Lasso! che, quando imaginando vegno

Fazio degli Uberti

XIV secolo Indice:Le Rime di Cino da Pistoia.djvu canzoni Letteratura Lasso! che, quando imaginando vegno Intestazione 2 settembre 2021 100% Da definire

Questo testo fa parte della raccolta Rime scelte di poeti del secolo XIV/Fazio degli Uberti


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     Lasso! che, quando imaginando vegno
Il forte e crudel punto dov’io nacqui
E quanto più dispiacqui
A questa dispietata di fortuna;
5Per la doglia crudel che al cor sostegno,
Di lagrime convien che gli occhi adacqui
E che ’l viso ne sciacqui,
Ch’ogni duolo e sospiro al cuor s’aduna.
Come farò io, quando in parte alcuna
10Non trovo cosa che aiutar mi possa,
E quanto più mi levo più giù caggio?
Non so: ma tal vïaggio
Consumato have sì ogni mia possa.
Ch’io vo chiamando morte con diletto;
15Sì m’è venuta la vita in dispetto.
     Io chiamo, io prego, io lusingo la morte
Come divota cara e dolce amica,
Che non mi sia nemica
Ma vegna a me come a sua propria cosa.
20Ed ella mi tien chiuse le sue porte,
E sdegnosa vêr me par ch’ella dica
Tu perdi la fatica,
Ch’io non son qui per dare a’ tuoi par posa.
Questa tua vita cotanto angosciosa
25Di sopra data ti è, se ’l ver discerno;
E però il colpo mio non ti distrugge. —
Così mi trovo in ugge
A’ cieli al mondo all’acqua ed all’inferno,

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Ed ogni cosa c’ha poder mi scaccia;
30Ma sol la povertà m’apre le braccia.
     Come dal corpo di mia madre usci’ io,
Così la povertà mi fu da lato,
E disse — T’è fatato
Ch’io non mi deggia mai da te partire. —
35E s’ tu volessi dir come ’l so io,
Donne che v’eran me l’hanno contato;
E più manifestato
M’è per le prove, s’io non vo’ mentire.
Lasso! che più non posso sofferire;
40Però bestemmio in prima la natura
E la fortuna, con chi n’ha potere
Di farmi sì dolere:
E tocchi a chi si vuol, ch’io non ho cura.
Chè tanto è ’l mio dolore e la mia rabbia,
45Ch’io non posso aver peggio ch’or io m’abbia.
     Però ch’io sono a tal punto condotto,
Ch’io non conosco quasi ov’io mi sia;
E vado per la via
Com’uom ch’è tutto fuor d’intendimento;
50Nè io altrui nè altri a me fa motto,
Se non alcun che quasi com’io stia;
Più son cacciato via,
Che se di vita fossi struggimento.
Ahi lasso me! che così vil divento,
55Che morte sola al mio rimedio chieggio.
Il cuore in corpo e la voce mi trema,
Io ho paura e tema
Di tutte quelle cose ched io veggio;
Ed ancor peggio m’indivina il core,
60Che senza fine sarà il mio dolore.
     Mille fïate il dì fra me ragiono
— Deh, che pure fo io che non m’uccido?
Perchè me non divido
Da questo mondo peggior che ’l veleno? —
65E riguardando il tenebroso suono
Io non ardisco a far di me micido;
Piango lamento e strido,
E com’uom tormentato così peno.

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Ma quel dì ch’io verrò piuttosto meno
70Si è, ch’io odo mormorar la gente
Che mi sta più che ben se io ho male;
E ch’è gente cotale,
Che, se fortuna ben ponesse mente
In meritargli quel che sanno fare,
75E’ non avrebbon pan da manicare.
     Canzon, io non so a cui io mi ti scriva;
Ch’io non credo che viva
Al mondo uom tormentato com’io sono;
E però t’abbandono,
80E vanne ove tu vuoi, u’ più ti piace,
Chè certo son ch’io non avrò mai pace.


(Dalla Raccolta di rime antiche di diversi toscani del Corbinelli, ecc., ragguagliata e migliorata su la lezione che ne dà il Trucchi (Serventese, ecc.)