La scienza nuova seconda/Libro secondo/Sezione prima/Capitolo primo

Sezione prima - Capitolo primo - Della metafisica poetica

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[CAPITOLO PRIMO]

della metafisica poetica, che ne dá l’origini della poesia,
dell’idolatria, della divinazione e de’ sacrifizi

374Da sí fatti primi uomini, stupidi, insensati ed orribili bestioni, tutti i filosofi e filologi dovevan incominciar a ragionare la sapienza degli antichi gentili; cioè da’ giganti, testé presi nella loro propia significazione. De’ quali il padre Boulduc, De ecclesia ante Legem, dice che i nomi de’ giganti ne’ sagri libri significano «uomini pii, venerabili, illustri»; lo che non si può intendere che de’ giganti nobili, i quali con la divinazione fondarono le religioni a’ gentili e diedero il nome all’etá de’ giganti. E dovevano incominciarla dalla metafisica, siccome quella che va a prendere le sue pruove non giá da fuori ma da dentro le modificazioni della propia mente di chi la medita, dentro le quali, come sopra dicemmo, perché questo mondo di nazioni egli certamente è stato fatto dagli uomini, se ne dovevan andar a truovar i principi; e la natura umana, in quanto ella è comune con le bestie, porta seco questa propietá: ch’i sensi sieno le sole vie ond’ella conosca le cose.

375Adunque la sapienza poetica, che fu la prima sapienza della gentilitá, dovette incominciare da una metafisica, non ragionata [p. 146 modifica] ed astratta qual è questa or degli addottrinati, ma sentita ed immaginata quale dovett’essere di tai primi uomini, siccome quelli ch’erano di niuno raziocinio e tutti robusti sensi e vigorosissime fantasie, com’è stato nelle Degnitá stabilito. Questa fu la loro propia poesia, la qual in essi fu una facultá loro connaturale (perch’erano di tali sensi e di sí fatte fantasie naturalmente forniti), nata da ignoranza di cagioni, la qual fu loro madre di maraviglia di tutte le cose, che quelli, ignoranti di tutte le cose, fortemente ammiravano, come si è accennato nelle Degnitá. Tal poesia incominciò in essi divina, perché nello stesso tempo ch’essi immaginavano le cagioni delle cose che sentivano ed ammiravano, essere dèi, come nelle Degnitá il vedemmo con Lattanzio (ed ora il confermiamo con gli americani, i quali tutte le cose che superano la loro picciola capan4itá dicono esser dèi; quali aggiugniamo i Germani antichi, abitatori presso il Mar Agghiacciato, de’ quali Tacito narra che dicevano d’udire la notte il Sole, che dall’occidente passava per mare nell’oriente, ed affermavano di vedere gli dèi: le quali rozzissime e semplicissime nazioni ci danno ad intendere molto piú di questi autori della gentilitá, de’ quali ora qui si ragiona); nello stesso tempo, diciamo, alle cose ammirate davano l’essere di sostanze dalla propia lor idea, ch’è appunto la natura de’ fanciulli, che, come se n’è proposta una degnitá, osserviamo prendere tra mani cose inanimate e trastullarsi e favellarvi come fusser, quelle, persone vive.

376In cotal guisa i primi uomini delle nazioni gentili, come fanciulli del nascente gener umano, quali gli abbiamo pur nelle Degnitá divisato, dalla lor idea criavan essi le cose, ma con infinita differenza però dal criare che fa Iddio. Perocché Iddio, nel suo purissimo intendimento, conosce e, conoscendole, cria le cose; essi, per la loro robusta ignoranza, il facevano in forza d’una corpolentissima fantasia. E perch’era corpolentissima, il facevano con una maravigliosa sublimitá; tal e tanta che perturbava all’eccesso essi medesimi che fingendo le si creavano, onde furon detti «poeti», che lo stesso in greco suona che «criatori». Che sono gli tre lavori che deve fare la poesia [p. 147 modifica] grande, cioè di ritruovare favole sublimi confacenti all’intendimento popolaresco, e che perturbi all’eccesso, per conseguir il fine, ch’ella si ha proposto, d’insegnar il volgo a virtuosamente operare, com’essi l’insegnarono a se medesimi; lo che or ora si mostrerá. E di questa natura di cose rimane restò eterna propietá, spiegata con nobil espressione da Tacito: che vanamente gli uomini spaventati «fingunt simul creduntque».

377Con tali nature si dovettero ritruovar i primi autori dell’umanitá gentilesca quando — dugento anni dopo il diluvio per lo resto del mondo e cento nella Mesopotamia, come si è detto in un postulato (perché tanto di tempo v’abbisognò per ridursi la terra nello stato che, disseccata dall’umidore dell’universale innondazione, mandasse esalazioni secche, o sieno materie ignite, nell’aria ad ingenerarvisi i fulmini) — il cielo finalmente folgorò, tuonò con folgori e tuoni spaventosissimi, come dovett’avvenire per introdursi nell’aria la prima volta un’impressione sí violenta. Quivi pochi giganti, che dovetter esser gli piú robusti, ch’erano dispersi per gli boschi posti sull’alture de’ monti, siccome le fiere piú robuste ivi hanno i loro covili, eglino, spaventati ed attoniti dal grand’effetto di che non sapevano la cagione, alzarono gli occhi ed avvertirono il cielo. E perché in tal caso la natura della mente umana porta ch’ella attribuisca all’effetto la sua natura, come si è detto nelle Degnitá, e la natura loro era, in tale stato, d’uomini tutti robuste forze di corpo, che, urlando, brontolando, spiegavano le loro violentissime passioni; si finsero il cielo esser un gran corpo animato, che per tal aspetto chiamarono Giove, il primo dio delle genti dette «maggiori», che col fischio de’ fulmini e col fragore de’ tuoni volesse loro dir qualche cosa. E sí incominciarono a celebrare la naturale curiositá, ch’è figliuola dell’ignoranza e madre della scienza, la qual partorisce, nell’aprire che fa della mente dell’uomo, la maraviglia, come tra gli Elementi ella sopra si è diffinita. La qual natura tuttavia dura ostinata nel volgo, ch’ove veggano o una qualche cometa o parelio o altra stravagante cosa in natura, e particolarmente [p. 148 modifica] nell’aspetto del cielo, subito danno nella curiositá e, tutti anziosi nella ricerca, domandano che quella tal cosa voglia significare, come se n’è data una degnitá; ed ove ammirano gli stupendi effetti della calamita col ferro, in questa stessa etá di menti piú scorte e benanco erudite dalle filosofie, escono colá; che la calamita abbia una simpatia occulta col ferro, e si fanno di tutta la natura un vasto corpo animato che senta passioni ed effetti, conforme nelle Degnitá anco si è divisato.

378Ma, siccome ora (per la natura delle nostre umane menti, troppo ritirata da’ sensi nel medesimo volgo con le tante astrazioni di quante sono piene le lingue con tanti vocaboli astratti, e di troppo assottigliata con l’arte dello scrivere, e quasi spiritualezzata con la pratica de’ numeri, ché volgarmente sanno di conto e ragione) ci è naturalmente niegato di poter formare la vasta immagine di cotal donna che dicono «Natura simpatetica» (che mentre con la bocca dicono, non hanno nulla in lor mente, perocché la lor mente è dentro il falso, ch’è nulla, né sono soccorsi giá dalla fantasia a poterne formare una falsa vastissima immagine); cosí ora ci è naturalmente niegato di poter entrare nella vasta immaginativa di que’ primi uomini, le menti de’ quali di nulla erano astratte, di nulla erano assottigliate, di nulla spiritualezzate, perch’erano tutte immerse ne’ sensi, tutte rintuzzate dalle passioni, tutte seppellite ne’ corpi: onde dicemmo sopra ch’or appena intender si può, affatto immaginar non si può, come pensassero i primi uomini che fondarono l’umanitá gentilesca.

379In tal guisa i primi poeti teologi si finsero la prima favola divina, la piú grande di quante mai se ne finsero appresso, cioè Giove, re e padre degli uomini e degli dèi, ed in atto di fulminante; sí popolare, perturbante ed insegnativa, ch’essi stessi, che sel finsero, sel credettero e con ispaventose religioni, le quali appresso si mostreranno, il temettero, il riverirono e l’osservarono. E per quella propietá della mente umana che nelle Degnitá udimmo avvertita da Tacito, tali uomini tutto ciò che vedevano, immaginavano ed anco essi stessi facevano, credettero esser Giove, ed a tutto l’universo di cui potevan [p. 149 modifica] esser capaci ed a tutte le parti dell’universo diedero l’essere di sostanza animata. Ch’è la storia civile di quel motto:

... Iovis omnia piena,

che poi Platone prese per l’etere, che penetra ed empie tutto. Ma per gli poeti teologi, come quindi a poco vedremo, Giove non fu piú alto della cima de’ monti. Quivi i primi uomini, che parlavan per cenni, dalla loro natura credettero i fulmini, i tuoni fussero cenni di Giove (onde poi da «nuo», «cennare» fu detta «numen» la «divina volontá», con una troppo sublime idea e degna da spiegare la maestá divina), che Giove comandasse co’ cenni, e tali cenni fussero parole reali, e che la natura fusse la lingua di Giove; la scienza della qual lingua credettero universalmente le genti essere la divinazione, la qual da’ greci ne fu detta «teologia», che vuol dire «scienza del parlar degli dèi». Cosí venne a Giove il temuto regno del fulmine, per lo qual egli è ’l re degli uomini e degli dèi; e vennero i due titoli: uno di «ottimo», in significato di «fortissimo» (come a rovescio appo i primi latini «fortus» significò ciò che agli ultimi significa «bonus»), e l’altro di «massimo», dal di lui vasto corpo quant’egli è ’l cielo. E da questo primo gran beneficio fatto al gener umano vennegli il titolo di «sotere» o di «salvadore», perché non gli fulminò (ch’è ’l primo degli tre principi ch’abbiamo preso di questa Scienza); e vennegli quel di «statore» o di «fermatore», perché fermò que’ pochi giganti dal loro ferino divagamento, onde poi divennero i principi delle genti. Lo che i filologi latini troppo ristrinsero al fatto: perocché Giove, invocato da Romolo, avesse fermato i romani che nella battaglia co’ sabini si erano messi in fuga.

380Quindi [i] tanti Giovi che fanno maraviglia a’ filologi, perché ogni nazione gentile n’ebbe uno (de’ quali tutti, gli egizi, come si è sopra detto nelle Degnitá, per la loro boria dicevano il loro Giove Ammone essere lo piú antico), sono tante istorie fisiche conservateci dalle favole, che dimostrano essere stato universale il diluvio, come il promettemmo nelle Degnitá. [p. 150 modifica]

381Cosí, per ciò che si è detto nelle Degnitá d’intorno a’ principi de’ caratteri poetici, Giove nacque in poesia naturalmente carattere divino, ovvero un universale fantastico, a cui riducevano tutte le cose degli auspici tutte le antiche nazioni gentili, che tutte perciò dovetter essere per natura poetiche; che incominciarono la sapienza poetica da questa poetica metafisica di contemplare Dio per l’attributo della sua provvedenza; e se ne dissero «poeti teologi», ovvero sappienti che s’intendevano del parlar degli dèi conceputo con gli auspici di Giove, e ne furono detti propiamente «divini», in senso d’«indovinatori», da «divinari», che propiamente è «indovinare» o «predire». La quale scienza fu detta «musa», diffinitaci sopra da Omero essere la scienza del bene e del male, cioè la divinazione, sul cui divieto ordinò Iddio ad Adamo la sua vera religione, come nelle Degnitá si è pur detto. Dalla qual mistica teologia i poeti da’ greci furon chiamati «mystae», che Orazio con iscienza trasporta «interpetri degli dèi», che spiegavano i divini misteri degli auspici e degli oracoli. Nella quale scienza ogni nazione gentile ebbe una sua sibilla, delle quali ce ne sono mentovate pur dodici; e le sibille e gli oracoli sono le cose piú antiche della gentilitá.

382Cosi con le cose tutte qui ragionate accorda quel [luogo d’oro] d’Eusebio riferito nelle Degnitá, ove ragiona de’ principi dell’idolatria: che la prima gente, semplice e rozza, si finse gli dèi «ob terrorem praesentis potentiae». Cosí il timore fu quello che finse gli dèi nel mondo; ma, come si avvisò nelle Degnitá, non fatto da altri ad altri uomini, ma da essi a se stessi. Con tal principio dell’idolatria si è dimostrato altresí il principio della divinazione, che nacquero al mondo ad un parto; a’ quali due principi va di séguito quello de’ sagrifizi, ch’essi facevano per «proccurare» o sia ben intender gli auspici.

383Tal generazione della poesia ci è finalmente confermata da questa sua eterna propietá: che la di lei propia materia è l’impossibile credibile, quanto egli è impossibile ch’i corpi sieno menti (e fu creduto che ’l cielo tonante si fusse Giove); [p. 151 modifica] onde i poeti non altrove maggiormente si esercitano che nel cantare le maraviglie fatte dalle maghe per opera d’incantesimi. Lo che è da rifondersi in un senso nascosto c’hanno le nazioni dell’onnipotenza di Dio, dal quale nasce quell’altro per lo quale tutti i popoli sono naturalmente portati a far infiniti onori alla divinitá. E ’n cotal guisa i poeti fondarono le religioni a’ gentili.

384E per tutte le finora qui ragionate cose si rovescia tutto ciò che dell’origine della poesia si è detto prima da Platone, poi da Aristotile, infin a’ nostri Patrizi, Scaligeri, Castelvetri; ritruovatosi che per difetto d’umano raziocinio nacque la poesia tanto sublime che, per filosofie le quali vennero appresso, per arti, e poetiche e critiche, anzi per queste istesse, non provenne altra pari nonché maggiore: ond’è il privilegio per lo qual Omero è ’l principe di tutti i sublimi poeti, che sono gli eroici, non meno per lo merito che per l’etá. Per la quale discoverta de’ principi della poesia si è dileguata l’oppenione della sapienza innarrivabile degli antichi, cotanto disiderata di scuoprirsi da Platone infin a Bacone da Verulamio, De sapientia veterum, la quale fu sapienza volgare di legislatori che fondarono il gener umano, non giá sapienza riposta di sommi e rari filosofi. Onde, come si è incominciato quinci a fare da Giove, si truoveranno tanto importuni tutti i sensi mistici d’altissima filosofia dati dai dotti alle greche favole ed a’ geroglifici egizi, quanto naturali usciranno i sensi storici che quelle e questi naturalmente dovevano contenere.