La scienza nuova seconda/Libro secondo/Sezione prima/Capitolo secondo

Sezione prima - Capitolo secondo - Corollari d'intorno agli aspetti principali di questa scienza

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[CAPITOLO SECONDO]

corollari d’intorno agli aspetti principali
di questa scienza

I

385Dal detto fino qui si raccoglie che la provvedenza divina, appresa per quel senso umano che potevano sentire uomini crudi, selvaggi e fieri, che ne’ disperati soccorsi della natura anco essi disiderano una cosa alla natura superiore che gli salvasse (ch’è’l primo principio sopra di cui noi sopra stabilimmo il metodo di questa Scienza), permise loro d’entrar nell’inganno di temere la falsa divinitá di Giove, perché poteva fulminargli; e sí, dentro i nembi di quelle prime tempeste e al barlume di que’ lampi, videro questa gran veritá: che la provvedenza divina sovraintenda alla salvezza di tutto il gener umano. Talché quindi questa Scienza incomincia, per tal principal aspetto, ad essere una teologia civile ragionata della provvedenza, la quale cominciò dalla sapienza volgare de’ legislatori che fondarono le nazioni con contemplare Dio per l’attributo di provvedente, e si compiè con la sapienza riposta de’ filosofi che ’l dimostrano con ragioni nella loro teologia naturale.

II

386Quindi incomincia ancora una filosofia dell’autoritá, ch’è altro principal aspetto c’ha questa Scienza, prendendo la voce «autoritá» nel primo suo significato di «propietá», nel qual senso sempre è usata questa voce dalla legge delle XII Tavole; onde restaron «autori» detti in civil ragione romana coloro da’ quali abbiamo cagion di dominio, che tanto [p. 153 modifica] certamente viene da αὐτός, «proprius» o «suus ipsius», che molti eruditi scrivono «autor» e «autoritas» non aspirati.

387E l’autoritá incominciò primieramente divina, con la quale la divinitá appropiò a sé i pochi giganti ch’abbiamo detti, con propiamente atterrargli nel fondo e ne’ nascondigli delle grotte per sotto i monti; che sono l’anella di ferro con le quali restarono i giganti, per lo spavento del cielo e di Giove, incatenati alle terre dov’essi, al punto del primo fulminare del cielo, dispersi per sopra i monti, si ritruovavano. Quali furono Tizio e Prometeo, incatenati ad un’alta rupe, a’ quali divorava il cuore un’aquila, cioè la religione degli auspici di Giove; siccome gli «resi immobili per lo spavento» restarono con frase eroica detti a’ latini «terrore defixi», come appunto i pittori gli dipingono di mani e piedi incatenati con tali anella sotto de’ monti. Dalle quali anella si formò la gran catena, nella quale Dionigi Longino ammira la maggiore sublimitá di tutte le favole omeriche: la qual catena Giove, per appruovare ch’esso è ’l re degli uomini e degli dèi, propone che, se da una parte vi si attenessero tutti gli dèi e tutti gli uomini, esso solo dall’altra parte opposta gli strascinerebbesi tutti dietro. La qual catena se gli stoici vogliono che significhi la serie eterna delle cagioni con la quale il lor fato tenga cinto e legato il mondo, vedano ch’essi non vi restino avvolti, perché lo strascinamento degli uomini e degli dèi con si fatta catena egli pende dall’arbitrio di esso Giove, ed essi vogliono Giove soggetto al fato.

388Si fatta autoritá divina portò di séguito l’autoritá umana, con tutta la sua eleganza filosofica di propietá d’umana natura, che non può essere tolta all’uomo nemmen da Dio senza distruggerlo: siccome in tal significato Terenzio disse «voluptates proprias deorum», che la felicitá di Dio non dipende da altri; ed Orazio disse «propriam virtutis laurum», che ’l trionfo della virtú non può togliersi dall’invidia; e Cesare disse «propriam victoriam», che con errore Dionigi Petavio nota non esser detto latino, perché, pur con troppa latina eleganza, significa una «vittoria che ’l nimico non poteva togliergli dalle mani». Cotal autoritá è il libero uso della volontá, essendo l’intelletto [p. 154 modifica] una potenza passiva soggetta alla veritá. Perché gli uomini da questo primo punto di tutte le cose umane incominciaron a celebrare la libertá dell’umano arbitrio di tener in freno i moti de’ corpi, per o quetargli affatto o dar loro migliore direzione (ch’è’ l conato propio degli agenti liberi, come abbiam detto sopra nel Metodo); onde que’ giganti si ristettero dal vezzo bestiale d’andar vagando per la gran selva della terra e s’avvezzarono ad un costume, tutto contrario, di stare nascosti e fermi lunga etá dentro le loro grotte.

389A sí fatta autoritá di natura umana seguí l’autoritá di diritto naturale, ché, con l’occupare e stare lungo tempo fermi nelle terre dove si erano nel tempo de’ primi fulmini per fortuna truovati, ne divennero signori per l’occupazione, con una lunga possessione, ch’è ’l fonte di tutti i domini del mondo. Onde questi sono que’

 pauci quos aequus atnavit
Iupiter,

che poi i filosofi trasportarono a coloro c’han sortito da Dio indoli buone per le scienze e per le virtú. Ma il senso istorico di tal motto è che tra que’ nascondigli, in que’ fondi essi divennero i principi delle genti dette «maggiori», delle quali Giove si novera il primo dio, come si è nelle Degnitá divisato; le quali, come si mostrerá appresso, furono case nobili antiche, diramate in molte famiglie, delle quali si composero i primi regni e le prime cittá. Di che restarono quelle bellissime frasi eroiche a’ latini: «condere gentes», «condere regna», «condere urbes»; «fundare gentes», «fundare regna», «fundare urbes».

390Questa filosofia dell’autoritá va di séguito alla teologia civile ragionata della provvedenza, perché, per le pruove teologiche di quella, questa, con le sue filosofiche, rischiara e distingue le filologiche (le quali tre spezie di pruove si sono tutte noverate nel Metodo), e d’intorno alle cose dell’oscurissima antichitá delle nazioni riduce a certezza l’umano arbitrio, ch’è di sua natura incertissimo, come nelle Degnitá si è avvisato. Ch’è tanto dire quanto riduce la filologia in forma di scienza. [p. 155 modifica]

III

391Terzo principal aspetto è una storia d’umane idee, che, come testé si è veduto, incominciarono da idee divine con la contemplazione del cielo fatta con gli occhi del corpo: siccome nella scienza augurale si disse da’ romani «contemplari» l’osservare le parti del cielo donde venissero gli augúri o si osservassero gli auspici, le quali regioni, descritte dagli áuguri co’ loro litui, si dicevano «templa coeli», onde dovettero venir a’ greci i primi Δεωήματα e μαθήματα, «divine o sublimi cose da contemplarsi», che terminarono nelle cose astratte metafisiche e mattematiche. Ch’è la storia civile di quel motto:

A Iove principium musae;

siccome da’ fulmini di Giove testé abbiam veduto incominciare la prima musa, che Omero ci diffiní «scienza del bene e del male»; dove poi venne troppo agiato a’ filosofi d’intrudervi quel placito: che «’l principio della sapienza sia la pietá». Talché la prima musa dovett’esser Urania, contemplatrice del cielo affin di prender gli augúri, che poi passò a significare l’astronomia, come si vedrá appresso. E come sopra si è partita la metafisica poetica in tutte le scienze subalterne, dalla stessa natura della lor madre, poetiche; cosí questa storia d’idee ne dará le rozze origini cosí delle scienze pratiche che costuman le nazioni, come delle scienze specolative, le quali, ora cólte, son celebrate da’ dotti.

IV

392Quarto aspetto è una critica filosofica, la qual nasce dalla istoria dell’idee anzidetta; e tal critica giudicherá il vero sopra gli autori delle nazioni medesime, nelle quali dee correre da assai piú di mille anni per potervi provenir gli scrittori, che sono il subbietto di questa critica filologica. Tal critica [p. 156 modifica] filosofica, quindi incominciando da Giove, ne dará una teogonia naturale, o sia generazione degli dèi fatta naturalmente nelle menti degli autori della gentilitá, che furono per natura poeti teologi. E i dodici dèi delle genti dette «maggiori», l’idee de’ quali da costoro si fantasticarono di tempo in tempo a certe loro umane necessitá o utilitá, si stabiliscono per dodici minute epoche, alle quali si ridurranno i tempi ne’ quali nacquero le favole. Onde tal teogonia naturale ne dará una cronologia ragionata della storia poetica almeno un novecento anni innanzi di avere, dopo il tempo eroico, i suoi primi incominciamenti la storia volgare.

393Il quinto aspetto è una storia ideal eterna sopra la quale corrano in tempo le storie di tutte le nazioni, ch’ovunque da tempi selvaggi, feroci e fieri cominciano gli uomini ad addimesticarsi con le religioni, esse cominciano, procedono e finiscono con quelli gradi meditati in questo libro secondo, rincontrati nel libro quarto, ove tratteremo del corso che fanno le nazioni, e col ricorso delle cose umane, nel libro quinto.

VI

394Il sesto è un sistema del diritto natural delle genti, dal quale col cominciar delle genti, dalle quali ne incomincia la materia per una delle degnitá sopraposta, dovevano cominciar la dottrina ch’essi trattano gli tre suoi principi: Ugone Grozio, Giovanni Seldeno e Samuello Pufendorfio. I quali in ciò tutti e tre errarono di concerto: incominciandola dalla metá in giú, cioè dagli ultimi tempi delle nazioni ingentilite (e quindi degli uomini illuminati dalla ragion naturale tutta spiegata), dalle quali son usciti i filosofi, che s’alzarono a meditare una perfetta idea di giustizia.

395Primieramente Grozio, per lo stesso grand’affetto che porta alla veritá, prescinde dalla provvedenza divina e professa che ’l suo sistema regga precisa anco ogni cognizione di Dio. Onde [p. 157 modifica] tutte le riprensioni, ch’in un gran numero di materie fa contro i giureconsulti romani, loro non appartengono punto, siccome a quelli i quali, avendone posto per principio la provvedenza divina, intesero ragionare del diritto natural delle genti, non giá di quello de’ filosofi e de’ morali teologi.

396Dipoi il Seldeno la suppone, senza punto avvertire all’inospitalitá de’ primi popoli, né alla divisione che ’l popolo di Dio faceva, di tutto il mondo allor delle nazioni, tra ebrei e genti; — né a quello: che, perché gli ebrei avevano perduto di vista il loro diritto naturale nella schiavitú dell’Egitto, dovett’esso Dio riordinarlo loro con la Legge la qual diede a Mosè sopra il Sina; — né a quell’altro: che Iddio nella sua Legge vieta anco i pensieri meno che giusti, de’ quali niuno de’ legislatori mortali mai s’impacciò; — oltre all’origini bestiali, che qui si ragionano, di tutte le nazioni gentili. E se pretende d’averlo gli ebrei a’ gentili insegnato appresso, gli riesce impossibile a poterlo pruovare, per la confessione magnanima di Giuseffo assistita dalla grave riflessione di Lattanzio sopra arrecata, e dalla nimistá che pur sopra osservammo aver avuto gli ebrei con le genti, la qual ancor ora conservano dissipati tra tutte le nazioni.

397E finalmente Pufendorfio l’incomincia con un’ipotesi epicurea, che pone l’uomo gittato in questo mondo senza niun aiuto e cura di Dio. Di che essendone stato ripreso, quantunque con una particolar dissertazione se ne giustifichi, però senza il primo principio della provvedenza non può affatto aprir bocca a ragionare di diritto, come l’udimmo da Cicerone dirsi ad Attico, il qual era epicureo, dove gli ragionò Delle leggi.

398Per tutto ciò, noi da questo primo antichissimo punto di tutti i tempi incominciamo a ragionare di diritto, detto da’ latini «ius», contratto dall’antico «Ious»: dal momento che nacque in mente a’ principi delle genti l’idea di Giove. Nello che a maraviglia co’ latini convengono i greci, i quali per bella nostra ventura osserva Platone nel Cratilo che dapprima il gius dissero διαιον, che tanto suona quanto «discurrens» o «permanens» (la qual origine filosofica vi è intrusa dallo stesso [p. 158 modifica] Platone, il quale con mitologia erudita prende Giove per l’etere che penetra e scorre tutto; ma l’origine istorica viene da esso Giove, che pur da’ greci fu detto Διός, onde vennero a’ latini «sub dio» egualmente e «sub Iove» per dir «a ciel aperto»), e che poi per leggiadria di favella avessero profferito δίκαιον. Laonde incominciamo a ragionare del diritto, che prima nacque divino, con la propietá con cui ne parlò la divinazione o sia scienza degli auspíci di Giove, che furono le cose divine con le quali le genti regolavano tutte le cose umane, ch’entrambe compiono alla giurisprudenza il di lei adeguato subbietto. E sí incominciamo a ragionare del diritto naturale dall’idea di essa provvedenza divina, con la quale nacque congenita l’idea di diritto; il quale, come dianzi se n’è meditata la guisa, si cominciò naturalmente ad osservare da’ principi delle genti propiamente dette e della spezie piú antica, le quali si appellarono «genti maggiori», delle quali Giove fu il primo dio.

VII

399Il settimo ed ultimo de’ principali aspetti c’ha questa Scienza è di princípi della storia universale. La quale da questo primo momento di tutte le cose umane della gentilitá incomincia con la prima etá del mondo che dicevano gli egizi scorsa loro dinanzi, che fu l’etá degli dèi, nella quale comincia il Cielo a regnar in terra e far agli uomini de’ grandi benefizi, come si ha nelle Degnitá, comincia l’etá dell’oro de’ greci, nella quale gli dèi praticavano in terra con gli uomini, come qui abbiam veduto aver incominciato a fare Giove. Cosí i greci poeti, da questa tal prima etá del mondo [incominciando], ci hanno nelle loro favole fedelmente narrato l’universale diluvio e i giganti essere stati in natura, e sí ci hanno con veritá narrato i principi della storia universale profana. Ma, non potendo poscia i vegnenti entrare nelle fantasie de’ primi uomini che fondarono il gentilesimo, per le quali sembrava loro di vedere gli dèi; — e non intesasi la propietá di tal voce [p. 159 modifica] «atterrare», ch’era «mandar sotterra»; — e perché i giganti, i quali vivevano nascosti nelle grotte sotto de’ monti, per le tradizioni appresso di genti sommamente credule furono alterati all’eccesso ed appresi ch’imponessero Olimpo, Pelio ed Ossa, gli uni sopra degli altri, per cacciare gli dèi (che i primi giganti empi non giá combatterono, ma non avevano appreso finché Giove non fulminasse) dal cielo, innalzato appresso dalle menti greche vieppiú spiegate ad una sformata altezza, il quale a’ primi giganti fu la cima de’ monti, come appresso dimostreremo (la qual favola dovette fingersi dopo Omero e da altri esser stata nell’Odissea appiccata ad Omero, al cui tempo bastava che crollasse l’Olimpo solo per farne cadere gli dèi, che Omero nell’Iliade sempre narra allogati sulla cima del monte Olimpo): — per tutte queste cagioni ha finora mancato il principio e, per avere finor mancato la cronologia ragionata della storia poetica, ha mancato ancora la perpetuitá della storia universale profana.