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VI VIII

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VII.

La notte, quando rientravo, mi mettevo alla finestra a fumare. Uno s’illude di favorire in questo modo la meditazione, ma la verità è che fumando disperde i pensieri come nebbia, e tutt’al piú fantastica, cosa molto diversa dal pensare. Le trovate, le scoperte, vengono invece inaspettate: a tavola, nuotando in mare, discorrendo di tutt’altro. Doro sapeva della mia abitudine d’incantarmi per un attimo nel vivo di una conversazione per inseguire con gli occhi un’idea imprevista. Faceva anche lui lo stesso, e in tempi passati avevamo molto camminato insieme, ciascuno rimuginando in silenzio. Ma ora i suoi silenzi — come i miei — mi parevano distratti, estraniati, insomma insoliti. Da non molti giorni ero al mare, e mi pareva un secolo. Pure non era accaduto nulla. Ma la notte, rientrando, avevo il senso che tutta la giornata trascorsa — la banale giornata di spiaggia — attendesse da me chi sa quale sforzo di chiarezza perché mi ci potessi raccapezzare.

Quando, l’indomani della disgrazia di Mara, rividi l’amico Guido con la sua maledetta automobile, nei pochi secondi che impiegai a traversare la strada per dargli la mano, intuii piú cose che non durante un’intera pipata notturna. Intravidi, cioè, che le confidenze di Clelia erano un’inconscia difesa contro la volgarità di Guido: uomo, del resto, educatissimo e galante. Guido sedeva, abbronzato e roseo, tendendo la mano e scoprendo i denti a un saluto. Guido era ricco e bovino. Clelia reagiva di soppiatto; dunque lo prendeva sul serio e gli somigliava. Chi sa dove sarei arrivato, se Guido non si fosse messo a ridere e non mi avesse costretto a parlare. Salii con lui sull’automobile e mi portò al caffè dove a quell’ora c’eran tutti. [p. 305 modifica]

Mentre parlavano di Mara, io badavo a intrattenere il mio pensiero, e mi chiesi se Doro intendeva come me quei rimpianti di Clelia e come mai non gli seccava che neanche per me Clelia avesse segreti. Arrivarono intanto anche loro, e dopo le prime parole Guido disse a Clelia che traversando Genova aveva pensato a lei. Clelia gli diede del maligno. Uno scherzo, ma bastò per farmi sospettare che le stesse confidenze d’infanzia le avesse fatte in passato anche a Guido, e la cosa mi andò per traverso.

Dopo cena Guido ci raggiunse alla villa con una certa festosità, portandoci nell’automobile Ginetta. Mentre Doro e Guido discorrevano di faccende del loro lavoro, io stavo a sentire Clelia e Ginetta e ripensavo a quell’uscita di Doro quando scendevamo dalla montagna, che la caratteristica di chi si sposa è di vivere con piú di una donna. Ma era una donna Ginetta? Il suo sorriso aggrottato e l’invadenza di certe opinioni ne facevano piuttosto un adolescente senza sesso. Sempre meno capivo come Clelia avesse potuto da ragazza somigliare a costei. C’era in Ginetta una monelleria contegnosa, rattenuta, che pure a volte le divincolava tutto il corpo. Non certo lei si confessava con gli amici, eppure, guardandola parlare, si aveva il senso che nulla restasse celato del suo fondo. Gli occhi grigi che apriva senz’ostentazione avevano una chiarezza d’aria.

Parlavano di non so che scandalo — non ricordo bene — ma ricordo che la ragazza lo difendeva e se ne appellava a Doro, interrompendolo a caso, e Clelia con molta dolcezza continuava a ripetere che non era questione di morale bensí di gusto.

— Ma si sposeranno, — diceva Ginetta.

Non era una soluzione, ribatteva Clelia, sposarsi era una scelta, non un rimedio, e una scelta che andava fatta con calma.

— Diavolo, sarà una scelta, — interloquí Guido. — Dopo tanti esperimenti che hanno fatto.

Ginetta non sorrise e ribatté che, se lo scopo del matrimonio era la famiglia, tanto meglio averci pensato subito.

— Ma lo scopo non è la famiglia senz’altro, — disse Doro. — È preparare un ambiente per la famiglia.

— Meglio un figlio senz’ambiente, che un ambiente senza figli, sentenziò Ginetta. Poi arrossí e incontrò il mio sguardo. Clelia si alzò per servirci il liquore.

Poi giocammo alle carte. A notte alta Guido ci riportò a casa. [p. 306 modifica]Deposta Ginetta davanti alla rimessa, noi tornammo a piedi verso l’albergo. Avrei preferito quella passeggiata farla da solo, ma Guido che per tutta la sera aveva parlato poco e giocato con disattenzione aggressiva, mi disse di tenergli compagnia. Gli riparlai di Mara. Guido sostenne svogliatamente il discorso: Mara era in buone mani e fuori pericolo. Giunti davanti al suo albergo, tirò dritto.

Capitammo taciturni all’imbocco della mia viuzza, e feci per fermarmi. Guido proseguí di qualche passo, poi si voltò con aria casuale.

— Lasci che aspettino, — disse. — Venga fino alla stazione.

Chiesi chi mi aspettava, e Guido disse noncurante che, diamine, qualcuno dovevo pure avere con me per compagnia. — Nessuno, — gli risposi. — Sono scapolo e solo.

Allora Guido borbottò qualcosa, e su quella ragione riprendemmo a camminare.

Chi doveva aspettarmi, tornai a chiedere. Forse quel giovanotto della spiaggia?

— No, no, professore, intendevo una relazione... un’amicizia.

— Perché? mi ha visto in compagnia?

— Non dico questo. Ma uno sfogo insomma ci vuole.

— Sono qui per riposarmi, — spiegai. — E il mio sfogo è star solo.

— Già, — disse Guido sovrapensiero.

Eravamo nella piazzetta, davanti al caffè, quando parlai. — E lei ha una compagnia? — dissi.

Guido rialzò la testa. — Ce l’ho, — disse aggressivo. — Ce l’ho. Non tutti siamo santi. E mi costa un occhio.

— Ingegnere, — esclamai, — però la tiene ben nascosta.

Guido sorrise compiaciuto. — È questo che mi costa un occhio. Due conti, due stabilimenti, due tavoli. Creda, un’amante è la moglie che costa di piú.

— Lei si sposi, — dissi.

Guido scoprí i suoi denti d’oro. — Sarebbe sempre doppia spesa. Lei non conosce le donne. Un’amica fin che spera sta cheta. Ha tutto da guadagnare. Ma un disgraziato che abbia moglie è nelle sue mani.

— E lei sposi l’amica.

— Scherziamo. Sono cose che si fanno da vecchi.

Lo lasciai davanti all’albergo, promettendogli che l’indomani [p. 307 modifica]avrei fatto conoscenza con la signora. Mi strinse la mano espansivo. Rientrando, pensavo a Berti e mi guardai d’attorno, e stavolta non c’era.

L’indomani mi attardai a scrivere fino a sole alto, e gironzai per le strade, rimuginando ancora le idee della sera prima, che ora nel tumulto e nella chiarezza del giorno mi apparvero scolorite e inconsistenti. Volevo giungere sulla spiaggia, che ci fossero già tutti.

Ma all’ingresso dello stabilimento trovai Guido, stavolta in accappatoio marrone, che subito mi sequestrò e c’incamminammo come d’intesa verso quel certo ombrellone. Quando ci fummo. Guido fece uno spontaneo sorriso ed esclamò: — Cara Nina. Come hai dormito? Permetti, — e le disse il mio nome. Toccai le dita di quella mano magra, e tra il riverbero e l’impedimento dell’ombrello le vidi soprattutto le gambe, lunghe e annerite, e i sandali complicati che le terminavano. S’era rialzata a sedere sullo sdraio, e mi guardò con occhi duri, scarni come la voce che rivolse a Guido.

Scambiammo qualche complimento, m’informai del suo bagno; mi disse che si bagnava soltanto verso sera nell’acqua tiepida; fece parecchie risatelle alle mie uscite, e mi ritese la mano quando la salutai, invitandomi a ripassare. Guido rimase.

Giunsi allo scoglio, e vidi Berti che, seduto contro il sasso, rivolgeva la parola a un’amica sedicenne di Ginetta, e Doro steso sulla sabbia tra loro lasciava fare. Clelia a quell’ora era in mare.