Le Mille ed una Notti/Storia di Sidi Numan
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Traduzione dall'arabo di Antoine Galland, Eugène Destains, Antonio Francesco Falconetti (1852)
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NOTTE CCCXLVIII
STORIA
DI SIDI NUMAN.
— «Commendatore de’ credenti,» continuò Sidi Numan, «non parlo a vostra maestà della mia nascita: dessa non è illustre sì da meritare ch’ella vi faccia attenzione. Quanto ai beni di fortuna, i miei avi, mediante la loro buona economia, me ne lasciarono quanto poteva desiderare per vivere da galantuomo, senza ambizione, ned essere a carico di chicchessia.
«Con tali vantaggi, la sola cosa che potessi desiderare, onde rendere compiuta la mia felicità, sarebbe stata di trovare una moglie amabile, che meritasse tutta la mia tenerezza, e la quale, amandomi veracemente, volesse meco dividerla; ma non piacque a Dio di concedermela: per lo contrario, me ne diede una, la quale, sin dal giorno dopo le mie nozze, cominciò ad esercitare la mia pazienza in modo tale da non poter essere compresa se non da chi siasi trovato esposto a simile prova.
«Richiedendo l’uso che i nostri matrimoni si facciano senza vedere, nè conoscere la donna che dobbiamo sposare, vostra maestà non ignora che un marito non può dolersi se trovi che quella toccatagli in sorte non sia brutta da ispirar orrore, non contraffatta, e che i buoni costumi, l’educazione e la saggia condotta correggano qualche leggera imperfezione fisica che potesse avere.
«La prima volta che vidi mia moglie a faccia scoperta in casa mia, dopo avervela condotta colle consuete cerimonie, mi rallegrai vedendo che non m’avevano ingannato nel rapporto fattomi della sua beltà; la trovai di mio gusto, e mi piacque.
«Alla domane del nostro matrimonio, ci fu servito un pranzo di parecchi cibi; mi recai dov’era la mensa, e non trovandovi mia moglie, la feci chiamare. Giunse, dopo avermi fatto aspettare a lungo: io dissimulai la mia impazienza, e ci ponemmo a tavola.
«Cominciai dal riso, che presi con un cucchiaio, secondo il solito. Mia moglie, per lo contrario, in vece di servirsi di cucchiaio, come facciamo tutti, cavò da un astuccio, che teneva in tasca, una specie di stuzzicorecchio, col quale cominciò a prendere il riso e recarselo alla bocca granello per granello, non potendone contener di più.
«Sorpreso di quel modo di mangiare: — Amina,» le dissi (era questo il suo nome), «avete imparato nella vostra famiglia a mangiare il riso di tal foggia? Fate così per essere di poco appetito, oppure volete contarne i granelli alfin di non mangiarne di più una volta dell’altra? Se operate così per economia e per insegnarmi a non esser prodigo, non dovete da questo lato temer di nulla; posso assicurarvi che così non ci rovineremo mai più. Abbiamo, grazie a Dio, di che vivere agiatamente senza privarci del necessario. Non abbiate riguardo, e mangiate al par di me. —
«L’accento affabile con cui le facea simili rimostranze pareva dovessemi procurare qualche risposta cortese: ma senza dirmi una sola parola, ella continuò sempre a mangiare in pari modo; e per darmi maggior noia, non mangiò più riso se non a lunghi intervalli; ed invece di gustare delle altre vivande con me, si accontentò di mettersi in bocca di tempo in tempo un po’ di pane sminuzzato, presso a poco quanto ne avrebbe potuto prendere un passero.
«Quell’ostinazione mi scandalizzò. Immaginai non dimeno, per farle piacere e scusarla, che non fosse avvezza a mangiare con uomini, ed ancor meno con un marito, davanti al quale avevanle forse insegnato di dover osservare un contegno cui ella, per semplicità, spingeva tropp’oltre. Credetti pure che potesse aver fatto colazione; oppure che, se non l’avesse fatta, si riservasse di mangiare poi sola in libertà. Tali considerazioni m’impedirono dal dirle altra cosa che potesse intimidirla, o di esternarle alcun segno di malcontento; dopo il pranzo, la lasciai allo stesso modo, come se non m’avesse dato motivo di essere poco soddisfatto delle sue maniere più che straordinarie.
«La sera, a cena, avvenne la medesima cosa; e al domani, e tutte le volte che mangiammo insieme, comportossi nella stessa guisa. Io ben vedeva non essere possibile che una donna potesse vivere collo scarso cibo ch’ella prendevate doverci essere sotto qualche mistero da me ignorato: ciò m’indusse a prendere il partito di dissimulare. Finsi di non far attenzione alle sue azioni, colla speranza che il tempo avrebbela abituata a vivere meco, com’io desiderava; ma vana fu la mia speranza, e non fui molto tempo a rimanerne convinto.
«Una notte che Amina credeami profondamente addormentato, si alzò pian piano, e notai che vestivasi con somma precauzione per non far rumore, temendo di destarmi. Non potea comprendere a quale scopo turbasse ella così il suo riposo, e la curiosità di sapere cosa intendesse fare, mi fece fingere di dormire profondamente. Essa fini di vestirsi, e poco dopo uscì dalla stanza senza strepito.
«Quando fu uscita, mi alzai anch’io, e gettatami la veste sulle spalle, fui abbastanza in tempo di vedere, da una finestra che guardava sul cortile, che la donna, aperta la porta di strada, di là usciva.
«Corsi subito alla porta da lei lasciata socchiusa, e col favor della luna la seguii sinchè la vidi entrare in un cimitero vicino alla nostra casa. Salii allora sul muro che conterminava col cimitero, e prese le mie precauzioni onde non essere veduto, scorsi Amina con un gul1.
«Non ignorerà vostra maestà che i gul d’ambo i sessi sono demoni erranti per la campagna. Abitano d’ordinario le ruine degli edifizi, d’onde gettansi per sorpresa sui passeggeri onde ucciderli e divorarne le carni. In mancanza di viandanti, vanno la notte ne’ cimiteri a pascersi di quelle de’ cadaveri, che dissotterrano.
«Rimasi in una spaventosa sorpresa, scorgendo mia moglie con quel gul, e molto più quando li vidi dissotterrare un morto in quel giorno stesso seppellito, ed il gul tagliarne a più riprese pezzi di carne, che mangiarono poi ambedue insieme, seduti sull’orlo della fossa. Discorrevano tranquillamente nel fare un banchetto sì crudele ed inumano; ma io era troppo lontano, e mi fu impossibile comprendere qualche cosa de’ loro discorsi, che doveano essere strani quanto il pasto, la cui rimembranza mi fa raccapricciar tuttora. «Finita l’orrida cena, gettarono il resto del cadavere nella fossa, colmandola poscia colla terra che ne avevano levata. Allora tornai in fretta a casa, ed entrando, lasciai la porta socchiusa come avevala trovata; giunto nella mia stanza, mi ricoricai e finsi di dormire.
«Amina tornò poco dopo senza far rumore; spogliossi e si ricoricò anch’essa, colla gioia, per quanto immaginai, di essere sì ben riuscita senza ch’io me ne fossi accorto.»
NOTTE CCCXLIX
— Collo spirito agitato d’un’azione sì barbara ed abhominevole, quanto quella di cui era stato testimonio, colla ripugnanza che sentiva di vedermi al fianco di colei che l’aveva commessa, stetti assai tempo senza potermi riaddormentare. Dormii alla fine, ma di sonno così leggero, che la prima voce che si fe’ udire per chiamar alla pubblica preghiera dell’alba, mi svegliò; allora, vestitomi subito, mi recai alla moschea.
«Dopo la preghiera, uscendo di città, passai la mattina a passeggiare pei giardini, pensando al partito cui appigliarmi per obbligare mia moglie a cangiar metodo di vita. Rigettai tutte le vie di violenza che mi vennero in mente, e risolsi di non usare se non quelle della dolcezza per distoglierla dall’orrenda inclinazione. Questi pensieri mi condussero insensibilmente sino a casa, dove entrai appunto all’ora del pranzo.
«Appena mia moglie mi vide, fece servire in tavola, e ci ponemmo a mensa. Quando scorsi che persisteva sempre a non mangiare il riso se non a grano a grano: — Amina,» le dissi con tutta la moderazione, «sapete quanto fui sorpreso il giorno dopo le nostre nozze, allorchè vidi che mangiavate soltanto il riso, in sì piccola quantità ed in un modo di cui ogni altro marito, fuor di me, sarebbesi offeso; sapete ancora che mi contentai di esternarvi il dispiacere che ciò mi cagionava, pregandovi di gustar pure dell’altre vivande che ci vengono servite, e che si ha la cura di acconciare in vari modi all’uopo di tentar di eccitare il vostro gusto. Da quel tempo avrete veduta la nostra tavola sempre servita nella stessa guisa, cangiando però alcuni piatti onde non mangiar sempre le medesime cose. Nondimeno le mie rimostranze riuscirono inutili, e fino ad oggi non cessaste di agire istessamente, recandomi il medesimo dispiacere. Mi tenni in silenzio, perchè non voleva violentarvi, e mi dorrebbe che quanto vi dico adesso vi cagionasse la minima pena; ma, Amina, ditemi, ve ne scongiuro, i cibi che ci sono serviti qui, non valgono meglio della carne da morto? —
«Non ebbi appena proferite quest’ultime parole, che Amina, comprendendo benissimo ch’io l’aveva osservata la notte, entrò in un furore che supera ogni immaginazione: le si accese il volto, uscironle gli occhi fuor della testa, e spumò di rabbia.
«Quello stato terribile in cui la vedeva mi empì di spavento; divenni come immobile e fuor di stato di difendermi dall’orribile nequizia ch’ella meditava contro di me, e della quale vostra maestà rimarrà certamente stupita. Nel furore del suo trasporto prese un vaso d’acqua, che trovò alla mano, v’immerse le dita, e borbottando fra’ denti alcune parole che non intesi, gettommi in volto di quell’acqua, dicendo con voce furiosa:
«— Sciagurato! ricevi la pena della tua curiosità, e diventa cane. —
«Appena Amina, ch’io non aveva ancor conosciuta per maga, ebbe vomitate quelle diaboliche parole, mi trovai cangiato in cane. Lo stupore e la sorpresa in cui caddi per un cangiamento sì repentino ed inaspettato, m’impedirono di pensare alla prima a fuggire, cosa che le diede il tempo di prendere un bastone per maltrattarmi. Infatti me ne scaricò addosso tai colpi, che non so come non ne restassi morto sul luogo. Credetti salvarmi dalla sua rabbia fuggendo in corte, ma ella mi perseguitò col medesimo furore, e per quanta sveltezza usassi correndo qua e là per evitar le busse, non fui destro abbastanza per ischivarle, e dovetti toccarne molte altre. Stanca finalmente di percuotermi e perseguitarmi, ed arrabbiata per non avermi potuto accoppare, come avrebbe desiderato, immaginò un nuovo mezzo per riuscirvi: socchiuse la porta della strada, onde schiacciarmi nel mentre vi passassi per fuggire. Cane però com’era, compresi il suo pernicioso disegno; e siccome il pericolo presente somministra spesse volte ingegno per conservare la vita, presi così bene le mie misure, osservandone il contegno ed i movimenti, che delusi la sua vigilanza, e passai abbastanza ratto per salvare la vita ed eludere la sua malvagità, scappandomela coll’avere alquanto pesta la cima della coda.
«Il dolore però che ne risentii non lasciò di farmi guaire e latrare correndo lungo la strada, talchè mi uscirono contro alcuni cani, da’ quali ebbi non pochi morsi. Per evitare dunque la persecuzione, mi gettai nella bottega d’un venditore di teste, lingue e piedi di montone cotti, e là mi posi in salvo.
«Il mio ospite interessossi subito per me con grandissima compassione, scacciando i cani che m’inseguivano e volevano penetrare sino in casa sua. Mia prima cura intanto fu di appiattarmi in un angolo onde sottrarmi alla loro vista. Non trovai pero appo di lui l’asilo e la protezione che ne aveva sperato, essendo egli uno di que’ superstiziosi fanatici, i quali, sotto pretesto che i cani sono immondi, non trovano acqua e sapone bastante per lavarsi gli abiti quando per caso, passando loro accanto, uno di essi li abbia toccati. Allorchè i cani che mi avevano data la caccia si furono allontanati, ei fece tutto il possibile, e più volte, per iscacciarmi nel medesimo giorno; ma io stava nascosto e fuor di tiro: laonde passai, suo malgrado, la notte nella bottega, ed aveva infatti bisogno di riposo per riavermi dal cattivo trattamento sofferto da Amina.
«Onde non tediare la maestà vostra con circostanze di poca conseguenza, non mi tratterrò a particolarizzarle le tristi riflessioni che feci allora sulla mia metamorfosi; sol le farò notare che all’indomani, essendo uscito il mio ospite di casa per far provvisione, e tornatone carico di teste, lingue e piedi di montone, aperta la bottega e mentre metteva in mostra la mercanzia, io escii dal mio cantuccio, e già stava per andarmene, quando vidi più cani del vicinato, attirati dall’odore di quelle carni, riuniti intorno alla bottega del mio ospite, in aspettazione ch’ei gettasse loro qualche cosa, talchè mi mescolai con essi in positura di supplicante.
«L’ospite, a quanto mi parve, forse in considerazione perchè io non aveva mangiato dacchè erami presso di lui rifuggito, mi distinse dagli altri, gettandomi bocconi più grossi e più spesso; ma quando, terminate le sue liberalità, io volli rientrare in bottega, guardandolo e dimenando la coda in modo da dimostrargli come lo supplicassi di concedermi nuovamente tal favore, egli fu inflessibile, e si oppose al mio disegno col bastone in mano ed in aria così spietata, che fui costretto ad andarmene. «Alcune case più innanzi mi fermai davanti la bottega d’un fornaio, il quale, tutt’al contrario del venditore di teste di montone preso di malinconia, mi parve uomo gaio e di buon umore, ed eralo infatti: faceva allora colazione, e sebbene non gli avessi dato nessun segno d’aver bisogno di cibo, pur non tralasciò di gettarmi un tozzo di pane. Prima di lanciarmivi sopra con avidità, come fanno gli altri cani, lo guardai con un segno di testa ed un di menar di coda per attestargli la mia riconoscenza; della quale specie di civiltà egli si compiacque e sorrise. Io non aveva bisogno di mangiare; tuttavia, per fargli piacere, presi il pezzo di pane e lo divorai lentamente onde dargli a conoscere che lo faceva per onore. Lo notò egli, e si degnò di soffrirmi vicino alla sua bottega, ove rimasi assiso e volto verso la strada, dimostrandogli di tal guisa che, quanto al presente, altro non gli chiedeva che la sua protezione.
«Me l’accordò egli, e mi fece anzi carezze che mi diedero l’ardire d’introdurmi in casa sua; facendolo però in un modo da lasciargli comprendere che ciò non era se non con suo permesso. Non gli di spiacque; ma, per lo contrario, mi mostrò un sito dove collocarmi senza essergli d’incomodo; io me ne posi al possesso, e lo conservai per tutto il tempo che presso di lui rimasi.
«Vi fui sempre ben trattato, ed egli non faceva colazione, nè desinava, nè cenava ch’io non avessi la mia parte a sufficienza. Dal canto mio, cercava di mostrargli tutto l’affetto e la fedeltà ch’ei potesse mai esigere dalla mia riconoscenza.
«Teneva sempre gli occhi su di lui, e non faceva un passo per la casa ch’io non gli fossi tosto dietro, facendo la medesima cosa quando il tempo permettevagli di uscire a qualche gita nella città pe’suoi affari; mi dimostrava tanto più esatto in ciò, in quanto che m’era avveduto come la mia attenzione gli piacesse, e che sovente, quando voleva uscire di casa, senza ch’io me ne accorgessi, mi chiamava col nome di Rosso, cui mi aveva imposto.»
NOTTE CCCL
— A quel nome, mi slanciava subito dal mio posto in mezzo alla strada; saltellava, faceva scambietti e corse davanti alla porta, nè cessava da tutti que’ vezzi se non quando egli era uscito; accompagnavalo allora esattamente, seguendolo o correndogli dinanzi, e guardandolo tratto tratto per dimostrargli la mia gioia.
«Era già qualche tempo ch’io stava in quella casa, quando un giorno venne una donna a comprare del pane, e pagando il mio ospite, gli diede una moneta d’argento falsa, con altre buone. Avvistosene il fornaio, la restituì alla donna, chiedendone un’altra; ma colei ricusò di riprenderla, pretendendo che fosse buona. Sostenne il contrario il mio ospite, e nella contesa: — Questa moneta,» le disse, «è tanto visibilmente falsa, ch’io son sicuro che il mio cane, bestia com’è, non s’ingannerebbe. Qua, Rosso,» disse poscia, chiamandomi. Alla sua voce, saltai leggermente sul banco, ed il fornaio, gettandomi dinanzi le monete, «Guarda,» soggiunse, «se ve n’è una falsa.» Osservai tutte le monete, e mettendo la zampa sulla falsa, la separai dall’altre, guardando il padrone come per fargliela vedere.
«Il fornaio, il quale non erasi riportato al mio giudizio se non per una specie di modo di dire o per divertirsi, rimase sommamente colpito vedendo ch’io aveva così ben indovinato e senza esitare. In tanto la donna, convinta della falsità della sua moneta, non ebbe nulla a replicare, e fu costretta a darne in iscambio una buona: ma non appena fu partita, il mio padrone chiamò i vicini, ed esagerò loro la mia capacità, narrando l’accaduto.
«I vicini ne vollero vedere la prova, e di quante monete false essi mi mostrarono, insieme ad altre di buona lega, non ve ne fu una sulla quale non ponessi la zampa, separandola dalle altre. Frattanto anche la donna non mancò di narrare, dal canto proprio, a tutte le persone di sua conoscenza in cui scontrassi per istrada, quello ch’erale allora successo. Laonde in brevissimo tempo la fama dell’abilità mia nel distinguere le monete false, si sparse nel vicinato non solo, ma ben anche in tutto il quartiere, ed insensibilmente per l’intiera città.
«Non mancai dunque d’occupazione tutto il giorno: bisognava accontentare tutti quelli che venivano dal mio padrone a comprare il pane, e mostrar loro cosa sapessi fare. Era un divertimento per tutti, e per provare la mia virtù venivasi dai quartieri più lontani della città. La mia riputazione procurò al padrone tanti avventori, che appena poteva bastare a contentarli. Durò la cosa a lungo, nè il mio ospite seppe trattenersi dal confessare a’ suoi vicini ed agli amici ch’io per lui valeva un tesoro.
«Ma la mia piccola industria non mancò di creargli molti invidiosi. Si tesero agguati per rapirmi, ed egli era costretto a tenermi d’occhio. Un giorno, attirata dalla novità, una donna venne a comprare, come le altre, del pane: il mio solito posto era sul banco; mi gettò essa dinanzi sei monete d’argento, tra le quali trovavasene una falsa. Io la divisi dall’altre, e mettendovi sopra la zampa, guardai la donna come per chiederle se non fosse quella.
«— Sì,» mi disse colei, guardandomi anch’essa, «è la falsa, nè ti sei ingannato. —
«Continuò poi a rimirarmi con attenzione, mentre io pure la guardava. Pagò quindi il pane ch’era venuta a comprare, e quando volle andarsene, mi fe’ cenno di seguirla all’insaputa del fornaio.
«Io stava sempre attento ai mezzi di liberarmi da una metamorfosi si strana come la mia, ed avendo notata l’attenzione colla quale avevami esaminato quella donna, immaginai che avesse forse conosciuto qualche cosa della mia sciagura e del misero stato in cui era ridotto, nè m’ingannava. La lasciai però andare e mi contentai di guardarla; ma fatti due o tre passi, ella si volse, e vedendo ch’io la osservava soltanto senza movermi dal posto, mi fe’ nuovamente segno di seguirla.
«Allora, senza deliberare ulteriormente, scorgendo il fornaio occupato a ripulire il forno per un’altra cottura di pane, e che non badava a me, saltai giù dal banco, e seguii quella donna, che mi parve esserne molto lieta.
«Camminato alquanto, giunse alla sua casa, ne apri la porta, ed entratavi: — Entra,» mi disse, «non ti pentirai d’avermi seguita.» Quando fui dentro, e ch’ella ebbe chiusa la porta, mi condusse nella sua stanza, dove vidi una giovane donzella di mirabile bellezza che ricamava. Era la figliuola della donna caritatevole che mi aveva colà condotto, abile e sperimentata nell’arte magica, come in breve conobbi.
«— Figlia,» le disse la madre, «vi conduco il cane famoso del fornaio, che sa distinguere così bene le monete false dalle buone. Sapete avervene io detto il mio pensiero sin dal primo rumore che se n’è sparso, manifestandovi che poteva benissimo essere un uomo trasformato per qualche nequizia in cane. Oggi m’è venuto in mente di andare dal fornaio a comprar del pane; sono stata testimone della verità che si è divulgata, ed ebbi la destrezza di farmi seguire da questo cane si raro che forma la maraviglia di Bagdad. Che cosa ne dite, figliuola? mi sono ingannata nella mia congettura?
«— No, madre mia, non vi siete ingannata,» rispose la giovane, «ed eccomi a dimostrarvelo. —
«La donzella si alzò, prese un vaso pieno d’acqua nel quale immerse la mano, e versandomela addosso, disse:
«— Se sei nato cane, resta cane; ma se nascesti uomo, in virtù di quest’acqua ripiglia la primiera forma, —
«All’istante fu rotto l’incanto; perdetti la figura di cane, e tornai uomo come prima.»
NOTTE CCCLI
— «Penetrato dalla grandezza di simile benefizio, mi gettai appiè della donzella, e baciatole il lembo della veste: — Mia cara liberatrice,» le dissi, «sento così vivamente l’eccesso della vostra impareggiabile bontà verso uno sconosciuto qual io sono, che vi supplico di dirmi che cosa possa fare per dimostrarvene degnamente la mia riconoscenza, o piuttosto disponete di me come d’uno schiavo che a giusto titolo v’appartiene; non sono più padrone di me, ma vostro servo; ed affinchè sappiate chi sia colui che liberaste, vi narrerò in poche parole la mia storia. —
«Allora, dettole anzitutto chi fossi, le feci il racconto del mio matrimonio con Amina, della mia compiacenza e pazienza a tollerare il suo umore delle sue maniere tutte straordinarie, e dell’indegnità colla quale avevami trattato con inconcepibile malvagità; terminai ringraziando la madre dell’inesprimibile felicità che aveami procurata.
«— Sidi Numan,» mi disse la figlia, «non parliamo dell’obbligazione che dite d’avermi: la sola soddisfazione di aver fatto piacere ad un uomo onesto come voi, mi tien luogo d’ogni riconoscenza. Parliamo d’Amina vostra moglie: l’ho conosciuta prima del vostro matrimonio, ed essendomi noto che era maga, essa neppur ignorava ch’io aveva qualche cognizione nell’arte medesima, avendo preso entrambe lezioni dalla medesima maestra. C’incontravamo anche di sovente al bagno; ma siccome gli umori nostri non si accordavano, cercava sempre di evitare ogni occasione d’aver con lei veruna intimità; ed in ciò mi fu tanto meno difficile di riuscire, in quanto che, per la ragione medesima, ella evitava, dal canto suo, di averne con me. Non sono dunque sorpresa della sua malvagità. Per tornare a ciò che vi risguarda, quello che feci per voi non basta; voglio terminare quanto ho si ben cominciato. Infatti, non basta aver rotto il sortilegio col quale ella vi aveva sì barbaramente escluso dalla società degli uomini; bisogna che ne la puniate come merita, rientrando in casa vostra, onde riprendervi l’autorità che v’appartiene, ed io voglio darvene i mezzi. Trattenetevi con mia madre: torno subito. —
«La mia liberatrice entrò in un gabinetto, ed io intanto ebbi tempo di dimostrare nuovamente alla madre quanto fossi grato a lei, non meno che alla sua figliuola.
«— Mia figlia, come vedete,» mi diss’ella, «non è meno di Amina esperta nell’arte magica; ma ella ne fa si buon uso, che stupireste al sapere tutto il bene da lei oprato, e che opra quasi ogni giorno, mediante le sue cognizioni. È perciò ch’io la lasciai fare, e far la lascio anche di presente, ma non lo permetterei se mi accorgessi che ne abusasse nella minima cosa. —
«La madre aveva cominciato a narrarmi qualcuna delle maraviglie delle quali era stata testimonio, allorchè la figliuola tornò con in mano un piccolo fiasco.
«— Sidi Numan,» mi disse, «i miei libri or consultati, m’insegnano che Amina non trovasi in questo istante in casa vostra, ma deve di momento in momento tornarvi. M’insegnano parimenti che la dissimulata finge, dinanzi a’ vostri servi, d’essere inquieta per la vostra assenza; ha dato lor ad intendere che, pranzando con voi, vi ricordaste d’un affare che vi obbligò ad uscire senza dilazione di casa; che, sortendo, lasciaste la porta aperta, e che essendo entrato un cane e venuto sin nella sala ov’ella finiva di pranzare, lo aveva scacciato a furia di bastonate. Tornate dunque, senza perder tempo, a casa vostra coll’ampolla che qui vedete, e ch’io vi consegno. Quando vi abbiano aperto, attendete nella vostra stanza che Amina rientri: essa non si farà aspettar molto. Rientrata che sia in casa, scendete nella corte, e presentatevi a lei faccia a faccia. Nella sua sorpresa di rivedervi contro ogni aspettazione, vi volterà la schiena per prendere la fuga; allora buttatele addosso l’acqua di quest’ampolla, cui terrete pronta, e nel tempo stesso, pronunciate arditamente queste parole:
«— Ricevi il castigo della tua malignità. —
«Non vi dico di più: voi ne vedrete l’effetto. —
«Dopo codeste parole della mia benefattrice, che non dimenticai, siccome nulla più mi tratteneva colà, presi commiato da lei e dalla sua madre, con tutte le proteste della più sincera gratitudine ed una dichiarazione egualmente sincera di ricordarmi eternamente dell’obbligo che loro aveva, e tornai a casa. «Le cose accaddero come la giovane maga mi aveva predetto. Amina non istette molto a tornare, e mentre inoltravasi, io me le presentai davanti, coll’acqua in mano, pronto a buttargliela addosso. Mandò colei un altissimo strido, e voltasi per raggiungere la porta, io la spruzzai d’acqua, pronunziando le parole insegnatemi dalla maga, e tosto essa rimase cangiata in cavalla, ch’è quella veduta ieri da vostra maestà.
«All’istante, e mentre durava la sua sorpresa, l’afferrai pei crini, e ad onta della sua resistenza, la strascinai nella scuderia. Postale quindi una cavezza, dopo averla legata, rimproverandole il suo misfatto e la sua nequizia, la castigai a suon di frustate, e per tanto tempo, che finalmente la stanchezza mi costrinse a cessare; ma mi riservai a farle ogni giorno il medesimo trattamento.
«Commendatore de’ credenti,» soggiunse Sidi Numan, terminando la sua storia, «oso sperare che la maestà vostra non disapproverà la mia condotta, ma troverà invece che una donna sì pessima e perniciosa viene trattata con maggior indulgenza che non meriti.»
Finiva la notte quando Scheherazade metteva termine alla storia di Sidi Numan. Il sultano delle Indie si alzò, contentissimo di quel racconto, per andar a recitare la preghiera e presiedere al consiglio. L’indomani, Scheherazade, destata dalla sorella, continuò in codesti sensi:
NOTTE CCCLII
— Sire, quando il califfo vide che Sidi Numan non aveva più nulla da aggiungere: — La tua storia è singolare,» gli disse, «e la malignità di tua moglie inescusabile; perciò non condanno assolutamente il castigo che le facesti provare sino ad oggi; ma pur voglio che tu consideri quanto grande sia il suo supplizio di vedersi ridotta alla condizione de’ bruti, e desidero che ti contenti di lasciarle far penitenza in quello stato. Ti ordinerei anche di rivolgerti alla giovane maga che ti diede il modo di eseguire siffatta metamorfosi, onde far cessare l’incanto, se note non mi fossero l’ostinazione e la durezza incorreggibili dei maghi e delle maghe che abusano dell’arte loro, e non temessi dall’altro canto un effetto di sua vendetta contro di te assai più crudele del primo. —
«Il califfo, naturalmente benigno e pietoso verso quelli che soffrono, anche secondo i loro meriti, avendo così dichiarato il proprio volere a Sidi Numan, si rivolse al terzo fatto chiamare dal gran visir Giafar, e:
«— Kodjah Hassan,» gli disse, «passando ieri davanti alla tua casa, ella mi parve sì magnifica, che mi destò la curiosità di sapere a chi appartenesse. Mi dissero che tu l’avevi fatta fabbricare dopo aver esercitato un mestiere che ti produceva appena da vivere; soggiunsero inoltre che, ricordandoti sempre di ciò ch’eri, facevi buon uso delle ricchezze a te concesse da Dio, e che i tuoi vicini dicevano mille beni di te. Tutto ciò mi fa piacere,» soggiunse il califfo, «e sono persuaso che le vie per le quali piacque alla Provvidenza di gratificarti de’ suoi doni, debbano essere straordinarie. Sono curioso di saperle da te medesimo, e ti feci chiamare per prendermi tale soddisfazione. Parlami dunque sinceramente, affinchè io possa partecipare con maggior cognizione di causa alla tua felicità. Ed acciò la mia curiosità non ti sia sospetta, e tu non creda ch’io vi prenda altro interesse fuor di quello che testè dissi, ti dichiaro che lungi dall’avervi nessuna pretesa, ti do la mia protezione onde ne goda in tutta sicurezza. —
«Dietro tale assicurazione del califfo, prosternossi Kodjah Hassan davanti al trono, battè la fronte sul tappeto ond’era coperto il suolo, e rialzatosi: — Commendatore de’ credenti,» disse, «ogni altro fuor di me, che non avesse pura e netta la coscienza quanto me la sento io, avrebbe potuto turbarsi ricevendo l’ordine di comparire davanti al trono di vostra maestà; ma siccome io ho mai sempre nutrito per lei sentimenti di rispetto e venerazione, e nulla ho fatto contro l’obbedienza che le debbo, nè contro le leggi, che potesse attirarmi la sua indignazione, la sola cosa che m’abbia fatto qualche pena, è il timore onde fui colto di non poterne sostener lo splendore. Nondimeno, dietro la bontà colla quale pubblica la fama che la maestà vostra riceve ed ascolta l’infimo de’ suoi sudditi, mi sono rassicurato, e non dubitai anch’ella non fosse per darmi il coraggio e la fiducia di procurarle la soddisfazione che potesse esigere da me. Questo è, Commendatore de’ credenti, ciò che la maestà vostra mi fece testè esperimentare, concedendomi, senza sapere s’io l’abbia meritata, la potente sua protezione. Spero ch’ella si manterrà in un sentimento tanto per me onorevole, quando, per soddisfare al suo comando, le avrò fatto il racconto delle mie avventure. —
«Dopo questo piccolo complimento per conciliarsi la benevolenza e l’attenzione del califfo, e dopo essersi alcuni momenti richiamato alla memoria ciò che doveva dire, Kodjah Hassan riprese la parola in questi termini:
Note
- ↑ Gul: sono, secondo la religione maomettana, specie di larve che corrispondono all’Empuse degli antichi, e non ne differiscono se non perchè quest’ultime erano sempre di sesso femminino.