La rivoluzione di Napoli nel 1848/52. Ministero Fortunato
Questo testo è completo. |
◄ | 51. La Russia | 53. Conchiusione | ► |
52. Così di pietra in pietra era demolito il portentoso edifizio della rivoluzione europea. L’Austria risorse, e risorse non più donna di provincie, ma bordello, ma consacrazione viva di tutti i delitti che possono contaminare una natura umana perduta. I sovrani d’Italia ricuperarono il potere, ma per esercitarlo sotto il beneplacito del satrapizio croato: riebbero il trono, ma per farne piramide alle statue di Radetzky e di Schwarzemberg. Il figlio della donna di Jellachich, il quale non aveva altro merito per esser sovrano che sapere la grammatica latina, sotto la ferula di generali, che volevano fare obliare la vergogna delle disfatte con l’arroganza di una vittoria non loro; il figlio dell’arciduchessa Sofia occupò la sua vita ad assentire a stati d’assedii, proscrizioni in massa ed impiccagioni di popoli intieri; e non manifestò neppure la compiacenza di avere a suoi prefetti i sei sovrani della penisola. — La vittoria inaspettata disquilibrò la mente di questi potentati, e sopra tutto quella di re Ferdinando. La legge, l’umanità, la giustizia, la verecondia, come gli stracci spogliati dal povero, furono calpestati freneticamente: non si vide che uno scopo, la vendetta; non si trovò che un mezzo, la violenza e la forza. Disgraziati! stolti! avevano dunque obliato che un giorno Napoleone, l’uomo che della forza aveva fatto sì grande sciupo, aveva detto a De Fontanes che niente nell’universo lo stupefaceva più della impotenza della forza! Re Ferdinando si tolse affatto la maschera. Quel ministero, che era stato strumento di tutti i suoi deliri, fu cacciato via con la disdegnosa ignominia che meritava. Scendendo dalla Reggia, il popolo ed i soldati della guardia accoglievano il Bozzelli ed il Ruggiero con urli, fischi ed ogni maniera di sporche ed impure parole. Il Bozzelli fu quasi per impazzirne: l’altro, esoso a tutti pel suo cinismo, stomachevole al popolo come alla corte, era costretto a fuggire per non dar conto dei danari rubati. — Un nuovo ministero si creò e ne fu affidata la composizione ad un rinnegato della vigilia, Giustino Fortunato. Malgrado la pessima fama di costui, malgrado il suo programma, tutto intero e senza misteri da’ suoi compagni accettato, il popolo ne gioì. Ne gioì, perchè nulla più tristo credeva potesse aspettarsi dai nuovi venuti, nulla di più dispotico di ciò che gli avevano imposto i ministri scacciati. Ne gioì, perchè il popolo, al dire di Tacito, crede vedere un simulacro di libertà nel cangiamento dei despoti. Il nuovo ministero si fece bentosto sentire. E forse dico male il ministero, perchè gli uomini che lo componevano sono dei parassiti i quali si contentano godere del pingue soldo e nulla fare. Come quei favoriti dei principi che designavansi a subire le percosse, dagli istitutori ai principi destinate, questi uomini erano stati scelti per portare innanzi agli occhi del pubblico tutto il peso dell’esecrazione e della maledizione del popolo. In sua vece governava la camarilla, o il consiglio aulico, composto del Turchiarola, del San Cesareo, dell’Ascoli, del Bisignano, del Filangieri ed altro simile pattume di corte. Strumenti implacabili e ciechi di costoro sono un Navarra che vantasi aver segnate tremila condanne di morte, nel non lungo periodo delle sue funzioni di magistrato; un Peccheneda, reliquia di polizia, che afferma arrestare di propria mano suo padre, se qual liberale lo sospettasse; un Landi che trovava Delcarretto democratico ed umano; un Angelillo che crede aver perduta la giornata in cui non invia qualcuno al supplizio; un Longobardi il cui nome è tutta un’infamia, e non puossi pronunziare senza un fremito involontario di raccapriccio, di terrore, di schifo; un Busacca, uno Statella, un Nunziante, un Vial e non so quanti altri che hanno da tempo molto rinunziato a qualunque rispetto di pubblico pudore. Sotto la pressione di tale genia il ministero opera o convalida le opere altrui. Per primo atto di governo s’impose loro di prorogare la Costituzione. Il Fortunato con accorgimento distornò quest’atto inutile ed intempestivo. Costituzione non esiste di fatto; anzi giammai despotismo ebbe attuazione più estesa, e consacrazione più spaventevole. La Costituzione fu seppellita sotto le barricate del 15 maggio: ma questo spettro li perseguita, li affascina, li comprende tutti di paura, è una minaccia sospesa sempre sulla loro testa a guisa di una mannaia pronta da un giorno all’altro a cadere. La Costituzione! essi fanno scorrere bande di sicarii per le provincie, e violentano il popolo a firmare petizioni per abolirla: essi ne puniscono di galera la sola parola. Stolti! e ne vogliamo noi forse della vostra Costituzione? Ne vogliamo noi di una legge fondamentale che è un carnevale, è una menzogna sperimentata da due anni, una mistificazione che ha guariti perfino coloro che avevano la bonomia di credervi ancora? Ne vogliamo noi forse di un cencio di Carta che autorizza la vita politica di Ferdinando Borbone e servidorame? Ritiratela pure, bruciatela, abbiate il coraggio di commettere a fronte levata il delitto giornaliero che commettete nell’ombra. Il popolo non ne vuole più: gli è tutto altro che il popolo domanda ed avrà. Sì, l’avrà, perchè sono bene stupide e ben vane le vostre galere ed il vostro terrorismo. Dopo aver imbiettato come acciughe nelle vostre infinite prigioni ed ergastoli del regno i liberali; dopo aver ridotto a carcere l’ospizio dei poveri, gli ospedali ed i conventi per intassarvene ognora, per seppellirvene sempre e di ogni età, di ogni sesso, di ogni condizione; dopo aver messe le unghie su tutti coloro che furono deputati, guardie nazionali, funzionarii pubblici nel tempo della libertà, scrittori coscienziosi, preti liberi, popolani coraggiosi; dopo aver fatto del regno intero una muda spaventevole e silenziosa; dopo aver percossa ogni famiglia, ogni proprietà, ogni pensiero; dopo aver gittata la legge del sospetto, come un alito avvelenato, su tutta la superficie del paese; dopo infine aver soffocato il pensiero, uccisa la parola, vietato a due cittadini di unirsi e parlare, corrotte le coscienze pietose, atterriti i timidi, seminate le spie, proscritta ogni emanazione dell’intelligenza, ogni grido dell’anima ferita, ogni affetto soave e nobile, piegato tutto al regime dello sgherro, del prete e del soldato, spezzato ogni ostacolo, rotta ogni resistenza, falsato e lordato tutto; ebbene, che cosa ne avete ricavato? Avete inflitto il supplizio, ma non il terrore: avete guadagnata la lotta, ma non rimossa la reazione: avete seminato l’assolutismo per raccogliere la repubblica. Il popolo che volevate uccidere vive: e vive nell’odio, nel pensiero della vendetta. Lo avete incarcerato; ma il re neppur esso è libero, egli non si avventura più a calpestare le vie della città che ha insanguinata. Avete cercato corromperlo, ingannarlo; ma quando Pio IX è venuto a trascinare le sue miserie nel seno del popolo il più superstizioso e fanatico per lui un anno innanzi, avete dovuto pagare alcune dozzine di monelli per farlo acclamare. La vostra opera è stolta, è infame, ma sarà inefficace. Nella bilancia di Dio il sangue e le lagrime del popolo sono state pesate. L’avvenire ci appartiene, e ve lo dice un uomo, il cui giudizio non è sospetto, e la mente del quale tutto abbracciava. — “Una volta ancora, diceva Napoleone a Sant’Elena, una volta ancora la Francia sarà repubblicana, e gli altri popoli ne seguiranno l’esempio. Alemanni, Prussiani, Italiani, Danesi, Svedesi e Russi, si accoppieranno a lei per la crociata della libertà! Essi si armeranno contro i loro sovrani che si affretteranno a far delle concessioni onde conservare una parte dell’antica autorità... Ma le cose non si arresteranno là: la ruota della rivoluzione non si fermerà a quel punto; la sua impetuosità quadruplerà, e la celerità si aumenterà in proporzione. Quando un popolo ricupera una parte dei suoi dritti si entusiasma della vittoria, ed avendo gustate le dolcezze della libertà addiviene più intraprendente per ottener di vantaggio. Gli Stati d’Europa saranno forse per qualche anno in uno stato continuo di agitazione, pari ad una terra nell’istante che precede il tremuoto: ma infine la lava si sprigiona, e l’esplosione ha tutto terminato.”
E che cosa resta sopra una terra dove la mano di un vulcano è passata?