La trovatella di Milano/III
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CAPITOLO TERZO.
Il segreto di un milionario.
rano le cinque di sera. In un salottino appartato, caldo, elegantissimo di uno dei più sontuosi palazzi di Milano, sdraiato su di una poltrona, stava un uomo di una sessantina d’anni, dal sembiante triste e corrucciato.
Indossava una veste da camera di grosso drappo scarlatto, guernita di passamani d’oro: la testa portava nuda, perchè i capelli erano ancora foltissimi, tagliati a spazzola, grigiastri sulle tempia, le cui vene prominenti si gonfiavano alla minima emozione. Il viso di una bianchezza cerea spiccava ancora più sotto la lunghissima barba di un nero d’ebano; i suoi occhi bigi avevano uno sguardo duro, imperioso; il sorriso ironico delle sfingi increspava le sue labbra sottili.
Quell’uomo era il conte Ercole Patta, da pochi anni dimorante a Milano, sebbene dicesse di esservi nato e parlasse difatti il più puro dialetto lombardo.
Un profondo mistero avvolgeva la sua vita passata: era noto solo, che veniva da Vienna, dove eragli morta la moglie, lasciandogli una figlia, Adriana, che all’epoca del nostro racconto, compiva sedici anni ed era l’unica erede di colossali ricchezze; un tipo perfetto dell’avvenenza tedesca ed alle cui fisiche doti stavano al pari quelle morali.
La casa del conte Patta era il soggiorno della più schietta ospitalità; in essa vi convenivano i più ragguardevoli uomini politici, il fiore della cittadinanza. Il conte riceveva tutti con affabilità e confidenza, ma quanto più si mostrava in società espansivo, buon parlatore, allegro compagnone, altrettanto in privato era burbero, taciturno, glaciale.
Con sua figlia andava poco d’accordo, giacchè egli voleva darle in isposo un certo marchese Diego Tiani, un orfano che alloggiava nello stesso palazzo, perchè il conte diceva essergli stato raccomandato dal padre morente, e faceva la vita del gran signore. Ma sebbene Diego possedesse un sembiante incantevole, uno spirito inesauribile e contasse grandi ed innumerevoli trionfi colle dame, Adriana gli preferiva Gabriele Terzi, il figlio di un onesto commerciante, un giovane di alti intendimenti, con un cuore d’oro, una fisonomia dolcissima, aperta, leale.
Si erano incontrati ad una stazione balnearia, si amarono al primo sguardo scambiato fra loro e non era trascorso un mese, che se lo confessarono a voce bassa, giurandosi fedeltà eterna.
Gabriele giunto a Milano fece chiedere dal padre la mano dell’adorata giovinetta: il conte Patta rifiutò decisamente. Ma gl’innamorati non perdono giammai la speranza.
Gabriele si sentiva amato ed era quasi convinto che un giorno o l’altro, il conte si sarebbe piegato alle sue preghiere ed a quelle della figlia. Ed intanto andava ovunque trovavasi Adriana per ammirarne i vezzi, averne i sorrisi, raccogliere i fiori, che ella non mancava mai di lasciare cadere sul suo cammino. Diego sapeva tutto ciò ed esecrava il suo rivale e vedendo di non riuscire in alcun modo togliere l’immagine di lui dal cuore di Adriana, determinò di provocare il giovane. Ma questi rispose all’attacco con tal dignità, che il giovane marchese ne uscì sconfitto, umiliato. Allora la sua rabbia non ebbe più freno e l’ultima notte di carnevale, avendo sorpreso Gabriele sotto le finestre di Adriana, l’assalì a tradimento. Ma il giovane si difese con tale impeto, che disarmò l’assalitore, il quale dovette cercare uno scampo nella fuga, soddisfatto ancora di non essere stato riconosciuto.
Il giorno seguente, Diego si ebbe un lungo e segreto colloquio col conte. Allorchè il giovane lasciò il gabinetto, il gentiluomo apparve fortemente turbato e durò fatica a calmarsi.
Finalmente suonato con violenza il campanello, ordinò al cameriere accorso di far avvertire la contessina Adriana, che il padre desiderava parlarle.
E si sdraiò sulla poltrona ad attenderla. La giovinetta non tardò a comparire. Era adorabile nel suo semplice abito di flanella bianca, stretto alla cintura da un nastro di raso celeste. Un nodo di egual colore, le fermava le treccie biondissime, cadenti sulle spalle. Il suo viso di un ovale perfetto, era impareggiabile per nobiltà ed attrattive; la bocca aveva piccola e porporina, il naso diritto, colle narici lievemente dilatate, il colorito soave, gli occhi azzurri, grandi, vivacissimi.
Entrando, aveva un dolce sorriso sulle labbra.
— Eccomi, caro papà, disse avvicinandosi a lui e baciandolo in fronte, che vuoi dalla tua Adriana?
— Vorrei essere ubbidito.
Il tuono brusco con cui furono pronunziate queste parole, fecero trasalire la giovinetta.
— Non l’ho sempre fatto? — replicò.
— No, giacchè persisti nel rifiuto a sposare il marchese Diego.
— Ma io non l’amo, il mio cuore è di un altro.
— Che non sarà giammai tuo marito.
Adriana tremava d’una inaudita commozione, pure nel suo immenso amore per il giovane attinse coraggio, che in altra circostanza forse le sarebbe mancato.
— Ebbene sia — disse con voce sicura — rinunzierò a Gabriele, ma non sarò di Diego.
— E se io te l’imponessi?
— Non puoi volere la mia morte, perchè ti giuro che prima di appartenere a lui, mi ucciderei.
— Ma che ti ha fatto Diego perchè tu l’odia tanto?
— Nulla, ma un vago istinto mi dice di diffidarne e mi sembra che tu stesso ne abbia paura.
Il conte pallido come un morto, guardò Adriana con uno sguardo fisso e stralunato, mentre colla mano destra increspata, stringeva convulsamente la spalliera della poltrona.
— Io! — esclamò sordamente — Tu sei pazza e giacchè cerchi tutti i mezzi per sottrarti alla mia volontà, ti ripeto che in breve dovrai adempirla.
— No, mille volte no! — proruppe la fanciulla, benchè nell’accento del padre risuonasse una formidabile minaccia.
Parve che il conte volesse scagliarsi su di lei, tanto era l’impeto con cui si sollevò dalla poltrona; ma vi ricadde tosto, con un gesto di noncuranza e di disprezzo.
— Esci, — disse indicando freddamente l’uscio.
Adriana si ritirò senza rispondere. Il conte ebbe appena il tempo di passarsi una mano sulla fronte per scacciare qualche cruccioso pensiero, che da un altro uscio entrava nel salotto Diego.
Era il giovane che l’ultima notte di carnevale aveva cercato rifugio nel negozio della bella guantaia, sconvolgendole il cervello ed il cuore. Vestito colla raffinatezza degli eleganti suoi pari, sembrava più seducente, sebbene una lieve ruga attraversasse in quel momento la sua bianchissima fronte.
— Ebbene? — chiese sdraiandosi con famigliarità su di un divano, incrociando una gamba sull’altra e gettando sul conte uno sguardo audace e sprezzante — Adriana si ostina a rifiutarmi?
Il conte alzò bruscamente il capo.
— L’hai sentita?
— Sì.
— Dunque ho nulla a risponderti. Ed il meglio che tu possa fare, è di cambiare idea,
— Niente affatto, perdio! Non cedo con tanta facilità. Tua figlia si rivolta, fa l’orgogliosa, ma basterebbe che io le sussurrassi poche parole all’orecchio, per vederla piegare: ti è noto se, quando voglio, voglio!
Il conte aggrottò le ciglia, si morse le labbra.
— Che vorresti dirle? — balbettò.
— Ciò che siamo io e te, perbacco. Le racconterei per filo e per segno il tuo passato, mostrandole l’epistolario che ebbi da mio padre. E quando ella saprà che l’uomo, il quale adesso si fa chiamare conte Patta, è stato nel quarantotto un infame spia che si vendette successivamente, contemporaneamente a tutti, salvo a tradire a tempo opportuno, chi meno lo pagava, per chi gli offriva di più; allorchè le racconterò la tua fuga da Milano nelle famose cinque giornate, lasciando preda al furore popolare, che voleva far giustizia sommaria della spia, una moglie innocente, una tenera bambina...
— Taci, taci... — interruppe balbettando per l’ira il conte, rizzandosi con impeto, per avvicinarsi al giovane.
Questi non si mosse, sembrava sfidarlo con gli sguardi arditi.
— Non è la verità?
— Taci ti dico, ho sopportato tutto da te, parole crudeli ed insultanti, ricatti, angherie, umiliazioni; mi sono piegato a quanto volesti, non risparmiandoti cure, denari, pagando qualsiasi tuo debito. Ma se per rendere Adriana tua schiava, tu adoperassi i mezzi usati con me, se dalle tue labbra uscisse una sola delle rivelazioni che a me ti compiaci ripetere per tormentarmi e minacciarmi, giuro che non uscirai vivo dalle mie mani, mi succeda poi quello che si voglia.
Il suo accento, il suo gesto erano tali da spaventare chiunque altro si fosse trovato al posto di Diego. Ma il giovine non dimostrò alcuna emozione.
— Via, via, credo che tu scherzi — disse alzando le spalle — come io ho semplicemente voluto avvertirti, che volendo, avrei il mezzo di abbassare l’orgoglio di Adriana e vedermela piangente fra le braccia. Tuttavia credo di aver trovato ancor meglio per farla mia moglie e vendicarmi al tempo stesso del mio rivale.
Spiegò il suo progetto che fu approvato dal conte. Erano tornati in apparenza calmi e quando si separarono si strinsero da buoni amici, la mano.
Ma il conte rimasto solo, cadde annichilito sul divano e celando il volto in un guanciale di seta, in un parossismo d’ira impotente, pianse come un fanciullo.