La storia d'un ciliegio
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LA STORIA D’UN CILIEGIO
Benchè non fossi che un giovinetto sedicenne, mi sentivo già imbevuto delle idee antidogmatiche che pullulano nei cervelli degli studenti, ma la voce dolcissima di mia madre aveva un accento troppo insinuante perchè osassi opporle alcuna resistenza.
M’avviai perciò con animo fermo, ma non privo di riluttanza e con lento passo, verso il convento dei Francescani che sorge sopra una ridente altura e, visto che la chiesuola era deserta, pregai il portinaio di condurmi dal padre Serafico, un dotto e pio frate che amavo sin dall’infanzia. La sua cella, in quel momento, era occupata e io fui richiesto di aspettare nel chiostro.
Era quel chiostro uno dei più pittorici che si possano immaginare e l’infinita poesia del quieto pomeriggio d’aprile ne accresceva la mistica pace. Feci più volte il giro del portico contemplando le svelte colonnine, puro stile del cinquecento, che ne reggevano gli archi e che adornava qui e lì un qualche allegro festone di glicine, tutto ceruleo di freschi grappoli, il cortile col suo bel pozzo antico intorno al quale correvano insieme una siepe di rosai carichi di bottoni e un’aiuola di narcisi stellata di fragranti corolle. Poi, guardavo ai muri la cui nudità austera e bianca non era interrotta che da porte e finestre chiuse, e ad oriente da una grande e semplicissima croce.
A piedi di quella croce stava una vecchia panca: stanco di camminare vi sedetti meditando mitemente sui miei peccati, così mitemente che un vago sopore invase l’intero mio essere. Allora, nel profondo silenzio claustrale che le armonie indefinite della primavera non riescivano a turbare, udii una voce flebile e strana che narrava così:
“Della mia prima età non ho che un’incerta rimembranza.
Ricordo d’essermi trovata in una grande e rozza paniera di vimini insieme a tante altre sorelle, tutte ciliege grandi, rosse, perfette che vendevano a sedici a sedici.... eravamo così grosse che non ne occorreva di più per formare una libbra.
Fino a quel giorno, ero riuscita a sfuggire alle insidie degli uccelli, delle vespe odiose e alla mano avida del coltivatore, ma nessuno può evitare il proprio destino: per quanto ripugnasse alla mia indole ribelle e ambiziosa, dovevo rassegnarmi a comparire anch’io colle altre sul vile mercato. L’ortolano s’avviava alla città col suo pesante fardello quando gli si appressò una cenciosa fanciulletta, balbettando: “Ho fame....”
Esitò il buon uomo, mostrando le tasche vuote, poi, sedotto da un supplichevole sguardo, mise nel logoro grembiule della mendica una manata di ciliege. Io ero fra quelle e, come avevo immaginato di dover finire almeno negli splendori d’una qualche imbandigione principesca, fremetti stoltamente di sdegno per il mio umile ufficio.
Fatti pochi passi la fanciulletta ci mangiò tutte ad una ad una, assaporandoci con voluttà, e quando venne la mia volta (le parevo bella!) mi guardò con una certa compiacenza, per il trasparente color di rubino ond’ero suffusa, e, strappatami crudelmente dal gambo mi prese con atto goloso fra le anemiche labbra onde schiacciarmi, poi sotto i denti piccoli e bianchi. La sua bocca leggiadra fu inondata da un sugo squisito, ma io che divenni? un ossicino imbrodolato di rosso, come lo tingesse il sangue di una ferita, un povero ossicino perduto nella polvere della via.... Da prima provai un. senso di freddo e di malessere mortale: difatti non potevo aspettarmi che una fine prossima e triste.
Un passero bizzarro, passeggiando per suo diporto, mi scorse e, credutomi chi sa qual ghiotto boccone, m’afferrò capricciosamente col becco e s’innalzò a volo, ma ben presto s’avvide, l’inesperto, ch’ero troppo duro per il suo esigente palato e mi lasciò cadere a piombo, accanto ad una siepe di spini.
Pochi giorni appresso, uno scarabeo faccendiero, inconscio ministro della Provvidenza, chi sa con quale suo scopo occulto, mi rotolò in un bucherello che la pioggia non tardò a riempire di sabbia. Ero sepolto, nelle tenebre, nell’oblio. Ma io sapevo che per germogliare, per crescere e diventar grandi, come avevo follemente desiderato nella mia indomabile vanità, bisognava adattarsi a giacere sotterra e io mi sarei rassegnato di buon grado a qualunque martirio, in vista delle glorie future. Per nulla avrei aspirato alla sorte d’un certo nocciuolo, reso celebre per merito altrui, che un paziente prigioniero aveva minutamente intagliato, come un gioiello, e che languiva di noia in un museo.
Quanto rimanessi in quella tomba, privo di luce, non lo rammento; non ho mai avuto una nozione esatta del tempo. Caddi in un sonno letargico, ed erano certo trascorsi molti mesi quando mi destai con un’angoscia non mai provata. Sentivo delle trafitture acute e un’ardente brama di vivere faceva vibrare tutto il mio piccolo essere, mi scricchiolavano le ossa, soffrivo atrocemente.... poi, quasi inconscio di me, mi trovai a fior di terra, in forma di tenero e pallido germoglio. Era una notte placida, illuminata dalla luna, e mi parve bello il mondo; ancor più incantevole lo trovai l’indomane quando spuntò l’aurora e una grossa goccia di rugiada mi dissetò. Un grazioso biancospino fioriva sopra di me, un olezzo amarognolo si diffondeva in quel sereno giorno di maggio, danzavano volubilmente i moscerini al sole, tutto era festa nella natura. Il pensiero della mia piccolezza mi tenne qualche tempo in angustia. Stavo zitto, tutto raccolto in me stesso, or temendo, ora sperando, ma i dubbi penosi onde fu torturata la mia giovinezza, non m’impedirono di crescere rapidamente. In breve divenni un arboscello e sorpassai la siepe, quantunque la terra arida ed infeconda, ov’ero caduto, mi desse uno scarso nutrimento, quantunque la polvere della via impedisse alle mie foglioline di respirar bene.
Quale felicità la prima volta che mi fu concesso di fiorire!
I miei fiorellini bianchi civettavano teneramente nell’aria imbalsamata ed io ne sbizzarrivo tutto dalla gioia. L’anno seguente m’accorsi d’essere cresciuto assai e il biancospino che m’era stato sempre fedele amico, cominciò a mostrarmisi meno benevolo non solo, ma manifestò anche certi indizi di noia per la mia vicinanza. Aveva inteso, quell’originale, che nella Cina i fiori di ciliegio sono molto apprezzati e temeva che le romantiche forestiere, le bionde misses, passando per quella via, non mi preferissero a lui, per un capriccio della moda.
La sorte ci separò tuttavia fra breve e io fui il più fortunato. Le mie foglie, vestite colla divisa rossa dell’autunno, s’erano appena involate cogli aquiloni di novembre quando un bel dì, mentre la via era ancor deserta, mi si presentò dinnanzi un omiciattolo sciancato e munito d’uno zappone. Egli scavò un poco e con grande cautela il terreno intorno a me, poi mi svelse barbaramente e mi caricò in ispalla, colle radici al vento. Fino a quel giorno non avevo appartenuto a nessuno: mi accorsi subito d’aver trovato un padrone. Dopo un lungo cammino giungemmo dinnanzi ad un cortile, nel centro della città. Il mio omino aperse il portone, entrò e, messomi in un canto ad aspettare, si dette con alacrità a scavare la buca destinatami. Appoggiato in qualche modo a un vecchio melo e mezzo intirizzito, stavo osservando con raccapriccio la mia nuova dimora.
Muraglie altissime chiudevano da tre lati il tetro cortile, sul quarto s’innalzava un edifizio prosaico che pareva toccasse il cielo, dal portone all’entrata di quello correvano due siepi d’insipidi arbusti verdeggianti, certi arbusti che hanno da vestirsi anche nell’inverno e non servono a nulla. A destra e sinistra di essi, chiusi in quella prigione, v’erano due piccoli frutteti, in uno dei quali mi fu concesso il posto d’onore.
Compiuto il lavoro, il brutto omino adagiò amorevolmente le mie radici, pressochè gelate, sul fondo della buca, vi buttò alcune palate di terra, aggiunse uno strato di guano, di quello che fa venire il caldo nelle ossa, poi dell’altra terra.... speravo fosse finita, ma no, mi fu forza accettare la compagnia d’un palo, un palo secco e stupido che doveva star meco a guarentigia della mia snellezza. Avevo ben altro in mente che di diventar gobbo, povero il mio padrone!
Cessato il primo disgusto, compresi subito che avevo cambiato in meglio. Non era più il suolo ghiaioso dei miei giovani anni ove le mie radici avevano conosciuto gli stenti e il digiuno, era un fertile umo ov’esse potevano stendersi e serpeggiare voluttuosamente, suggendo con avida forza la vita. Di stirpe sana e vigorosa, energico per natura, io profittavo con delizia di quel favorevole elemento; e appena mi sentii sicuro dell’esistenza, incominciai ad occuparmi con interesse de’ miei compagni. Benchè di famiglie diverse appartenevano tutti alla mia casta, chi aveva conosciuto la miseria, chi la lieta fortuna; in coro rimpiangevano le soddisfazioni dell’aperta campagna.
Il comune malcontento li aveva resi momentaneamente amici, solo un pesco sbilenco che proteggeva dalle intemperie la gronda d’un tetto, faceva sdegnosamente da sè, vantandosi che la primavera lo adornasse d’un velo di rosa, mentre, a quell’epoca, il nostro vestito non somigliava che alla neve. Questa sua debolezza destava in molti un vero scoppio d’ilarità e anzi un giovane pruno di Marsiglia, d’indole assai leggera, se la rideva tanto, scrollando i rami, che il terreno sotto restava tutto bianco de’ suoi fiori e le susine andavano perdute. Anch’io mettevo il pesco in ridicolo, ma in fondo la vanità mi torturava colle sue paure. Temevo d’essere un ciliegio selvatico e certe voci vaghe udite nell’infanzia, la mia indisciplinatezza nativa, e il maldicente mormorio degli arbusti verdi da me scoperto origliando, una notte che nessuno poteva dormire dalla sete, tutto mi confermava nel mio penoso sospetto. Parlando di me, dicevano quei malcreanzati che le mie frutta eran roba da passerotti....
Io tremavo dalla collera, tutto avrei dato piuttosto che conceder loro la compiacenza di vedermi carico di ciliegine nere, aspre, ordinarie.... volentieri mi sarei lasciato mutilare dalla tenaglia dell’orticultore.
Eppure, ancor quell’anno, ricco di linfa qual’ero, avevo messo un bel raggio di fiori e le minuscole frutta verdi pendevano a ciocche a ciocche dai miei rami.
Quanti sarcasmi e quali sofferenze! Il pesco poi non la finiva più. Nei peschi vi fu sempre e sempre vi sarà un nascosto veleno.
Una solenne grandinata mi liberò dall’impaccio, troncando la lite. Fu così fitta e così prolungata che i nostri rami rimasero brulli come in inverno. Piangeva il padrone le deluse speranze, piangevano i compagni e quei verdi fannulloni della siepe che avevano le membra flagellate, ma io ero allegro in tanta sventura. Bene o male lo scopo era raggiunto, le mie umili ciliegine giacevano abbattute al suolo. Che cosa non si sopporterebbe per la vanità! L’unico rimpianto ch’io ebbi fu per un delicatissimo convolvolo che s’era attorcigliato timidamente al mio tronco e che non sopravvisse all’eccidio. Era un esserino innocuo e debole e gli volevo bene assai.
Rassicurato intorno alle mie orgogliose apprensioni, impiegai tutte le forze che mi restavano a rivestirmi di verde, e crebbi ancora sottile ed elastico bensì ma vigoroso. Avidi di sole, i miei ramoscelli si protendevano ansiosamente verso il cielo, cercandone i raggi, cercando visioni dilettose d’orizzonti e di campagne. Non ero infelice perchè sempre mi sorreggeva l’intimo presagio di migliori destini. Assorto in un continuo vagheggiamento di gloria, tolleravo con magnanimità lo spirito rozzo dei compagni tutti dediti a materiali aspirazioni, la volgarità del mio bruttissimo padrone, l’andirivieni di professori, maestre e scolarine che passavano dal cortile per recarsi alla scuola magistrale femminile della quale egli era bidello. Solo una volta m’inquietai con una bruna fanciulla che s’era fatto lecito di scrivere sul mio bel tronco liscio il nome del suo ideale che, per giunta, si chiamava Prosdocimo! Costui, un giovane letterato che insegnava, credo, nell’ultima classe, l’arte della corrispondenza galante, scoperse subito la dimostrazione segreta e preziosa e, per emulare la dolce amica, v’incise sotto, ancor più profondamente, la parola “amore.”
Io feci ogni sforzo onde venisse cancellato quello sconcio dall’immacolata mia corteccia ma nulla valse a distruggerla fuorchè la fine. Era bensì scomparso il nome ma rimaneva una brutta cicatrice e sempre si leggeva “amore.”
Vissi alcuni mesi così in una brama infinita di cose nuove: pensavo alla poesia dell’Oriente che fu la patria dei miei padri, pensavo a grandezze sconosciute.
⁂
Prima di raggiungere la meta sospirata mi toccò di patire assai.
Un pomologo esperto di quella città m’aveva comperato per la mia regolare ed elegante struttura, allo scopo d’innestarmi colla ciliegia “Queen of cherries” una meravigliosa novità del suo giardino, battezzata con un nome esotico, come usa, non parendogli forse bella abbastanza la lingua italiana. I miei rami gagliardi furono recisi a poca distanza dal tronco: egli praticò in ciascuno una fessura, in ciascuno introdusse un ramoscello carico di gemme, strinse quindi un laccio intorno alle mie ferite e le medicò saggiamente colla cera. Poi, nell’autunno, quando si fu assicurato che il nobile germe novello aveva attecchito sulla specie primitiva, assoggettandola al suo dominio, mi fece levare con molta prudenza dal suolo, e ben ravvolto in un saccone foderato di paglia e invidiato stavolta dai compagni, mi spedì lontano, in un’altra bella provincia d’Italia.
Un ricco signore m’aveva acquistato a caro prezzo: erano molto feconde le sue terre e per molte miglia non se ne vedeva il confine.
Io venni piantato non lungi dalla casa padronale e conobbi tutte le soddisfazioni dell’amor proprio.
Splendide, festose glorie furon le mie: il mio trono si cinse d’un raggio di rami; fiorito, parvi un’immenso mazzo nuziale; adorno di frutta grossissime, succulenti, precoci, tinte di cinabro e di sangue bianco, segno di nobiltà, formai l’invidia di molti, l’orgoglio dei miei signori. Le mie prime ciliege si mandarono in dono ai potenti. Fui felice, esultante, amato, accarezzato. Per amor mio si divelsero gli alberi ornamentali che m’erano cresciuti dintorno, io vegetai liberamente e spesso vidi folleggiare i giovinetti e le fanciulle sotto i miei lunghi rami.
Un giorno venne a visitare quella dimora sontuosa, quell’incantevole parco anche la figlia del re. La bella adolescente era debole di salute e nulla mai si negava al suo gentile desiderio.
Io le piacqui per i fiori che portavo, e per la eleganza perfetta delle mie forme; in tutto il regno non si trovò un ciliegio della mia specie che mi uguagliasse e i miei signori mi offersero in dono.
Ogni miglior cura fu messa all’opera ond’io non soffrissi nel trasporto e l’arte si mostrò sì efficace ch’io non me ne accorsi nemmeno.
La regale fanciulla possedeva una villa ridentissima, in un’insenatura di colline, non lungi dal mare. Ivi fui piantato tra le querce, i lauri ed i palmizii, tutti vegetali di carattere nobilissimo; ivi io godetti per molto tempo la vista d’un paesaggio paradisiaco, a me vicino crebbero le rose, i garofani, le vaniglie che alcun inverno non inaridiva, ivi i miei desiderii toccarono il colmo e i miei trionfi furono coronati. Per lei fiorivo, per lei mi coprivo di frutta, per lei crescevo ancora, proiettando lontano l’ombra mite in cui le piaceva di riposarsi.
Vidi tutte le dovizie e tutte le pene dei grandi, ma non n’ebbi che la miglior parte; le mie ciliege fecero pompa dei loro rubicondi colori nei tersi vasi di cristallo, fra i mazzi d’orchidee che languivano di nostalgia e le guardavano con occhi strani.
Ma un giorno la mia fata benigna, la bella figlia del re illanguidì anch’essa come un fiore che sognasse altri climi.
Invano ella chiese un rimedio alle miti aure del mare che come brezza dolcissima scorrevano con murmure armonioso fra i nostri rami, indarno accorsero da tutti gli stati i dottori più celebri per sorreggerne la vita così minacciata e così preziosa. Ella chinò la testina bionda e si spense come un giglio peregrino piega la corolla sul troppo esile stelo, e per suo volere ebbe la tomba entro il recinto della villa prediletta in vista del cielo, in vista dell’acque infinite.
Fu decretato che tutti gli alberi giocondi, al par di lei dovessero morire.
Dove noi crescevamo rigogliosi fieri e spensierati, ivi doveva sorgere una selva di cipressi e di salici piangenti, ivi dovevano fiorire i pallidi semprevivi, le malinconiche pervinche e quelle rose dai lunghi rami flessuosi che sono amanti dei sepolcri.
Carico di bottoni io fui raso al suolo: più che non cadessi, precipitai dall’alto della mia superbia.
Privo di sensi, spogliato d’ogni ornamento, deturpato senza pietà, mi giacqui a lungo in un cantiere.
L’accetta del falegname mi risvegliò un giorno dal mio doloroso torpore, provai per l’ultima volta le mute angoscie della tortura. Tutti i suoi ferri mi tentarono le viscere e la pialla cancellò per sempre le tracce della parola “amore.”
Ero passato da tutte le prove della sorte, avevo conosciuto gli stenti della miseria, le volgarità della vita mediocre, la febbre delle ricchezze, la grandezza malinconica delle corti.... La mia carriera era cominciata fra le arse labbra d’un’umile mendicante, e i miei ultimi bottoni s’erano appassiti entro le piccole mani ceree d’una principessa moribonda. Che cosa divenni poi per l’opera dell’uomo? il simbolo eterno del dolore, il simbolo in cui tutto finisce, prima di diventar polvere come diverrò.
La flebile voce si tacque. Io mi destai, mi volsi e vidi sopra di me la vecchia croce di legno tarlato su cui moriva un ultimo raggio di sole.
Calava la sera, s’era levato un po’ di vento e i fragranti petalucci degli alberi in fiore, involandosi dal calice venivano a morirle lentamente al piede.
Padre Serafico mi raggiunse e mi mise una mano sulla spalla con atto benevolo e pio. Senza far motto lo seguii nell’umile sua cella, vi stetti a lungo conversando di certi misteri e feci una buona confessione.
Jacopo Turco.