La sesta crociata, ovvero l'istoria della santa vita e delle grandi cavallerie di re Luigi IX di Francia/Parte seconda/Capitolo XXVIII

Capitolo XXVIII

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Capitolo XXVIII.

Qui conta del vano parlamento per pace fare tra ’l Re e ’l Soldano, e della nostra ritratta verso Damiata.


Ora per rientrare in nostra materia vi dirò io ch’egli fu ben vero ch’entro i Consigli del Re e del Soldano fu fatto alcun parlamento di accordo e di pace fare tra loro, e a ciò fu messo ed assegnato giorno. Ed era il trattato di loro accordo tale che [p. 125 modifica]’l Re dovea rendere al Soldano la città di Damiata, ed il Soldano dovea rendere al Re tutto ’l Reame di Gerusalemme, e simigliantemente gli dovea guardare tutti i malati ch’erano dentro Damiata, e rendergli le carni salate che vi erano, con ciò sia che li Turchi e Saracini non ne mangiassero punto, ed altresì rendrebbono tutti gl’ingegni da guerra del Re, ed esso Re potrebbe inviar cherère tutte le cose sue nel detto luogo di Damiata. Ma di tal parlamento qual fatto uscì? Il Soldano fece inchiedere al Re qual sicuranza darebbe egli del rendergli la Città di Damiata? E a tale inchiesta seguì l’offerta ch’elli distenessero prigioniero l’uno de’ fratelli del Re, o il Conte d’ Angiò o ’l Conte di Poitieri. E di tale offerenda i Turchi non ne vollero, anzi dimandaro in ostaggio la persona stessa del Re. Ma a ciò rispose il buon Cavaliere Messer Gioffredo di Sergines, che giammai non avrebbero li Turchi la persona del Re, e ch’elli amava molto meglio ch’e’ Turchi li avessero tutti appezzati, di quello ch’e’ fusse lor rimprocciato di avere concesso in gaggio il Re Signor loro. E così dimorò il parlamento, e non levò frutto. Tantosto la malattia, donde vi ho davanti parlato, cominciò a rinforzare nell’oste talmente ch’e’ bisognava che i barbieri strappassero e tagliassono ai colpiti di quella laida malattia de’ grossi carnicci che sormontavano sulle gengive in maniera che non si poteva mangiare. Ed era la gran pietà di udir gridare e guaìre per tutti i luoghi dell’oste coloro a chi si tagliava quella carne morta; e ciò mi rendea simiglianza [p. 126 modifica]delle povere femmine allorchè travagliano dello infantare, sì che me ne venìa al cuore grande scuriccio e riprezzo.

Quando il buon Re San Luigi vedeva quella pietà, egli giugnea le mani, levava la faccia al cielo, benedicendone a Nostro Signore di tutto ciò che gli donava. Tuttavia pur vedendo ch’egli non poteva così lungamente dimorare, senza che ne morisse egli e tutta sua gente, ordinò di muovere di là il Martedì a sera, l’ottava di Pasqua, per ritornarsene a Damiata. E fece comandare da parte sua a’ marinieri delle galee che apprestassono lor vascelli, e ch’essi raccogliessero tutti i malati per menarli a Damiata. Così comandò egli ad uno nomato Giosselino di Curvante, e ad altri suoi Maestri d’opere ed Ingegnieri ch’essi tagliassono le corde alle quali s’attenevano i ponti che fean la via tra noi e i Saracini. Ma, come mali pontonai, niente non ne fecero essi, donde poi gran dannaggio ne avvenne. Quando io vidi che ciascuno s’apprestava per andarsene a Damiata, mi ritirai nel mio vascello con due de’ miei Cavalieri ch’io aveva anche solo di rimanente, e coll’altra mia masnada. E sulla sera, allorch’egli cominciò ad annerare, comandai al mio cómito ch’e’ levasse l’àncora, e che noi ne andassimo a valle. Ma egli mi rispose che mica l’oserebbe perchè intra noi e Damiata erano nel fiume le grandi galee del Soldano che ci prenderebbono e ucciderebbono tutti. Li marinieri del Re aveano fatto di grandi fuochi per raccogliere e riscaldare i poveri malati nelle loro galee, ed erano li detti [p. 127 modifica]malati, attendendo i vascelli, accolti sulla riva del fiume. Ed in quella ch’io ammonestava li miei marinai dello andarcene a poco a poco, scorsi i Saracini, alla chiarità de’ fuochi, che entravano pei ponti nell’oste nostra, ed uccidevano sulla riva i malati. Perchè, mentre li miei tiravano l’àncora spaventati, e che cominciammo un poco a voler discendere a valle, ecco qui venire li marinieri che dovevan prendere i poveri malati, i quali scorgendo come i Saracini li uccidevano, tagliarono rattamente le corde dell’àncore delle loro grandi galee ed accorsero sul mio piccolo vascello da tutti i lati, di che n’attendea l’ora ch’essi mi travolgessero nel profondo dell’acqua. Quando, come piacque a Dio, fummo iscapati di quel periglio ch’ era ben grande, noi cominciammo a tirare a valle il fiume di frotto e furia. Il che veggendo il Re, il quale aveva la malattia dell’oste e la menagione come gli altri, e che, invece di guarentirsi nelle grandi galee, amava meglio morire che abbandonare il suo popolo, cominciò egli a bociare a noi ed a gridare che dimorassimo; e ci traeva di buone quadrella per farci dimorare sino a che ci donasse egli congedo di navigare: ma del rattenerci era niente, perchè in quello incalzo a tutti si convenia poggiare a valle o affondare.