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952 la storia di un ciliegio

querce, i lauri ed i palmizii, tutti vegetali di carattere nobilissimo; ivi io godetti per molto tempo la vista d’un paesaggio paradisiaco, a me vicino crebbero le rose, i garofani, le vaniglie che alcun inverno non inaridiva, ivi i miei desiderii toccarono il colmo e i miei trionfi furono coronati. Per lei fiorivo, per lei mi coprivo di frutta, per lei crescevo ancora, proiettando lontano l’ombra mite in cui le piaceva di riposarsi.

Vidi tutte le dovizie e tutte le pene dei grandi, ma non n’ebbi che la miglior parte; le mie ciliege fecero pompa dei loro rubicondi colori nei tersi vasi di cristallo, fra i mazzi d’orchidee che languivano di nostalgia e le guardavano con occhi strani.

Ma un giorno la mia fata benigna, la bella figlia del re illanguidì anch’essa come un fiore che sognasse altri climi.

Invano ella chiese un rimedio alle miti aure del mare che come brezza dolcissima scorrevano con murmure armonioso fra i nostri rami, indarno accorsero da tutti gli stati i dottori più celebri per sorreggerne la vita così minacciata e così preziosa. Ella chinò la testina bionda e si spense come un giglio peregrino piega la corolla sul troppo esile stelo, e per suo volere ebbe la tomba entro il recinto della villa prediletta in vista del cielo, in vista dell’acque infinite.

Fu decretato che tutti gli alberi giocondi, al par di lei dovessero morire.

Dove noi crescevamo rigogliosi fieri e spensierati, ivi doveva sorgere una selva di cipressi e di salici piangenti, ivi dovevano fiorire i pallidi semprevivi, le malinconiche pervinche e quelle rose dai lunghi rami flessuosi che sono amanti dei sepolcri.

Carico di bottoni io fui raso al suolo: più che non cadessi, precipitai dall’alto della mia superbia.

Privo di sensi, spogliato d’ogni ornamento, deturpato senza pietà, mi giacqui a lungo in un cantiere.

L’accetta del falegname mi risvegliò un giorno dal mio doloroso torpore, provai per l’ultima volta le mute angoscie della tortura. Tutti i suoi ferri mi tentarono le viscere e la pialla cancellò per sempre le tracce della parola “amore.”

Ero passato da tutte le prove della sorte, avevo conosciuto gli stenti della miseria, le volgarità della vita mediocre, la febbre delle ricchezze, la grandezza malinconica delle corti.... La mia carriera era cominciata fra le arse labbra d’un’umile mendicante, e i miei ultimi bottoni s’erano appassiti entro le piccole mani ceree d’una principessa moribonda. Che cosa divenni poi per l’opera dell’uomo? il