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II IV

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III.

A Clelia, la prima sera che facemmo lungo il mare una camminata insieme, raccontai quanto potevo dell’impresa di Doro, e cioè quasi nulla. Pure, la stravaganza della cosa la fece sorridere imbronciata. — Che egoisti, — disse. — Io qui mi annoiavo. Perché non mi avete portata con voi?

Vedendoci arrivare, il pomeriggio dopo la scappata, Clelia non diede segno di sorpresa. Da piú di due anni non la vedevo. L’incontrammo, castana e abbronzata, in calzoncini sugli scalini della villa. Mi tese la mano con un sorriso sicuro, movendo gli occhi sotto l’abbronzatura piú netti e duri che in passato. E s’era subito messa a parlare di quanto avremmo fatto l’indomani. Ritardò, per farmi festa, la sua discesa alla spiaggia. Scherzando le raccomandai Doro che aveva sonno, e li lasciai a spiegarsi, loro due soli. Quella prima sera andai in cerca di una stanza, e la trovai in una viuzza appartata, con la finestra che dava su un grosso ulivo contorto, cresciuto inspiegabilmente proprio nel mezzo dell’acciottolato. Tante volte in seguito, rientrando solo, mi capitò di guardarlo sovrapensiero, che è forse la cosa che meglio rivedo di tutta l’estate. Visto dal basso, era nodoso e scarno; ma dalla stanza, quando m’affacciavo, era un sodo blocco argenteo di foglioline secche accartocciate. Mi dava il senso di trovarmi in campagna, in un’ignota campagna, e sovente fiutavo se non sapesse di salsedine. Mi è sempre parso strano che sull’orlo estremo di una costa, fra terra e mare, crescano piante e fiori e scorra acqua buona da bere. Alla mia stanza si saliva per una scaletta esterna di pietra, ripida e angolosa. Sotto di me, al pianterreno, mentre mi radevo e ripulivo, scoppiava a tratti un baccano di voci discordi, non si capiva bene se allegre o irate, [p. 280 modifica]qualcuna di donna. Guardai per le inferriate, scendendo, ma il crepuscolo oscurava le stanze. Fu soltanto quando mi ero già allontanato, che una voce dominò sulle altre come un a solo, una voce fresca e forte cui non seppi dare un nome, ma che avevo già sentito. Dibattendo quell’incertezza stavo per tornare indietro, quando mi venne in mente che insomma eravamo vicini e che la conoscenza di un vicino si fa sempre troppo presto.

— Doro è nei boschi, — disse Clelia quella sera che andavamo lungo la spiaggia. — Dipinge il mare — . Si voltò camminando e spaziò gli occhi. — Merita. Lo guardi anche lei.

Guardammo il mare, e poi le dissi che non capivo perché si annoiava. Clelia disse ridendo: — Mi racconti ancora di quell’ometto sotto la luna. Com’è che gridava? Anch’io l’altra notte guardavo la luna.

— Probabilmente faceva le smorfie. Quattro ubriachi non bastano per farla ridere.

— Eravate ubriachi?

— Evidentemente.

— Che ragazzi, — disse Clelia.

Tra noi due la notte di Ginio divenne un motto, e mi bastava alludere all’ometto bianco e alle sue capriole perché Clelia si rischiarasse di gaiezza. Ma quando le spiegai, quella sera, che Ginio non era un vecchietto calvo ma un coetaneo di Doro, fece una smorfia costernata. — Perché me l’ha detto? Cosí ha guastato tutto. Era un contadino?

— Un muratore, a esser precisi.

Clelia sospirava. — Dopotutto, — le dissi, — quel paese l’ha veduto anche lei. Può immaginarselo. Se Doro nasceva due porte piú in là, lei forse a quest’ora era moglie di Ginio.

— Che orrore, — disse Clelia sorridendo.

Quella notte, finito di cenare sul balcone, mentre Doro fumava abbandonato sulla seggiola tacendo e Clelia s’era andata a vestire per la serata, non volevano uscirmi di testa le chiacchiere di poco prima. S’era parlato di un certo Guido, collega quarantenne di Doro e scapolo, che avevo già conosciuto a Genova e ritrovato sulla spiaggia nel crocchio di Clelia — uno dei suoi amici — e venne fuori ch’era stato con lui che durante quella gita in automobile erano passati per il paese di Doro. Clelia, animata da un improvviso ricordo malizioso, raccontò senza farsi pregare tutta la storia [p. 281 modifica]di quella gita, e parlando aveva l’aria di rispondere a una domanda che non le facevo. Tornavano da non so che spedizione in montagna; era al volante l’amico Guido, e Doro aveva detto: «Lo sapete che in quelle colline trent’anni fa ci sono nato?» E allora tutti, e Clelia la prima, avevano tanto assordato Guido che questi aveva consentito a fare una punta fin lassú. Era stata una pazzia perché bisognava avvertire del ritardo la macchina che li seguiva, e questa non arrivava mai, e l’avevano attesa per piú di un’ora alla biforcazione; quando poi era sopraggiunta, stava calando la notte, e cosí, cenato in paese alla meglio, avevano dovuto arrampicarsi per misteriose stradette senza cartelli e traversare tante colline che mai, e sulla strada di Genova s’erano ritrovati ch’era quasi l’alba. Doro s’era messo accanto a Guido per riconoscere i luoghi, e nessuno era riuscito a dormire. Una vera pazzia.

Adesso che Clelia non c’era, chiesi a Doro se avevano rifatto la pace. Parlando pensavo: «Qui ci vuole un figlio», ma era questo un discorso che con Doro non avevo mai tenuto se non per scherzo. E Doro disse: — Fa la pace chi ha fatto la guerra. Che guerra mi hai visto fare sinora? — Lí per lí stetti zitto. Tra me e Doro, con tanta confidenza che pure avevamo, l’argomento di Clelia non era mai stato discusso. Stavo per dirgli che si può far guerra per esempio saltando sul treno e scappando, ma esitavo, e in quel momento Clelia mi chiamò.

— Di che umore è Doro? — mi chiese attraverso la porta socchiusa della stanza.

— Buono, — balbettai senza entrare.

— Sicuro?

Clelia venne sulla porta aggiustandosi i capelli. Mi cercò con gli occhi nella penombra dove l’aspettavo. — Come, siete amici, e lei non sa che quando Doro si lascia canzonare senza rispondere, significa che è seccato e irritato?

Allora provai con lei. — Non avete ancora fatta la pace?

Clelia si ritrasse e tacque. Poi ricomparve pronta, dicendo: — Perché non accende? — Mi prese il braccio e attraversammo cosí la stanza in penombra. Mentre stavamo per uscire sul pianerottolo illuminato, Clelia mi serrò il bracdo e bisbigliò: — Sono disperata. Vorrei che Doro stesse molto con lei, perché siete amici. So che lei gli fa bene e lo distrae...

Cercai di fermarmi e di parlare. [p. 282 modifica]

— ... No, non abbiamo litigato, — disse Clelia in fretta. — E nemmeno è geloso. E nemmeno mi vuol male. Soltanto, è diventato un altro. Non possiamo fare la pace, perché non abbiamo mai litigato. Capisce? Ma non dica niente.

Quella notte finimmo, sull’automobile del solito Guido, in un locale alto sul mare, per una strada tutta curve e brulicante di bagnanti. C’era un’orchestrina e qualcuno ballava. Ma il piacere del luogo stava in certi tavolini con lampada velata sparsi in anfratti della roccia aperti sullo strapiombo del mare. C’era un profumo di piante aromatiche e fiorite, misto alla brezza del largo, e in basso sporgendosi s’intravedevano, impiccioliti, i filari di luce della costa.

Cercai di star solo con Clelia, ma non ci riuscivo. Avevo accanto ora Doro, ora Guido, ora qualcuna delle amiche — persone isolate e intermittenti, con cui non si poteva cominciare un discorso perché di ballo in ballo si scambiavano, e Clelia invece era sempre impegnata. Venne il momento che le dissi: — Ballo anch’io, — con suo allegro stupore, e me la presi e la portai sotto i pini fuori del recinto. — Sediamoci, — dissi, — e mi spiegherà questa storia.

Provai a chiederle perché con Doro non litigava. Bisognava provocare una crisi — le dissi — come si scuote un orologio per rimetterlo in marcia, e mi rifiutavo di credere che una donna come lei non sapesse con un semplice tono di voce costringere alla sincerità un uomo che dopotutto faceva ancora ragazzate.

— Ma Doro è sincero, — disse Clelia. — Mi ha persino raccontato di quella serenata che avete fatto a Rosina. Si è divertito?

Credo che divenni rosso, piú di dispetto che di confusione.

— E anch’io sono sincera, — prosegui Celia sorridendo. Ebbe una voce imbronciata: — L’amico Guido anzi dice che il mio difetto è di essere sincera con tutti, di non dare a nessuno l’illusione di avere un segreto per lui solo. Carini! Ma sono fatta cosí. Ed è per questo che ho voluto bene a Doro...

Qui si fermò e mi guardò di sfuggita: — Trova che sono indecente?

Non dissi nulla. Ero seccato. Clelia tacque, poi riprese:

— Vede che ho ragione. Ma io sono indecente. Sono indecente come Doro. Per questo ci vogliamo bene.

— E allora, pace, — le dissi. — Che cosa sono tante storie? [p. 283 modifica]

Qui Clelia mugolò, in quel suo modo infantile. — Ecco, fa come gli altri anche lei. Ma non capisce che non possiamo litigare? Noi ci vogliamo bene. Se potessi odiarlo come odio me, allora sí lo maltratterei. Ma nessuno di noi due lo merita. Capisce?

— No.

Clelia stette zitta, e ascoltammo scricchiolare la ghiaia e interrompersi l’orchestra e qualcuno cantare.

— Che consiglio le ha dato il suo Guido? — ripresi con la voce di prima.

Clelia alzò le spalle. — Dei consigli interessati. Lui mi fa la corte.

— Per esempio: di avere un segreto per Doro?

— D’ingelosirlo, — disse Clelia compunta. — Quello stupido. Non capisce che Doro mi lascerebbe fare e soffrirebbe tra sé.

Qui venne non so che amica del gruppo a cercare Clelia, e la chiamava e rideva: rimasi solo, seduto sulla panchina. Provavo il mio solito piacere scontroso a starmene in disparte, sapendo che a pochi passi fuori dell’ombra il prossimo si agitava, rideva e ballava. Né mi mancava materia da riflettere. Accesi una pipa e me la fumai tutta. Poi mi mossi e girai fra i tavolini finché incontrai Doro. — Andiamo a bere un bicchierino al banco? — gli dissi.

— Tanto per regolarmi, — cominciai quando fummo soli, — posso raccontarlo a tua moglie che per non farci legnare abbiamo dovuto scappare il mattino dopo?

Stavamo giusto ridendo, e Doro rispose con un mezzo sogghigno: — Te l’ha chiesto lei?

— No, te lo chiedo io.

— Figurati. Raccontale quello che vuoi.

— Ma non siete in rotta?

Doro alzò il bicchierino, fissandomi sovrapensiero. — No, — disse calmo.

— E come va allora, — dissi, — che ogni tanto Clelia ti cerca con due occhi spaventati, che sembra un cane? Ha tutta l’aria di una donna che sia stata bastonata. L’hai bastonata?

In quel momento la voce di Clelia, che volteggiava sulla pista con un tale, ci gridò: — Ubriaconi, — e vedemmo la sua mano agitarsi in saluto. Doro la seguí con gli occhi, annuendole assorto, finché non scomparve dietro la schiena del ballerino.

— Come vedi è contenta, — disse piano. — Perché dovrei [p. 284 modifica]bastonarla? Andiamo d’accordo piú di tanti altri. Non mi ha mai detto una parola villana. Andiamo d’accordo anche nei divertimenti, che è la cosa piú difficile.

— Lo so che lei con te va d’accordo — . Mi fermai.

Doro non diceva niente. Guardò il bicchiere con aria mortificata, lo guardò a testa bassa tenendolo a mezza distanza, poi lo vuotò di sfuggita, semivolgendosi come quando ci si schiarisce la gola in società.

— Il male, — disse con tono di concludere, incamminandosi, — è che si ha troppa confidenza. Uno dice certe cose soltanto per far piacere all’altro.

Clelia e Guido s’avvicinavano a noi fra i tavolini.

— Parli per me? — dissi.

— Anche per te, — borbottò Doro.