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RIME

E poi con voce pia
60Dirai che poco men son che mendico,
E non poss’esser di me stesso amico.


(Attribuita a G. Cavalcanti; e ora per autorità de’ codd. restituita all’Uberti.)



VIII


     Lasso! che, quando imaginando vegno
Il forte e crudel punto dov’io nacqui
E quanto più dispiacqui
A questa dispietata di fortuna;
5Per la doglia crudel che al cor sostegno,
Di lagrime convien che gli occhi adacqui
E che ’l viso ne sciacqui,
Ch’ogni duolo e sospiro al cuor s’aduna.
Come farò io, quando in parte alcuna
10Non trovo cosa che aiutar mi possa,
E quanto più mi levo più giù caggio?
Non so: ma tal vïaggio
Consumato have sì ogni mia possa.
Ch’io vo chiamando morte con diletto;
15Sì m’è venuta la vita in dispetto.
     Io chiamo, io prego, io lusingo la morte
Come divota cara e dolce amica,
Che non mi sia nemica
Ma vegna a me come a sua propria cosa.
20Ed ella mi tien chiuse le sue porte,
E sdegnosa vêr me par ch’ella dica
Tu perdi la fatica,
Ch’io non son qui per dare a’ tuoi par posa.
Questa tua vita cotanto angosciosa
25Di sopra data ti è, se ’l ver discerno;
E però il colpo mio non ti distrugge. —
Così mi trovo in ugge
A’ cieli al mondo all’acqua ed all’inferno,


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