La santa alleanza dei popoli (Mazzini)/La santa alleanza dei popoli/IV

IV.

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IV.


È d’uopo contrapporre alla lega dei principi, la Santa alleanza dei Popoli. È d’uopo constituire la democrazia. Noi abbiamo oggi instinti, aspirazioni, presentimenti d’alleanza, non alleanza: abbiamo milioni di democratici, scuole, sette, chiesuole democratiche, non democrazia. Quelle aspirazioni, quei presentimenti non trovano un simbolo, in cui posarsi: quei milioni non hanno un centro d’attività inspiratrice, una formola d’ordinamento, una concorde attività di lavori. Aggruppati intorno a cento brani della grande bandiera, sviati dietro a infinite e premature soluzioni del problema sociale, e diffidenti e intolleranti tutti in nome di un programma, che annuncia tolleranza ed amore, noi sprechiamo su cento direzioni diverse una moltitudine di forze, che concentrate, varrebbero a mutar le sorti d’Europa. I popoli sorgono, ciascuno alla volta sua come l’occasione concede, o come sprona la insofferenza: combattono soli, cadono soli, inonorati, o ammirati come gladiatori nel circo, compianti, non secondati dai loro fratelli. Manca, dopo sessant'anni di lotta, e dopo trentaquattro anni dacchè i nemici dei popoli si collegarono, un vincolo, un segno di fratellanza, un disegno commune. E mentre la fede, nella quale giuriamo, predica l’associazione come termine fondamentale dell’epoca nuova, da sostituirsi al funesto individualismo, noi non siamo, come e quanto dovremmo, associati. L’individuo, santo anch’esso, ed elemento eterno del progresso, pur chiamato ad armonizzarsi col pensiero collettivo, sociale, primeggia anch’oggi sovr’esso di tanto, che inceppa i nostri moti, e vieta il coordinarsi di tutte le nostre forze all’intento. Ora noi siamo, e converrebbe non dimenticarlo mai, non trionfatori, ma combattenti, esercito tendente a conquista, Chiesa militante per una impresa da compiersi. Noi dovremmo ora avere anzi tutto le virtù della milizia: quelle del libero cittadino verranno poi.

Pretesto in molti, cagione sentita in altri alla indisciplina e al dissenso da tutto e da tutti, è l’opinione che all’unione, all’associazione dei lavori debba precedere un’esposizione compiuta, un programma delle conquiste dell’avvenire: giurano nell’uno o nell’altro dei tanti sistemi d’ordinamento sociale politico, affacciati dai capiscuola alle menti, e si [p. 7 modifica]stanno, stretti a quello, disgiunti dal grande esercito della democrazia. Pretesto, o sentita cagione in altri, è una esagerata temenza, che la libera inspirazione dell’individuo sfumi e si cancelli nel pensiero ordinato della vasta associazione, che noi invochiamo.

A questi ultimi giova ricordare due cose. La prima è, che, se le associazioni potevano un tempo farsi sinonimo di tirannide esercitata sull’individuo, quando erane arcano l’intento, i mezzi ed i capi, e gl’iniziati giuravano fra misteri e terrori, non ad un patto, ma ad uomini; nol possono in oggi, dacchè, rotto ogni velo di scienza secreta, publico il fine, publica la dottrina, publici i condottieri, è aperto ad ognuno il sindacato delle inspirazioni gerarchiche, libero ad ognuno il ritirarsi, quand’esse più non convengano coi dettati della conscienza. La seconda è, che essi, serbandosi isolati, non sono, nè si mantengono liberi, ma antepongono alla limitatissima soggezione, che deriva da una regola, da una direzione liberamente accettata, la servitù forzatamente imposta e subita, straniera o domestica: che intanto i loro fratelli sono dati al carnefice, le loro donne flagellate, i loro figli corrotti da una educazione tirannica, superstiziosa, ineguale; che accarezzare, davanti a condizione siffatta di cose, tendenze a separarsi, in nome d’una pretesa indipendenza dell’individuo, dalle battaglie della patria, e da quei che la combattono uniti, è un sacrificare la possibilità d’operare il bene a una vanità individuale, un condannarsi deliberatamente all’impotenza dell’egoismo. Mentre i filosofi indipendenti facevano libri, in oggi perduti, i primi cristiani, assoggettandosi, affratellandosi religiosamente nella gerarchia, rifacevano il mondo.

Ed errano i primi per ebrezza di previsione, o strettezza di mente. Repubblicani, e forti di credenze radicatissime dagli studii e dall’esperienza intorno al futuro della patria e della umanità, noi non veniamo per distruggere solamente, ma per fondare, e crediamo che nessuno abbia diritto di dire a un popolo: sorgi! senza dirgli in nome di chi, e perchè. Ma crediamo a un tempo che, dichiarata la legge, in virtù della quale noi abbiamo diritto e dovere di muovere, dichiarato il problema che si tratta di sciogliere, accennate largamente le vie da seguirsi per raggiungere facilmente l’intento, spetti al popolo, al senno collettivo, alla potenza d’intuizione, che le grandi insurrezioni sviluppano nelle [p. 8 modifica]moltitudini, risolvere il problema e inalzar l’edificio entro il quale le generazioni troveranno per molti secoli tranquillo e operoso sviluppo. L’epoca dei rivelatori è consunta. Se la parola popolo, che suona così sovente sulla nostra bocca, non è vuoto nome, ma espressione di un concetto filosofico-religioso, e parola sacra dell’avvenire, i sistemi che, scendendo dalla sfera dell’ideale, assumono di dare alla società tutte le deduzioni e applicazioni pratiche del principio, immedesimate in un ordinamento assoluto, sono inevitabilmente prematuri, e, più o meno, imperfetti. Nè diciamo questo per cieca venerazione al suffragio universale: il suffragio universale, dove non si constituisca interprete d’un patto accettato dall’Associazione, e non s’illumini con una educazione nazionale, è metodo sterile e incerto: ma lo diciamo perchè la rivelazione del secreto dell’epoca non può scendere che da irraggiamento dello spirito umano, concitato alla più alta potenza dallo spettacolo d’un popolo di credenti, da una contemplazione dell’umana natura, commossa ad attività straordinaria e concorde di tutte quante le sue facoltà. Ora i sistemi sociali dell’oggi sono frutto di studio solitario d’uno o d’altro individuo, sull’uomo inservilito dalla oppressione, corrotto dall’elemento in cui vive, intorpidito nelle sue più nobili facoltà. Per definire la vita e prefigger le norme, è d’uopo vivere, vivere nell’intelletto e nel cuore, nel pensiero e nell’azione, nella meditazione e nell’amore. I grandi eventi ingigantiscono gl’individui e l’abbraccio d’un popolano, redento dal sacrificio intrepidamente affrontato, il grido d’una moltitudine raccolta in entusiasmo d’affetto, riveleranno al filosofo politico più assai intorno alle credenze e alle capacità d’un popolo, che non dieci anni di studi nella morta quiete del gabinetto.

A intenderci, ad affratellarci, a congiungerci tutti in una vasta associazione di lavori, a ordinare, insomma, la democrazia ad esercito, non importa un programma compiuto dell’avvenire; importa che, sulle basi già conquistate, scelte a terreno comune, noi fondiamo un patto, una intelligenza generale, un metodo d’attività, che tragga partito da tutte le forze, a rovesciare gli ostacoli che si frappongono al libero sviluppo dei popoli: ogni uomo intanto, ogni scuola potrà maturare cogli studi e sulle norme che l’intelletto gli additerà, la risoluzione ultima del problema.