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tramontata. Ispirato da tante favorevoli opportunità, Carlo Alberto teneva in pugno la vittoria, e l’aggregazione del Lombardo-Veneto ai suoi Stati. E chi sa, che non vagheggiasse pure la grande idea della concentrazione d’Italia! Ogni patto quindi con gli altri governi italiani gli sembrò un compromesso, e lo rigettò come inopportuno. Egli disse: facciamo la guerra, restiamo padroni di casa nostra noi, poi comporremo in famiglia le domestiche differenze. Aveva torto? io penso di no. Il bisogno vitale d’Italia è l’indipendenza dallo straniero, è l’essere nazione. Fino a che non domina le Alpi; fino a che le chiavi della Penisola sono in mano di un barbaro che può scendere a devastarla ogni qualvolta una nuova avidità lo tormenta; qualunque accordo, qualunque equilibrio, qualunque libertà si diano quelle frazioni di popolo, sono in balia di un nemico che o le può spezzar con la forza, o con un veleno occulto dissolverle. La pressione costante, che una razza straniera ed avversa esercita attivamente sulle popolazioni italiane, rende impossibile ogni seria coesione fra loro: chiamarvela a parte, gli è infiltrarsi un principio dissolvente che prestamente tutto corromperebbe. Vi è nella natura dei due popoli qualche cosa di ostile e d’incompatibile che mai non riposa, e di cui è impossibile l’amalgama. Fino a che dei legami di violenza le tengono congiunte, nè l’Italia nè l’Alemagna raggiungeranno mai una soluzione intera della scambievole organizzazione, una libertà di azione per compiutamente svilupparsi. E perciò porteranno entrambe mai sempre in sè un germe di debolezza e di morte. Carlo Alberto quindi non aveva torto, se, respingendo la federazione, diceva: mandatemi uomini ed armi: