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la storia di un ciliegio 947

nessuno può evitare il proprio destino: per quanto ripugnasse alla mia indole ribelle e ambiziosa, dovevo rasssegnarmi a comparire anch’io colle altre sul vile mercato. L’ortolano s’avviava alla città col suo pesante fardello quando gli si appressò una cenciosa fanciulletta, balbettando: “Ho fame....”

Esitò il buon uomo, mostrando le tasche vuote, poi, sedotto da un supplichevole sguardo, mise nel logoro grembiule della mendica una manata di ciliege. Io ero fra quelle e, come avevo immaginato di dover finire almeno negli splendori d’una qualche imbandigione principesca, fremetti stoltamente di sdegno per il mio umile ufficio.

Fatti pochi passi la fanciulletta ci mangiò tutte ad una ad una, assaporandoci con voluttà, e quando venne la mia volta (le parevo bella!) mi guardò con una certa compiacenza, per il trasparente color di rubino ond’ero suffusa, e, strappatami crudelmente dal gambo mi prese con atto goloso fra le anemiche labbra onde schiacciarmi, poi sotto i denti piccoli e bianchi. La sua bocca leggiadra fu inondata da un sugo squisito, ma io che divenni? un ossicino imbrodolato di rosso, come lo tingesse il sangue di una ferita, un povero ossicino perduto nella polvere della via.... Da prima provai un. senso di freddo e di malessere mortale: difatti non potevo aspettarmi che una fine prossima e triste.

Un passero bizzarro, passeggiando per suo diporto, mi scorse e, credutomi chi sa qual ghiotto boccone, m’afferrò capricciosamente col becco e s’innalzò a volo, ma ben presto s’avvide, l’inesperto, ch’ero troppo duro per il suo esigente palato e mi lasciò cadere a piombo, accanto ad una siepe di spini.

Pochi giorni appresso, uno scarabeo faccendiero, inconscio ministro della Provvidenza, chi sa con quale suo scopo occulto, mi rotolò in un bucherello che la pioggia non tardò a riempire di sabbia. Ero sepolto, nelle tenebre, nell’oblio. Ma io sapevo che per germogliare, per crescere e diventar grandi, come avevo follemente desiderato nella mia indomabile vanità, bisognava adattarsi a giacere sotterra e io mi sarei rassegnato di buon grado a qualunque martirio, in vista delle glorie future. Per nulla avrei aspirato alla sorte d’un certo nocciuolo, reso celebre per merito altrui, che un paziente prigioniero aveva minutamente intagliato, come un gioiello, e che languiva di noia in un museo.

Quanto rimanessi in quella tomba, privo di luce, non lo rammento; non ho mai avuto una nozione esatta del tempo. Caddi in un sonno letargico, ed erano certo trascorsi molti mesi quando mi destai con un’angoscia non mai provata. Sentivo delle trafitture