La rivoluzione di Napoli nel 1848/22. Il popolo assume l'iniziativa
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22. Il ministero scomparve. Lo stemma dell’Austria fu trascinato per le strade e bruciato. I gesuiti, assaliti da un gruppo di giovani che ne domandavano il bando, ebbero il tempo appena di barricarsi nella casa. La guardia nazionale accorse, ma il club degli studenti aveva pronunziato l’ordine di uscire, ed il resistere era vano. Una deputazione si recò dal ministro Bozzelli e gl’impose di subito cacciarli via. Qualcuno di quei frati travestito scavalcò i tetti e si salvò dal convento, bloccato dalla guardia nazionale a piedi ed a cavallo, dagli svizzeri, e dagli studenti che incorruttibili ed inesorabili aspettavano il sollecito compimento del loro verdict. Il direttore della polizia Giacomo Tofano ne tirò fuori uno, mascherato a guardia nazionale, appoggiato al suo braccio, ed il tesoro della società, sminuito di alquanto, fu salvo. Un centinaio e più di quel gregge, ridotto in una sala, fu custodito tutta la notte con severità e forse con durezza. All’indomani corsero dei messaggi tra gli studenti da un lato ed il ministero ed il re dall’altro: quindi grandi apprensioni, grandi dicerie. Infine, sulla sera, scortati come malfattori, in presenza del Bozzelli che non arrossì sanzionar per tal modo un decreto da lui non osato concepire, luttuosamente quella compagnia di tristi imbarcavasi sopra un vapore, che la conduceva fuori la rada, per indi di nuovo intrometterla nella città di notte tempo e diversamente mascherata. Si era spiegato un gran lusso di forze, credendo che il popolo si commovesse; ma, malgrado le ciere compunte e le assise da pellegrini, malgrado i gridi ed il piagnuccolare di un povero vecchio paralitico gravemente straziato dagli sbalzi della carrozza, la loro cacciata fu accolta col grido di viva l’Italia! morte all’austriaco! e neppure una voce di simpatia. Un solo protestò contro la fiacchezza del governo che si affrettava ad obbedire al primo venuto: una sola penna ardì dire che, se l’esiglio di coloro era necessario ed anzi ritardato di troppo, non era costituzionale, perchè nè dal governo nè dalla rappresentanza nazionale pronunciato, non per legge nè per ordinanza compiuto; e l’uomo che lo diceva - era io. Quando i giorni di lutto ricominciarono per Napoli, i gesuiti pubblicamente tornarono. Essi fiutano l’odore del despotismo come i corvi quello delle carogne. Imprudenti! Che dirà dunque il popolo se dovrà un giorno cacciarli di nuovo? dirà... i morti soli non tornano. E chi vorrà compatirli? Queste facili vittorie inaridivano la parte meno saggia dei cittadini, senza rischiararla.
Lo spirito rivoluzionario aumentava, la rivoluzione niente affatto. La guardia nazionale, benchè molto tenera della propria dignità, non comprendeva la sua missione, e si abbandonava sovente ad atti o arbitrarii o abbietti. I suoi capi cercavano forviarne lo spirito. Essa non difendeva il popolo, lo conteneva: non comprendeva la libertà, la comprometteva: lungi dall’appoggiare i diritti della nazione, custodiva le prerogative reali, e serviva come sostegno del governo. Era questo l’andamento che i capi nominati dal re le davano, ed essa vi soggiaceva tacendo. Scrollata però la Gibilterra del dispotismo, l’Austria, il malcontento universale prese forma e consistenza. Si sapeva oramai ciò che si voleva, e ciò che si voleva imperiosamente domandavasi. La burla era durata troppo. La nullità e l’infedeltà del Bozzelli non erano più un mistero per alcuno: il pubblico disprezzo lo cacciava via. La tristizia del re e della corte era irrefragabilmente documentata: dovevano quindi o emendarsi o uscire. Infatti re Ferdinando teneva pronti i suoi tesori sul battello a vapore il Tancredi, che, sotto le mura della reggia, aveva il fuoco sempre acceso per partire al primo segnale. L’alterigia della guardia nazionale, e parecchie perfide dicerie avevan diviso in due campi la borghesia ed il soldato. Si cercò invano conciliarli, si cercò invano rischiarare gl’illusi: le parole fratellevoli respingevansi, calunniavansi le rimostranze severe. Il re appoggiavasi con tutta la sua forza su questi dissidii, e profondeva oro e favori, popolarità e malignazione per attaccare la truppa al suo carro. Eppure il popolo si inorgogliva della bravura e della disciplina della milizia: le aveva perfino perdonato il sangue dei liberali, versato forse senza saperlo e senza comprenderlo. Tutto fu inutile. Nel giorno della prova la demoralizzazione del soldato si smascherò; la ferocia, la rapina prevalse su i sentimenti più nobili. Intanto la decadenza del ministero pronunziata, ad alta voce, quale espressione dei voti comuni, si disegnò ministro Aurelio Saliceti. Quest’uomo di carattere fiero, leale, disinteressato, era stato alcuni giorni al ministero, ed aveva contrassegnato il suo passaggio con proporre misure energiche ed opportune. Saliceti aveva compresa la risoluzione e voleva ad ogni costo incarnarla. Egli voleva rimondata la macchina governativa da ogni sozzura del vecchio reggimento: voleva l’espressione pura e sincera del nuovo. Il re si era spaventato di lui e lo chiamava il Robespierre di Napoli. Perciò, profittando di un giorno in cui la febbre lo riteneva a casa, lo dimise dal suo posto. Il popolo lo ridomandava perchè in lui solo credeva, perchè la sua anima non si ammolliva alle reali seduzioni per traviare la pubblica coscienza. Il re fu inesorabile. E tanto più inesorabile in quanto che, avendo fatto interrogare Saliceti, questi propose per suo programma: convocazione di un’assemblea costituente per suffragio universale doppio: riorganizzazione dell’armata: riforma compiuta dei funzionarii pubblici; sussidii alla guerra di Lombardia, e negoziato attivo per l’unione d’Italia. Erano questi i voti del paese. Ma il re rispose che avrebbe innanzi abdicato, avrebbe innanzi tentate le sorti della guerra civile che cedere. Al pensiero della lotta che andavasi ad impegnare vi fu un momento di scoraggiamento, ma questo dileguatosi, con attività e virilità il popolo si apparecchiava già a rispondere alla sfida, ed organizzava la novella rivolta. Esso confidava in sè, confidava nelle provincie e nella guardia nazionale. E la vittoria non ci avrebbe forse allora fatto diffalta perchè la pugna si aspettava e si era sotto le armi. Il re però fu prudente e domandò conciliarsi. Alla deputazione che gli andava a rapportare l’irritazione dei cittadini rispose lusinghevolmente. Promise tutti soddisfare, parlò del suo cuore libero e leale, e si disse financo principe italiano. Con quella millanteria da ciarlatano parodiava l’atto fiero di Carlo Alberto che, al grido generale di fuori il barbaro dall’Italia, aveva tirata la spada dal fodero e passata la frontiera per soccorrere Milano. La rivoluzione italiana cominciava infine ad acquistare un colore. Una generazione non si era commossa per conquistare la miserevole burla di uno Statuto. — Re Ferdinando, non osando respingere le proposizioni del popolo, temendo accettare le conseguenze della rivolta, spaventato dal progresso delle idee e dello scopo a cui esse tendevano, restato solo nella campagna della reazione, si aveva veduto cader d’intorno ad uno ad uno tutti i bastioni e le speranze di difesa. Luigi Filippo, Metternich, Radetzky fuggivano: Carlo Alberto addiventava rivoluzionario e minacciava conglobare al suo principato l’Italia, vecchio istinto della casa di Savoia; il Papa lasciava fare, non comprendendo più nulla: il suo governo immorale riconosciuto e repulso: la Sicilia perduta: l’Inghilterra inchinevole alla causa della libertà: la Russia sbalordita e paurosa con il fuoco che attacavasi ancora alla casa sua: l’Alemagna correndo ardita all’unificazione e quindi alla repubblica: il Sonderbund disperso. Egli solo restava in piedi in mezzo a tante rovine. La sua bandiera, benchè lacerata, rappresentava ancora la resistenza monarchica. Cercò difenderla, sostenersi; ma non con le armi del soldato e con la risoluzione e la franchezza della forza, sì bene con le scaltrezze della diplomazia austriaca e con le tradizioni dei gesuiti. Rifiutò quindi il ministro Saliceti ed il suo programma netto e ardito; accettò il ministero Troya ed il suo sistema di transazione. Doppiezza, tergiversazione, immoralità - ecco tutta la sapienza politica spiegata dal ministero Bozzelli, ed il codice che lasciava in eredità al re, la piaga che delegava alla nazione. Ferdinando adoperò sul ministero Troya tutta l’efficacia delle dottrine della scuola costituzionale: spiegò tutto il lusso delle seduzioni per farsi complice il nuovo gabinetto. Ma questo ricusò prestarsi, ed abbozzò un programma che se in qualche cosa transigeva, non rinnegava interamente quello formulato dal popolo.