<dc:title> La rivoluzione di Napoli nel 1848 </dc:title><dc:creator opt:role="aut">Ferdinando Petruccelli della Gattina</dc:creator><dc:date>1850</dc:date><dc:subject></dc:subject><dc:rights>CC BY-SA 3.0</dc:rights><dc:rights>GFDL</dc:rights><dc:relation>Indice:Petruccelli - La rivoluzione di Napoli nel 1848, Genova, Moretti, 1850.djvu</dc:relation><dc:identifier>//it.wikisource.org/w/index.php?title=La_rivoluzione_di_Napoli_nel_1848/40._Rotta_di_Carlo_Alberto&oldid=-</dc:identifier><dc:revisiondatestamp>20240422085740</dc:revisiondatestamp>//it.wikisource.org/w/index.php?title=La_rivoluzione_di_Napoli_nel_1848/40._Rotta_di_Carlo_Alberto&oldid=-20240422085740
La rivoluzione di Napoli nel 1848 - 40. Rotta di Carlo Alberto Ferdinando Petruccelli della GattinaPetruccelli - La rivoluzione di Napoli nel 1848, Genova, Moretti, 1850.djvu
[p. 154modifica]40. Benchè io sia convinto del principio di Robespierre, che un roi est un mauvais guide pour [p. 155modifica]conduire un peuple à la conquête de la liberté; pure non è mia mente di giudicar Carlo Alberto. Egli è morto, ed il giudizio di Dio lo ha pesato. La sua posterità non è ancora cominciata. Nelle attuali sventure d’Italia si ha troppo a combattere con i vivi, per tessere un processo ai morti; ed ai morti con i sintomi del martirio. La sentenza della sua rotta, della sua ritirata, della capitolazione di Milano, sia dei posteri. Noi rammentiamo solamente che egli solo osò tirare la spada dal fodero e farla sfolgorare sul viso all’austriaco: che egli solo comprese l’Italia, quando disse che avrebbe fatto da sè: che egli solo parlò d’indipendenza e di nazionalità, elementi supremi della vita di un popolo: che egli solo, tra il gregge dei principuzzi d’Italia, rispettò la libertà nei suoi Stati, tenne la parola, osservò il giuramento, non mutò consiglio per mutar di fortuna, e tenero ebbe il cuore per i caduti, e sostenne le speranze della penisola, quando i fati le si dichiararono avversi, ed il governo di Francia l’abbandonò. Ad altri il giudizio sul movente che diresse la sua opera, sulla fedeltà delle sue promesse, sulla verità dei suoi fatti: per me, innanzi ad un cenere caldo ancora sono compreso da venerazione; ed abbiamo troppi delitti palesi a maledire, per andar fino ad investigare le intenzioni. L’inattesa novella della sua disfatta colmò di lutto l’Italia. Era una pubblica calamità che portava il germe di un funesto avvenire. Non era l’onta per le armi italiane; l’onore era salvo, e possiamo dirlo ad alta voce ed a fronte levata, era salvo a Goito, a Pastrengo, a Peschiera, a Vicenza, a Colmasino, alle Corone, a Governolo, a Somma Campagna, e sopratutto nelle disastrose giornate di Curta[p. 156modifica]tone e di Montanara, e nelle battaglie di Custoza e di Volta: non era il danno che dalla disfatta rilevava; ma lo scoraggiamento che andava a colpire un popolo giovine, il quale alzatosi confidente ed ardito, aveva generosamente rotte le catene; era la supremazia morale che l’Austria riassumeva. Le fortune della guerra potevansi riaccozzare e ricondurle all’attacco, le perdite con nuovi sacrifizi potevansi riparare; ma era l’irresarcibile squarcio formato nell’opinione di Europa e nella coscienza delle masse, essere l’Austria la fatalità inesorabile che deve gravitare sull’Italia, e che attaccarla è perdersi. Non furono forse queste considerazioni che attiepidirono l’Inghilterra, e fecero a Cavaignac ritirare la parola di Lamartine? Non furono forse queste considerazioni che inaridirono affatto l’anima del Papa, già avvelenata e prevaricata; che raddoppiarono l’energia di distruzione del re di Napoli, l’ipocrisia del Gran Duca di Toscana? I principi cantarono osanna, e rifrugarono in tutti i ripostigli del blasone e nei vuoti tesori degli stati nostri i dobloni per festeggiare Radetzky: i popoli presero la gramaglia. Era il primo anello di una catena di sventure che doveva finire col massacro di Ungheria e la resa di Venezia! La sensazione che produsse nella nazione napolitana fu terribile; e terribile tanto più, perchè il disastro arrivava impreveduto ed avviluppato di mistero. Se si fosse proclamata semplicemente la disfatta, ciascuno avrebbe considerato che le sorti sul giuoco della guerra non sono sempre prospere, e che col bollettino del domani potevasi favellare di vittoria. Ma si parlò di tradimento, e questo ci sgomentò. Imperciocchè il danno non era [p. 157modifica]solo del momento, ma duraturo e proiettato sull’avvenire: non colpiva solamente le affezioni attuali, uccideva le speranze. Il governo raddoppiò di arroganza. E se qualche giorno prima si sarebbe contentato semplicemente di sbarazzarsi di un nemico, di un accusatore ardito ed indefesso fino alla petulanza, dopo la nuova della vittoria dei nemici d’Italia, quel ministero che aveva protestato essere italiano, volle vituperare la camera, e scioglierla in mezzo al grido d’indignazione che un popolo fremente metteva fuori. Non era più una misura di governo, ma una vendetta; non era più una necessità politica, ma un’onta.