Le Selve Ardenti/IV
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Il rifugio degli ultimi Atabask
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Capitolo IV.
L’indian-agent ed i suoi compagni, temendo un improvviso assalto da parte di quelle belve, avevano armate e puntate prontamente le carabine, ben decisi a difendere la giovane indiana.
Precauzione inutile: nè gli orsi grigi, nè quelli neri, nè i giaguari nè i coguari e tanto meno i lupi osarono muoversi, anzi si lasciarono avvolgere tranquillamente, senza protestare, nè con un fremito, nè con un ruggito, nè con un ululato, da quella pioggia di scintille, che la intrepida indiana faceva cadere addosso a loro.
— È meraviglioso! — esclamò l’indian-agent. — Avete mai veduto voi una cosa simile?
— Io no — rispose il signor Devandel.
— E nemmeno noi — dissero ad una voce Harry e Giorgio.
— Chi sarà mai questa giovane indiana? — domandò il signor Devandel.
— Lo sapremo più tardi. Io invece desidererei prima di tutto conoscere quei due visi pallidi che l’hanno messa lassù su quel pino, e che hanno avuto tanto fegato, da sbarcare su quest’isolotto pieno di bestie feroci. —
La giovane indiana, dopo aver fatto cadere sugli orsi e i felini ed anche sui lupi, che son così paurosi del fuoco, una vera pioggia di scintille, ritornò verso i suoi salvatori e disse:
— Come vedete, non avete nulla da temere dai miei amici.
— I tuoi amici! — esclamò l’indian-agent.
Uno strano e misterioso sorriso comparve sulle labbra della squaw, poi con voce dolcissima disse:
— Non vi occupate di loro: volete ora seguirmi nell’antica dimora degli ultimi Atabask? Si trova sopra la rapida, ma da quando il Grande Spirito ha rotto i fiumi è sempre rimasta tale e quale.
— Andiamo dunque — disse l’indian-agent. — Giacchè le bestie feroci non si muovono, possiamo andare avanti. Vuoi guidarci, squaw?
― Volentieri, visi pallidi, perchè voi non siete cattivi come quegli altri.
― Quali altri?
— Dopo ve lo dirò; ora seguitemi. Prima che il sole sorga, essi torneranno a cacciare i cigni. Ci vengono quasi tutte le mattine e sparano sull’isolotto.
― Ti seguiamo — disse John. — Tieni pure il ramo ardente, se non ci vedi.
— Potrei farne a meno. Sono abituata alle tenebre io.
― Ma non noi. ―
La giovane indiana roteò più volte il ramo per alimentare la fiamma, fece alle belve un segno imperioso, poi si mise in cammino dirigendosi verso il luogo ove la rapida muggiva e scrosciava.
L’isolotto tutto coperto di pini e betulle di grandi dimensioni, era più lungo di quanto gli scorridori avevano dapprima creduto, tanto che furono costretti a percorrere più di cinquecento passi prima di giungere su una specie d’istmo fiancheggiato da ammassi di piante acquatiche, in mezzo alle quali si udivano trombettare i cigni selvatici.
— Dove andiamo? — chiese John un po’ diffidente.
— Nell’ultimo rifugio degli Atabask ― rispose l’indiana.
— Vi sono altre persone là dentro?
— Nessuna: l’ultima donna della mia tribù son io.
— E gli uomini?
― Tutti uccisi da quei maledetti e tremendi guerrieri che son venuti dal sud.
― Ah, gli Sioux!
― Non so come si chiamano. ―
La giovane e i quattro scorridori si spinsero sulla lingua di terra, che la corrente del fiume flagellava rabbiosamente precipitando dentro la rapida, e dopo aver percorso un altro centinaio di passi si trovarono dinanzi ad un’enorme roccia, la quale si alzava come la torre di un castello medioevale.
Dietro ed ai fianchi, altre rupi si ammonticchiavano confusamente, proprio sull’orlo della rapida, opponendo alla furia della corrente una resistenza formidabile, che nemmeno i secoli erano riusciti a vincere.
La giovane mostrò una nera e stretta apertura, che in quel momento era illuminata da parecchi punti fosforescenti.
― L’entrata del rifugio — disse.
— Ben guardata, a quanto pare — rispose John.
— Vi sono bestie feroci dunque qui?
— Non sono che coyotes: agli altri non permetto di entrare nella mia casa.
— Chi ha addomesticato tutte queste belve?
— Mio padre; ma obbediscono anche a me.
— Uhm!... Io non mi fiderei e non dormirei tranquillo.... E tuo padre dov’è?
— Lo scotennarono la settimana scorsa e poi lo scaraventarono nella rapida — rispose la giovane colla sua voce monotona che non tradiva nessuna emozione.
— Chi è stato che l’ha ucciso?
— Gl’indiani emigrati dal sud.
Vedendoli perlustrare le rive del fiume di sopra alla rapida, un giorno ebbe la brutta idea di attraversare il corso coll’ultimo canotto che possedevamo, credendo di trovare in quegli uomini dei compatriotti, poichè erano pure rossi di pelle e portavano penne in testa.
Invece fu preso, legato al palo della tortura e scotennato. Ma la Grande Aquila, così si chiamava mio padre, morì da eroe cantando il suo inno funebre.
Ora il suo corpo si macera dentro la rapida.
Così si è spento l’ultimo guerriero della tribù degli Atabask.
Il Grande Spirito l’ha voluto. —
Erano entrati. Uno stretto corridoio, aperto nella viva roccia, con gradini tagliati rozzamente, si era offerto dinanzi agli sguardi dei quattro scorridori.
Un fracasso assordante si ripercuoteva dentro il rifugio degli ultimi Atabask.
La rapida faceva udire la sua voce possente anche dentro le caverne, dove si erano spenti gli ultimi indiani della disgraziata tribù.
Il fragore era così intenso, che i quattro uomini e la giovane indiana non potevano quasi nemmeno intendersi.
Ad un tratto una luce intensissima, superiore a quella lanciata da mille candele riunite, colpì in pieno gli scorridori accecandoli di colpo.
Avevano raggiunto la cima della gradinata e si erano trovati dinanzi ad una immensa caverna piena di luce.
— Dove siamo noi? — chiese John alzando la voce per dominare il fragore della cascata.
— Nell’ultimo rifugio degli Atabask! — rispose l’indiana. — Non abbiate paura.
— E questa luce? — chiese il signor Devandel.
— È la fiamma eterna del Grande Spirito, che io ho sempre veduto brillare.
— Un fanale enorme!
— Non so. —
I quattro uomini entrarono nella caverna, o meglio nella immensa sala, la quale misurava non meno di duecento metri di larghezza, ma tosto si ritrassero mandando un grido d’orrore.
Tutto intorno alle pareti, seduti su dei piccoli scanni rozzamente fabbricati con rami di quercia legati con liane, stavano tre o quattrocento cadaveri mummificati colle gambe incrociate e le mani appoggiate sulle ginocchia.
Vi erano uomini che un giorno dovevano essere stati dei famosi guerrieri, probabilmente dei sakems, a giudicarlo dai loro tatuaggi e dalla ricchezza dei loro abbigliamenti; vi erano delle donne che indossavano quei famosi mantelli di lana di montone selvatico a lunghe frange e pitture, e perfino dei fanciulli, figli di capi, poichè portavano sulle loro teste il diadema di penne di tacchino infisse in un leggero cerchio d’oro e mocassini ricamati ed abbelliti da capigliature umane.
Tutti erano magnificamente conservati; solamente le loro teste non erano più grosse di un piccolo popone, ed i volti apparivano stranamente raggrinziti.
Un acuto odore di resina emanava da quei corpi, segno evidente che le salme di quei vecchi indiani dovevano aver subìta una vera imbalsamazione.
— Chi sono? — aveva chiesto subito John alla giovane.
― I sakems della tribù, le loro donne ed i loro figli — rispose l’indiana.
― È da molto tempo che sono qui?
― Io li ho sempre veduti.
― Più che quelle mummie mi interessa questa luce. Da dove viene? Chi l’alimenta? Che cosa brucia là dentro? ― Si era spinto sotto la lampada, la quale lasciava cadere su quella tribù di morti una luce intensa, azzurrognola come la luce elettrica ed egualmente fredda.
Un’asta di rame pendeva dal soffitto fra una moltitudine di stalattiti e terminava in un vaso di pietra, entro il quale ardeva quella sostanza sconosciuta.
Che cos’era? del radium forse? Nemmeno il signor Devandel, capitano del quinto lancieri delle frontiere, e perciò persona istruita, avrebbe potuto dirlo, perchè quello strano minerale non era ancora conosciuto.
— Che cosa ne dici, John? ― chiese il capitano.
— Io dico che lì dentro brucia certamente qualche corno di compare Belzebù — rispose l’indian-agent.
— E voi, Harry?
— Uhm! Io credo invece che sia la punta della coda del diavolo invece di un corno — rispose lo scorridore.
— E voi, Giorgio?
— Io vedo che la luce non manca e non mi rompo la testa a cercare chi la produce. Non lo sa nemmeno l’indiana; quindi contentiamoci di vederci bene in viso.
— Ecco un segreto che io vorrei conoscere: — disse il signor Devandel. — È una lampada meravigliosa che farebbe impazzire anche gli scenziati. —
Mentre si scambiavano quelle parole a voce altissima, poichè il rombo della rapida dominava l’immensa sala facendo vibrare perfino le solide pareti di granito, la giovane indiana con fischi stridenti aveva messo in fuga un paio di dozzine di coyotes ed un vecchio orso grigio, il quale si era addormentato tranquillamente ai piedi di un sakem.
— Fra poco verranno — disse accostandosi a John.
― Chi? — domandò l’indian-agent.
― I due visi pallidi.
― Sarei ben curioso di conoscerli.
― Mio fratello bianco li vedrà. Seguimi verso quella finestra, dalla quale possiamo dominare la rapida.
— S’avventurano sulla cateratta? — chiese John, facendo un gesto di stupore.
― Quasi.
— E approdano sull’isolotto.
— Qualche volta.
― E non hanno paura delle belve?
― Non pare, poichè di quando in quando mi uccidono un cervo od un wapiti, od un bisonte e perfino qualche orso.
― Chi possono essere questi arrabbiati cacciatori, John? — chiese il signor Devandel.
— Me lo sono domandato io stesso e non ho trovato nessuna risposta soddisfacente.
― Perchè degli uomini bianchi si trovino qui, ora che gli Sioux sono emigrati, e si mostrino furibondi contro gli americani che non hanno la pelle rossa o ramigna, devono avere un motivo ben grave.
— Rispondete ad una mia domanda, signor Devandel.
— Parla, John.
Il generale Miles non ha ricevuto l’ordine di dare la caccia a queste bande indiane e di arrestarle prima che varchino la frontiera del dominio inglese?
— È vero. Ha con sè un numero considerevole di scouts, (poliziotti indiani) due squadroni di cavalleria ed un battaglione doppio di cacciatori della frontiera. Ma perchè mi domandi ciò?
— Penso che quegli uomini potrebbero essere dei volteggiatori yankees, incaricati di sorvegliare le mosse degli Sioux.
— Può darsi — rispose il capitano.
Si erano avvicinati alla finestra che dominava la cascata, un’apertura semiovale che non aveva nessuna pretesa architettonica, ed abbastanza vasta perchè quattro o cinque persone vi si potessero affacciare.
Un pulviscolo umido vi entrava continuamente poichè la rapida correva proprio lì sotto.
Le acque si precipitavano con furia incredibile attraverso le rocce, balzando, rimbalzando, torcendosi, allungandosi, urlando, muggendo, ruggendo.
Lo spettacolo era così spaventevole, che John si ritrasse, esclamando:
— Sarebbe stato un bell’affare se noi fossimo caduti lì dentro coi nostri tronchi d’albero! Chi sarebbe vivo a quest’ora? Nè io, nè voi, signor Devandel.
— Questo è certo — rispose il capitano. — Povere le nostre ossa!
— E da dove vengono quei due uomini bianchi? — chiese l’indian-agent all’indiana.
— Dalla riva opposta.
— Tutte le notti?
— Sempre.
— Su una scialuppa?
— Sì.
— E non hanno paura della rapida? Basterebbe un solo istante per prenderli e trascinarli verso la morte.
— Essi conoscono forse i passi dove l’acqua è più tranquilla. Ascolta, uomo bianco.
— Non odo che i muggiti della cascata.
— Vuoi seguirmi col tuo giovano amico?
— E le belve?
— Non te ne dar pensiero, fratello. Come obbedivano a mio padre, obbediranno, almeno per ora, anche a me.
Vedi quel punto luminoso che si avanza sulle acque della rapida?
— Vedo: che cos’è?
— Il canotto dei due uomini bianchi.
— E perchè quella luce?
— Prima vanno a cacciare i cigni, e poi si prendono sempre a pugni fra loro.
— A pugni, hai detto?
— Si azzuffano sempre, fratello, anche quando le belve li minacciano.
— Signor Devandel, ― chiesa l’indian-agent ― siete disposto a seguirmi?
— Purchè tu ti faccia precedere da Curlam.
— Come vorrete. Harry e Giorgio rimarranno a guardia di queste mummie. La compagnia non sarà troppo allegra, ma correranno meno pericoli. —
Mandò un fischio acuto.
Il mastino, che si aggirava intorno ai vecchi guerrieri mummificati, provandosi a leccare or l’uno, or l’altro con poca soddisfazione, udendo la chiamata del padrone, spiccò quattro salti mugolando ferocemente.
Pareva che domandasse:
— Chi devo assalire? —
L’indian-agent gli passò una mano sulla testa enorme.
Il mastino stette subito zitto e si accovacciò fra le gambe del padrone.
— Mio fratello bianco vuole che venga anch’io? ― chiese la giovane indiana.
— Senza di te non oserei, con tante bestie! ― rispose l’indian-agent. — Gli orsi grigi sono troppo feroci e non cadono al primo colpo di fucile.
— Vedi la luce, fratello bianco?
— Sì, la vedo.
— Brucia su un canotto.
— Per cacciare che cosa?
— I cigni selvatici.
— Andiamo ad incontrarli.
— Io ti guido.
— Senza luce?
— Non c’è bisogno. La luce l’hanno loro. —
John e il signor Devandel diedero un ultimo sguardo fuori dalla finestra e scòrsero un grosso canotto, che si avanzava intrepidamente circa cinquecento metri sopra la rapida, senza urtare fra le rocce che si trovavano in quel luogo abbastanza numerose.
A bordo non si scorgeva nessuna persona, ma sul dinanzi del canotto brillava una fiaccola, dietro la quale si alzava una specie di scudo enorme.
— Ecco! — esclamò John. — È così che i cacciatori di cigni fucilano a colpo sicuro quei grossi volatili.
Si tengono nascosti, e dopo avere abbagliati i disgraziati nuotatori, li uccidono....
Su, squaw, andiamo a vedere chi sono quegli uomini misteriosi.
— Ti precedo, fratello viso pallido, — rispose la giovane.
— Pronte le carabine, signor Devandel, — disse John — perchè non mi fido di tutte quelle bestie. —
L’ultima degli Atabask attraversò la immensa sala, senza nemmeno prendere una scure, quantunque ve ne fossero molte appese alle pareti, e discese la stretta scala, mettendo in fuga colla sua sola presenza una mezza dozzina di lupi neri, che ululavano come se fossero invidiosi dei ruggiti della rapida, ed un paio di grossi orsi pure neri, che pareva avessero saccheggiato quella notte stessa un campo di grano, tanto erano rotondi e grassi. Intanto le fucilate erano incominciate sul fiume. I misteriosi cacciatori avevano aperto un fuoco vivissimo contro i cigni, che dovevano trovarsi in gran numero nei dintorni della rapida e dell’isolotto.
— Corpo di cento corna di bisonte! — esclamò John armando per precauzione il rifle. — Che siano dei banditi invece che dei cacciatori? In questa regione i galantuomini sono anche meno rari che nel Far-West.
È vero, signor Devandel?
— I primi immigrati sono sempre stati dei ladroni — rispose il capitano.
— E perciò farete bene a tenervi in guardia e non lasciare un solo momento la carabina.
— Terrò d’occhio quei signori, mio vecchio John, e se vorranno seccarci avranno il loro conto.
Non pretendo di tirare come un vero scorridore, tuttavia di rado sbaglio i miei colpi.
— Lo sappiamo da lunga data, signor Devandel, — rispose l’indian-agent sorridendo.
Si erano cacciati sull’istmo, il quale, come abbiamo detto, era fiancheggiato da piante acquatiche assai più alte di un uomo. Le attraversarono in fretta seguendo sempre la giovine indiana e raggiunsero la penisoletta scomparendo sotto l’ombra cupa delle piante, non essendovi ormai più neve in terra.
A destra e a sinistra le belve fuggivano ad un semplice cenno dell’ultima degli Atabask, e non erano solamente animali feroci. Anche bisonti giganteschi e cervi grossissimi correvano subito a rinselvarsi.
Con una rapida marcia la donna e i due uomini raggiunsero l’estremità settentrionale della penisoletta, proprio nel momento in cui il canotto montato dai due misteriosi cacciatori, approdava.