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Io son figliuol del sommo Giove, e sono
     Quel, che incordando i nervi al cavo legno,
     Rendo col canto mio sì dolce tuono,
     Che rompo, e placo ogni rancore, e sdegno.
     E s’hora havessi il plettro, e al suo bel suono,
     Potessi ’l canto unir, forse che degno
     Faresti me, ch’ io ti mirassi alquanto,
     Vinto dal vario suon, dal dolce canto.

Non si trova ferir più fermo, e vero
     De l’arco mio, ne più certa saetta.
     Anzi m’ ha vinto un più sicuro arciero,
     Che da’ begli occhi tuoi fere, e saetta;
     Ho ne la medicina il sommo impero,
     La gran virtù de l’herbe è à me soggetta;
     Oime non vaglion’ herbe à l’amor mio,
     Nè quel, che giova altrui, giova al suo Dio.

Che cosa più crudel, giovar mi puote
     Se ’l giusto priego mio non può fermarti?
     Non l’amor mio, non le dolenti note,
     Non mille, e mille mie lodate parti;
     Ma quanto più il mio duol l’aria percote,
     Tanto più fuggi, e men posso arrestarti.
     Nè giovar ponno à le mie piaghe acerbe
     Regni, fati, beltà, canto, arco, et herbe.

Al fin l’innamorato Dio s’accorge,
     Ch’ella non vuol, che ’l suo parlar conchiuda:
     Tace, e la mira, e più bella la scorge,
     Che ’l corso fa, ch’ella arrossisce, e suda:
     Gonfia il vento le vesti, e manca, e sorge,
     E mostra hor questa, hor quella parte ignuda.
     L’aura, che al corso suo contraria spira,
     La chioma alzata in aria apre, e raggira.

Visto che hor più vago il divo aspetto
     Cresce à la Ninfa, e ch’ascoltar non vuole,
     Non può soffrir l’acceso giovinetto
     Di gittar più lusinghe, e più parole:
     Il cuoce in modo il foco, c’ ha nel petto,
     Che non par piu che corra, ma che vole;
     E per l’ultimo suo maggior soccorso,
     Come gli mostra Amor, ricorre al corso.

Tal, se tal’hor la lepre al veltro innanzi
     Si stende al corso in ben’ aperto campo,
     Ch’ei corre ove correva ella pur dianzi,
     Co’ piè l’un cerca preda, l’altra scampo:
     E, perche l’aversario non l’avanzi,
     Questa, e quel passa ogni dubbioso inciampo,
     Già il can la piglia, e par che l’habbia in bocca
     Ella è in dubbio s’ è presa, ei non la tocca.

Così Febo, e la vergine fugace,
     Fan, questo sprona amor, quella timore.
     Al fin chi segue tiranno, e rapace,
     Forse aiutato da l’ali d’Amore,
     Nel corso è più veloce, e pertinace.
     Gia il rispirar, che dal corso è maggiore,
     Soffia nel crin de la Ninfa già stanca,
     À cui la forza, e la prestezza manca.

Mirando sbigottita il patrio fiume
     Disse piangendo. Ó mio benigno padre,
     S’è ver, che i fiumi habbian potere, e nume,
     Toglimi tosto a le mani empie, e ladre.
     Terra, che tutto produci, e consume,
     Terra, ch’ à tutti sei benigna madre,
     Questa, onde offesa son, bramata forma
     Inghiotti, ò in altro corpo la trasforma.

Volea più dir; ma di tacer la sforza
     Novo stupor, che tutto il corpo prende,
     E fallo un corpo immobil senza forza,
     Che non ode, non vede, e non intende.
     La cinge intorno una novella scorza,
     Che dal capo à le piante si distende.
     Crescon le braccia in rami, e’n verdi fronde
     Si spargon l’agitate chiome bionde.

Il piè veloce s’appiglia al terreno,
     E con radice immobil vi si caccia:
     La sommità del novo arbore ameno
     Tenne la grata sua leggiadra faccia.
     Servò sol lo splendore almo, e sereno,
     Che vuol, ch’à Febo anchor quest’arbor piaccia:
     Dubbioso il tocca, e trova con effetto,
     Tremar sott’altra scorza il vivo petto.