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Tosto la madre sua trova Fetonte
     Spinto da quel pensier, ch’entro il consuma,
     E prima, che ’l suo obbrobrio le racconte,
     Più volte fra se stesso il volve, e rmua:
     Madre mia, disse poi, non ho più fronte
     Farmi figliuol di quel, che ’l mondo alluma,
     Poi che non posso indubitata fede
     Farne à ciascun, che ’l nega, e non me’l crede.

E quì le raccontò tutto l’oltraggio,
     Ch’intorno à questo gli era stato opposto,
     E che per non poter del suo lignaggio
     Dar segno alcun, non havea mai risposto.
     E s’ella à lui non ne dava alcun saggio,
     Saria sempre à tal biasimo sottoposto;
     E saria sempre astretto di star cheto,
     Per non poterlo ributtare indrieto.

Hor se gliè ver, che di stirpe celeste
     Dal gran pianeta, che distingue l’hore,
     Io tragga questa mia corporea veste,
     A cui l’alma dà legge in mezzo al core,
     Se felice Himeneo le nozze appreste
     De le sorelle tue con ogni honore,
     Dammi quei segni, che figliuol mi fanno
     Di chi col suo camin pon meta à l’anno.

Non sò chi ne la donna habbia più forza,
     O ’l priego di Fetonte, ò la grand’ira:
     Che l’un, e l’altro à risponder la sforza
     Quel, che ’l temprato suo furor l’inspira.
     O figliuol, disse, ogni sospetto ammorza,
     Che sopra ciò t’affligge, e ti martira;
     Ch’ à l’esser tuo vital diede la luce
     Il gran rettor de la superna luce.

E distendendo al cielo ambe le braccia
     Per fuggir tanta infamia, e tanto scorno,
     Disse; Sei figlio à quella allegra faccia,
     Che con bel variar dà luce al giorno,
     À quel splendor, che le tenebre scaccia
     Per tutto, ove apparisce intorno intorno,
     À quel, ch’apporta à questa nostra sfera
     Estate, Autunno, Verno, e Primavera.
     
Ti cinse l’alma di corporee fasce
     Quel, c’hor le luci abbaglia ad ambedue,
     Quel Dio, che sempre muore, e sempre nasce,
     Quel, che surgendo à noi, tramonta altrui,
     Quel, che convien, che trasportar si lasce
     Contra il suo fin da chi può più di lui.
     E se di quel bel Sol figliuol non sei,
     S’oscuri hoggi per sempre à gli occhi miei.

Ma, perche meglio in questo ti contenti,
     È ben, che da lui proprio te ne vadi,
     E che ’l tuo desiderio gli appresenti
     Di quel segnal, che par, che sì t’aggradi,
     Pur, che ’l lungo camin non ti spaventi,
     Che si scosta da noi novanta gradi.
     Fetonte à ciò s’attien con buon coraggio,
     E stima poco un sì lungo viaggio.
     
Ver l’orto Hiberno si drizza Fetonte,
     E va sì ratto, che par, c’habbia l’ale.
     L’Orsa, quanto ei più va, più par, che smonte,
     E le restin da scender manco scale.
     Vide ambi i Poli star ne l’Orizonte,
     Quand’egli entrò ne l’Equinottiale:
     E quindi andò contra la Zona ardente
     A la corte del padre in Oriente.