove ci troviamo noi?...
— Credo di averlo indovinato — rispose il genovese.
— Spiegatevi, signore — dissi.
— Noi forse ci troviamo nelle gallerie di qualche antica miniera — mi rispose il signor Falcone. — Tutti questi passaggi che si tagliano l'un l'altro e che salgono e che scendono, me lo fanno sospettare.
— Sapete che ho notato una cosa? — diss'io.
— Volete dire che la corrente d'aria fresca non si sente più?
— Sì, signor Falcone.
— L'ho notato anch'io, ma prima di ritornare andiamo a vedere dove va a finire questo passaggio.
Ci arrestammo un momento per riposare, quindi riprendemmo quella marcia che durava già da più d'un'ora, senza aver potuto vedere un solo raggio di luce, che ci promettesse una prossima liberazione.
Continuammo per un'altra lunga mezz'ora a salire e scendere, seguendo le capricciose curve delle gallerie, abbandonando le vecchie per entrare in altre, spinti innanzi da una crescente angoscia, cominciando ad infiltrarsi nei nostri animi il timore di aver smarrita la via buona e di esserci perduti in un labirinto senza uscita.
Camminavamo da qualche minuto in un'altra galleria, forse la ventesima, quando ai nostri orecchi giunse un sordo rumore.
— Non udite voi? — chiese Good arrestandosi, e volgendosi verso di noi.
Tendemmo gli orecchi ed ascoltammo trattenendo il respiro.
— Sì — disse il genovese. — Sembra il gorgoglìo d'un corso d'acqua.
— Dove scorre? — chiesi io.
— Dinanzi a noi — mi rispose Good.
— Raggiungiamolo — dissi. — Seguendo quel torrente siamo certi di giungere fuori.
Rianimati dalla speranza di poter giungere presto all'aperto, riprendemmo le mosse, seguendo il rumore di quel corso d'acqua. Io rinuncio a descrivervi il benessere che ci procurava quel gorgoglìo rompente la tristezza mortale di quel silenzio che fino allora era regnato intorno a noi. Di passo in passo che ci avanzavamo, il rumore aumentava sempre.
Era certamente prodotto da una forte corrente d'acqua che precipitava di cascata in cascata; ben presto divenne più intenso, anzi formidabile in mezzo a quel profondo silenzio.
— Attenzione! — disse il genovese. — Attenzione, Good! Voi che siete dinanzi a tutti, guardate di non cadere nel torrente poiché mi sembra che ci sia vicino.
— Non abbiate timore, amico — rispose Good. — Mi sono talmente abituato a questa oscurità che mi sembra di aver degli occhi alle dita delle mani e dei piedi.
Aveva appena terminato di parlare quando udimmo un tonfo nell'acqua, seguìto da un grido soffocato.
— Good! Good! Dove siete voi? — gridammo, arrestandoci di colpo.
Udimmo l'acqua a gorgogliare, poi una voce ci rispose:
— Sono qui! Sono qui!
— Dove?
— In acqua.
— Vi siete fatto male?
— Non credo, accendete un zolfanello onde veda dove sono.
Il genovese si affrettò ad obbedire ed alla scarsa luce di quello stecco scorgemmo Good aggrappato a una roccia, la quale si alzava come un isolotto in mezzo ad un largo corso d'acqua nera, sulle cui rive noi ci eravamo arrestati.
Avevamo avuto appena il tempo di vederlo che il genovese, sentendosi bruciare le dita, lasciò andare il zolfanello, sicché ci trovammo ancora fra le tenebre. Good però ci aveva scorti e si era messo a nuotare verso di noi, guidato anche dalla nostra voce. Ben presto giunse alla riva, dicendoci:
— Che brutto capitombolo, amici miei! Se non avessi avuto la fortuna di saper nuotare, non mi avreste di certo più riveduto.
— Era molto alta l'acqua di quel torrente?
— Non sono stato capace di toccar fondo.
Malgrado la morte ci sembrasse quasi inevitabile, noi provammo una gioia indescrivibile nel rivedere vivo, presso di noi, il nostro compagno. Eppure quale speranza ormai ci rimaneva? Più nessuna fuorché quella di errare all'avventura di galleria in galleria, finché la fame e la fatica ci avessero vinti.
— Che cosa facciamo noi? — disse il genovese, con voce desolata. — Ormai è evidente che noi abbiamo smarrita la buona via.
— Lo credo anch'io, — rispose Good, — tanto più che la corrente d'aria fresca è venuta a mancare.
— Volete ritornare? — chiesi.
— Lo credo necessario.
— Però io vorrei prima vedere se non esiste alcun passaggio.
— Sì, accendiamo un altro zolfanello e guardiamo — disse Good.
Il nostro quarto pezzetto di legno fu consumato e quel po' di luce ci convinse che la galleria terminava sulle rive di quel profondo torrente.
Decidemmo di ritornare sui nostri passi per giungere nella tana del leopardo, prima però di abbandonare quei paraggi c'immergemmo nelle acque fresche del torrente. Quel bagno ci ringagliardì alquanto e riprendemmo la via del ritorno con minor tristezza di quanto credevamo.
Giunti alla prima biforcazione della galleria, ci arrestammo, indecisi sulla via da prendere.
— Una galleria vale l'altra — disse il genovese. — Noi camminiamo ormai senza speranza di poter vedere la luce; prendiamo la destra o la sinistra, tanto vale.
Si mise alla testa e riprendemmo l'interminabile marcia. Noi camminavamo lentamente, come gente che sa di compiere degli sforzi completamente vani.
Una galleria seguiva l'altra con una monotonia desolante; una ancora, poi un'altra e tutte lunghe, interminabili, silenziose come tombe, ed oscure.
Quanta tristezza nei nostri animi!
Quanta demoralizzazione e quante angosce!
Tutto ad un tratto io urtai contro il genovese il quale si era improvvisamente arrestato.
— Che cosa avete? — gli chiesi.
— Non vedete là in fondo, dinanzi a noi, una specie di luce? — mi chiese egli con tono di voce che l'emozione rendeva tremante.
Subito nulla vidi, però dopo qualche istante mi sembrò di distinguere una pallida luce, che spiccava fra la profonda oscurità. Era l'effetto delle nostre fatiche, oppure un'allucinazione dei nostri sguardi?
— Mi sembra di vedere qualche cosa — diss'io. — Non so se vi sia della luce; tuttavia si direbbe che le tenebre si dissipano laggiù.
Noi avevamo già sperato e disperato tante volte nel corso delle nostre pericolose avventure, che non potevamo credere a tanta fortuna.
Nondimeno quel chiarore aveva esercitato su di noi un fascino irresistibile. Le nostre forze già tanto esauste erano tornate prontamente; non camminavamo più, correvamo.
A poco a poco la luce diveniva meno indecisa; era ancora tanto pallida, che io credo che solamente i nostri occhi, già da tante ore abituati alle tenebre, avrebbero potuto distinguerla. Nondimeno quella luce esisteva e per noi era la vita, era la libertà.
La galleria andava restringendosi rapidamente, convertendosi in una specie di gola da camino. Il genovese aveva dovuto prima procedere curvo ed ora era costretto a strisciare come un serpente, ma cosa importava? Dei buffi d'aria fresca e pura, di vera aria di montagna, giungeva fino a noi.
Noi ci trascinavamo dietro al signor Falcone, aiutandoci colle mani e coi piedi, sforzandoci di passare fra le rocce che sempre più si stringevano attorno a noi.
Il signor Falcone, giunto ad un certo punto, si arrestò, gridando:
— Amici, vedo il cielo stellato!
— Avanti, avanti! — gridammo.
— Non posso più passare.
— Bisogna andare innanzi o non usciremo più mai — diss'io.
Il genovese faceva sforzi disperati per poter superare l'ultima stretta. Finalmente dopo essersi insanguinati i fianchi e rotte le unghie contro le rocce riuscì a passare; noi, che eravamo più magri di lui, l'uno dopo l'altro gli tenemmo dietro.
Dio! Quale gioia! Sopra le nostre teste scorgevamo l'azzurra volta del cielo ancora scintillante di stelle.
C'eravamo appena alzati, quando la terra franò improvvisamente sotto i nostri piedi, e ci sentimmo travolti in una corsa vertiginosa.
In capo a pochi istanti, sentendo sotto le mie mani un ramo, mi vi aggrappai con la forza della disperazione, gridando:
— Signor Falcone! Good!
Il genovese rispose subito al mio appello. Egli aveva continuata la discesa ed era andato a rotolare in mezzo ad una folta prateria, mentre Good si era arrestato a pochi passi da me, a cavalcioni d'una radice.
Ci affrettammo ad abbandonare i nostri posti ed a raggiungere il genovese.
Quella caduta inattesa ci aveva scombussolati, anzi tramortiti, e ci vollero parecchi minuti prima che potessimo rimetterci.
Noi rimanemmo là sdraiati in mezzo alla fresca erba, assaporando il piacere dell'esistenza guadagnata a prezzo di tante angosce e di tante fatiche. Era tanta la nostra gioia, che per un sentimento naturale ci mettemmo a piangere, ringraziando la Provvidenza di averci fatta prendere quella galleria che doveva condurci alla libertà.
La notte fuggiva. Là dinanzi a noi, la grande montagna cominciava a rischiararsi sotto i primi albori ed i nostri occhi poterono contemplare quell'aurora rosseggiante che noi credevamo di non più rivedere.
Quando il sole spuntò sull'orizzonte noi ci accorgemmo di trovarci in fondo a quella grande escavazione ove si ergevano i tre Silenziosi, le cui forme gigantesche spiccavano nettamente sul cielo rischiarato dalla luce mattutina.
Senza alcun dubbio quell'interminabile galleria, che noi avevamo percorsa durante la notte, aveva altre volte servito di comunicazione con la famosa caverna dei diamanti.
Il giorno era venuto. Guardandoci l'un l'altro, noi avemmo paura; eravamo ridotti in tale stato che nessuno certamente dei koukouana ci avrebbe di primo acchito riconosciuti. Eravamo coperti di sangue e di fango, avevamo le vesti a brandelli, gli occhi pesti, i lineamenti alterati e sul volto l'impronta delle lunghe angosce sofferte. Da cronista fedele devo però dirvi che malgrado le tante avventure passate ed i pericoli affrontati, il monocolo di Good non aveva disertato il suo posto; voi forse non lo crederete, ma io l'ho constatato coi miei occhi.
— Andiamo camerati, non immobilizziamoci qui — disse il signor Falcone. — Se noi ci fermiamo ancora mezz'ora, non saremo più capaci di muoverci.
Il genovese aveva ragione; la stanchezza guadagnava le nostre membra già messe a dura prova durante quelle lunghe marce; se noi tardavamo ancora un po', non saremmo stati più capaci di muoverci.
Impiegammo non meno di un'ora per lasciare quell'avvallamento, ma finalmente, aggrappandoci alle piante, alle radici ed alle erbe, riuscimmo a guadagnare l'altipiano che si estendeva sui fianchi della montagna.
Stavamo per lasciarci cadere al suolo completamente sfiniti, quando udimmo il signor Falcone a gridare:
— Vedo degli indigeni occupati a preparare la colazione.
— Dei koukouana?
— Mi sembrano tali.
— Andiamo a raggiungerli — gridò Good.
Ci eravamo rialzati, risoluti a spingerci più innanzi per prendere parte alla colazione, essendo noi sfiniti dalla fame, quando vedemmo uno di quegli indigeni staccarsi dal gruppo, correrci incontro, poi cadere al suolo facendo un atto di spavento.
Quell'uomo lo riconoscemmo subito: era il capo Infadou.
— Hai paura dei tuoi amici? — gridammo.
— Ma adunque voi non siete gli spiriti degli uomini bianchi? — gridò egli, piangendo di gioia, e stringendo le ginocchia del genovese. — Noi vi avevamo creduti già morti.
— No, amico — disse il signor Falcone. — Noi siamo ancora vivi, ma senza la protezione del nostro Dio, noi saremmo morti di fame nella caverna delle pietre scintillanti.
Pochi minuti dopo quell'incontro, assolutamente straordinario, inaspettato, noi eravamo seduti dinanzi ad un bel pezzo d'arrosto che esalava un profumo appetitoso. Dopo d'aver assaporata la gioia della libertà, ora assaporavamo coi denti il piacere della tavola.