Le Laude (1915)/LXIX. Arbore de ierarchia simile a l'angelica
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LXIX
Arbore de ierarchia simile a l’angelica:
fondata sopra la fede, speranza e caritate
Fede, spene e caritade — gli tre ciel vol figurare,
gli tre ciel e l’arbor pare — sí t’ensegno de trovare.
Ad onom chegio perdono — s’io parlo natoscono,
ch’io lo dico per alcono — e non per me de poco affare.
O tu, om, che stai en terra — e se’ creato a vita eterna,
vedi l’arbor che t’ensegna; — or non temer, briga d’andare.
A nove angeli poni cura — l’un de l’altro piú en altura,
molto è nobil tua natura, — tutti li pòi paregiare.
Lo primo arbor ch’è fondato, — nella fede è radicato,
passa lo cielo stellato — e giogne fin allo sperare.
El primo rametel ch’è pento — de l’offeso pentimento,
sia confesso e ben contento — de non voler piú peccare.
Poi el secondo me mandòne — a ffar la satisfazione
d’onne mia offensione — fin a Roma, com’appare.
E lo terzo sí me disse — che de Cristo si entendisse,
povero fosse, s’io volisse; — allor me vòlsi spogliare.
Om che giogne a tal stato, — sí se tiene per salvato,
ché ’l primo angel ha trovato; — briga de perseverare.
Poi al quarto me tiròne, — miseme en religione,
penitenza m’ensignòne — e de lo’nferno guardare.
Tosto el quinto sí me disse — ch’en tal ramo piú non stesse,
ma a l’orazion me desse, — se volea casto stare.
Da lo sesto fui tirato — e de tacer amaestrato,
obedir al mio prelato — meglio che sacrificare.
Chi en tale stato si trova, — con gli arcangeli demora;
benedetto el dí e l’ora — che Dio el vòlse creare.
Nello settimo fui tirato, — d’uno ramo desprezato,
lui battuto e descacciato; — ben me fu grave a portare.
Poi l’ottavo me tentòne — fomme fatto grand’onore
per la gran devozione — là tratti faceva andare.
Demorando enfra la gente, — al nono ramo pusi mente;
disseme: — Tu fai niente. — Cominciai a meditare.
Chi en tal stato è applanato, — dagli troni è acompagnato,
ché la fede l’ha ben guidato; — sopra el ciel pò abitare.
Poi ch’a pensar me misi, — tutto quanto stupefisi,
e me medesmo reprisi — e vòlsi il corpo tralipare.
Allora conobbi me dolente, — ch’io me tenea sí potente,
e non sapea che fusse niente, — pur al corpo facea fare.
Poi guardai l’arbor vermiglio,— ch’alla speranza l’assimiglio:
nolla guarda, en mio consiglio, — nul om ch’en terra ha stare.
Enverso l’arbor levai el viso, — disseme con chiaro riso:
— O tu, omo, ove se’ miso? — molto è forte l’apianare. —
Io resposi con tremore: — Non pos altro che ’l mio core,
esforzato d’uno amore, — el suo Signor vol trovare. —
Rispondendo, disse: — Or viene, — ma emprima lassa onne bene,
e poi deventa en te crudene — e non t’enganni la pietade.—
Ma en tal ramo facea ’l fiore — ch’al secondo me mandòne,
e lá trovai pomo d’amore — e cominciai a lacrimare.
Poi nel terzo piú sentenno, — a Dio demandai lo ’nferno,
lui amando e me perdenno — dolce m’era onne male.
Chi en tal stato monta sune — è con le dominazione,
al demonio porta amore — e grande prende securtade.
Nello quarto fui poi levato, — el mio entelletto fu scurato,
dal Nemico fui pigliato, — non sapea que me fare.
Non potea el quinto patire, — per dolor andai a dormire,
en fantasia fo ’l mio vedire — el diavolo a sommare.
Nel sesto perdei el sonno, — tenebroso vidde el monno,
furome nemici entorno — vòlserme far desperare.
La memoria m’aiutòne — e de Dio me recordòne,
lo mio cor se confortòne — e la croce volli abracciare.
Chi la croce strigne bene, — Iesú Cristo li soviene,
poi lo principato tiene — ne la gloria eternale.
Fui nel settimo approbato, — e doppio lume me fo dato;
fo el Nemico tralipato, — non potendome engannare.
Mantenente retornòne — conio un angelo el latrone,
una chiesa me mostròne — ch’io l’andasse a relevare.
Io, com’omo timorato — e del cader amaestrato,
non ce vòlsi volger capo; — al ramo ottavo vòls’andare.
Allor m’aparve como Cristo — e disse: — Io so tuo maistro;
pigliate de me diletto, — ché te voglio consolare. —
Io respusi: — Cristo disse — ch’io en lui non me folcisse,
nel suo Patre lo vedisse — ne l’eterna claritate. —
Como un angelo de luce — me apparve entro la fuce,
e disseme en chiara vuce: — Te se’ degno d’adorare. —
Io respusi: — Onne onore — sia del mio Creatore;
en ciò conosce lo mio core — che non se’ quel che tu pare. —
Vedendome ’l Nemico sagio, — se partí con suo dannagio;
ed io, compiendo ’l mio viagio, — fui nel ramo del contemplare.
L’onor dando a l’Onnipotente, — tutta si squarciò mia mente,
vedendoci Dio presente — en ciò ch’avea resguardare.
Questo è lo ciel cristallino, — ca speranza sí vien mino;
chi de lo splendor è pino, — regna colle potestate.
Al terzo ciel poi pusi mente, — piú che sol era lucente,
tutta s’enfiammò mia mente, — de voler lá su andare.
Per un arbor sí s’apiana, — caritate sí se chiama,
en alto stende suoi rama — e la cima è che non pare.
Vòlsi montar a cavallo; — disseme: — Cavalca sallo,
o tu, om, agi el bon anno, — emprima scolta el mio parlare.
Due battaglie hai tu vente: — lo Nemico e l’altra gente;
ormai purifica tua mente, — se per me vorrai montare. —
Io respusi con amore: — Io so libero de furore,
ciò me mostra lo splendore — ch’i’ obedisca el tuo parlare.—
De la luce facea la tarza — e de la tenebra la lanza,
posi mente a la bilanza — e comenciai a cavalcare.
Al primo grado ch’io salia, — la pigrizia trovai empría,
dissi: — Donna, male stia! — ché per te nasce onne male. —
Io sguardai: non era sola, — apresso lei stava la gola
con un’altra ria figliola: — lussuria è suo vocare.
Entanno disse l’alma mia: — Questa è mala compagnia. —
Con la lancia la fería — e sí la feci tralipare.
Poi me n’andai nel seconno: — vanagloria me fo entorno,
volea far meco sogiorno — como giá solea fare.
Io li dissi villania, — tosto me rispose l’ira:
— Noi avemo una regina — e semo de sí alto affare.
Avarizia è el suo nome — e manten questo costume,
ca racoglie e sí repone — ciò che potemo guadagnare. —
Io, vedendo tal brigata, — la targia m’ebbi abracciata,
l’una e l’altra ebbi frustata — e sí le feci scialbergare.
Poi, crescendo mia possanza, — fui al terzo con alegranza;
lá trovai la ignoranza — e sí la presi a biastemare.
Per sua camera cercava — e la superbia sí trovava,
una donna molto prava — e ben me vòlse contrastare.
Una ancilla venne cortese, — che allora facea le spese,
e voluttate sí se desse, — essa l’ha presa a governare.
Io, vedendo sí mal gioco, — dissi: — Questo non è poco;
or al foco, al foco, al foco! — E tutte tre fei consumare.
Chi le vizia ha venciute, — regna en ciel con le virtute,
ormai cresce sue salute, — se lle virtú so concordate.
Poi nel quarto ramo entrai, — en doi stati me trovai:
collo poco e co l’assai, — con ciascun sapea Dio amare.
Nel quinto poi andai gioioso. — lá su fui piú virtuoso,
ché me fece lo mio sposo — obedire e comandare.
Consumai onne graveza. — vidime en sí gran richeza;
disseme l’alta Potenza: — Or fa ch’en te la sacci usare. —
Fui nel sesto senza entenza — ne la profonda sapienza,
concordai con la potenza — ne la pura volontate.
L’om che giogne tanto suso, — con li cherubini ha puso;
ben pò vivere gloriuso, — ché vede Dio per veritate.
Quando me vedi en tanta altura, — en me tenendo onne figura
fomme ditto en quel ura: — Ora spendi, ché ’l poi fare. —
Io guardai al Creatore, — assentíme d’andar sune,
e meditai a suo onore — onne gente en suo affare.
Poi ne l’ottavo me n’andai, — e con gli angeli conversai
nel mio Sire che tanto amai, — secondo lo lor contemplare.
En alto se levò mia mente, — al nono ramo fui presente,
laudo lo vero Onnipotente — en se medesmo vòlsi usare.
Chi lí giogne, ben è pino — dello spirito divino,
fatto è un serafino, — sguarda nella Trinitade.
E tutti li stati ha lassati, — e li tre arbori ha spezati,
e li tre cieli ha fracassati, — e vive nella Deitade.
Om che giogni a tal possanza — per mercé per tua onoranza,
priega la nostra speranza — che te possiam sequitare.