La rivincita di Yanez/Capitolo XIV - Il cavallo del bandito

Capitolo XIV - Il cavallo del bandito

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Capitolo XIV - Il cavallo del bandito
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Capitolo XIV.
Il cavallo del bandito.


I quattro fuggiaschi si erano trovati improvvisamente dinanzi ad un’arcata, la quale forse doveva segnare la fine di quel corso d’acqua misterioso e del grande condotto.

Attraverso all’immenso squarcio si vedevano scintillare le stelle ed un lembo di cielo che pareva rosseggiasse.

— L’alba? — chiese il rajaputo, prendendo fra le braccia il gurú, il quale non si reggeva piú in piedi.

— No, — rispose Kammamuri. — Quella non è tinta di aurora.

— Come spieghi questo mistero, sahib?

— In un modo semplicissimo. Il tara brucia e proietta le sue vampate verso il cielo.

— Allora siamo fuggiti a tempo.

— Cosí pare, e credo che tu non avrai da lagnarti.

— Veramente no, poiché mi credevo proprio perduto.

— Sale il fondo?

— Sí, sahib — disse Timul che era sempre dinanzi a tutti.

— E l’acqua è scomparsa?

— Non ve n’è quasi piú.

— Un ultimo sforzo, miei poveri amici, poi in qualche luogo, sia pure nel regno delle tigri, noi ci riposeremo. Ormai io non temo piú i banditi di Sindhia.

Si spinsero innanzi e passarono sotto l’arcata, la quale appariva in piú luoghi diroccata.

Il cielo, che rosseggiava sempre, permetteva di vedere abbastanza bene. Pareva che una piccola aurora boreale si fosse stesa sulla jungla, fenomeno affatto sconosciuto dagli indiani.

Timul con uno sforzo supremo raggiunse una enorme macchia di tamarindi, la quale cresceva a poche decine di metri dall’arcata, e vi si cacciò dentro, lasciandosi cadere al suolo completamente estenuato.

I morsi delle sanguisughe lo facevano orribilmente soffrire, e da quelle minuscole ferite il sangue scorreva.

Kammamuri e gli altri lo avevano subito raggiunto.

In lontananza una fiaccola gigantesca ardeva, lanciando in aria colonne di fumo rossastro e nembi di scintille, che il vento trasportava attraverso la jungla, col pericolo di provocare altri incendi. Era l’enorme tara che se ne andava, a pezzo a pezzo, lasciando cadere intorno a sé una vera pioggia di fuoco.

— Da quale pericolo siamo scampati! — esclamò il maharatto, il quale succhiava avidamente un frutto di tamarindo ben maturo che aveva raccolto. — Un’ora di ritardo, ed i banditi ci arrostivano.

— E dove siamo adesso? — chiese il rajaputo.

— Come ben vedi, dinanzi a noi si stende la jungla.

— Brutto posto per cercare un rifugio, sahib! Specialmente quando non si hanno armi grosse.

— Anche tu cominci a diventare noioso come il gurú.

— Fra me ed il sacerdote passa molta differenza. Sono l’orso delle montagne io, son capace di affrontare una tigre anche senza armi e di spezzarle le costole.

— È un po’ troppo! — disse Timul.

— Il leopardo è caduto cosí! — rispose il gigante.

Kammamuri intanto aveva fatto il giro della macchia dei tamarindi, entro la quale si udivano urlare furiosamente alcuni sciacalli in cerca di un po’ di cena.

Sahib, — disse il rajaputo — ci accamperemo qui fino all’alba?

— Non saprei trovare altro luogo migliore piú vicino — rispose il maharatto.

— E se i banditi di Sindhia giungessero?

— Ormai ci credono morti, e si riposeranno anche loro.

— Avessimo la loro cena!...

— Contentati di queste frutta acide assai rinfrescanti. Timul, sapresti guidarci ancora alla pagoda?

— Perché sono un cercatore di piste? — rispose il giovane. — Mi sarebbe però necessaria una corda, e non ne ho piú. E poi, perché tornare laggiú verso il pericolo, invece di approfittare del momento per fuggire e raggiungere la grande via che conduce alle montagne?

— E con quali cavalli percorreremo il lunghissimo tratto?

— Vorreste sorprendere i banditi? Pessimo affare: è meglio lasciarli a scaldarsi intorno al tara.

— È già caduto! — gridò il rajaputo, il quale non si era coricato un istante.

Infatti verso ponente non si vedevano piú alzarsi né fiamme, né scintille. Il colosso divorato dal fuoco aveva ceduto dopo una vita di secoli.

Sahib, — chiese il rajaputo — che cosa decidi? Di rimanere qui?

— Sí, almeno fino all’alba — rispose Kammamuri. — Siamo troppo sfiniti per riprendere la marcia.

— È vero — confermò il gurú.

— Se ci lasceranno riposare tranquilli... — disse Timul.

— Le vostre pistole sono asciutte? — chiese il maharatto un po’ trepidante.

— La mia sí — rispose il rajaputo. — Mi premeva troppo di conservarla. Son certo che sparerà subito i suoi due colpi.

— E tu, Timul?

— Anche la mia — rispose il giovane. — Il colpo non mancherà nemmeno a me.

Era inutile domandarlo al gurú, poiché non aveva avuta alcuna arma da fuoco.

— Abbiamo sei palle da lanciare — proseguí Kammamuri. — Sono poche, ma possono essere di molto aiuto in qualche momento difficile. Non finirò di lodare mai quel bravo bramino che è sempre rimasto amico del Maharajah anche dopo il ritorno di Sindhia. A lui dobbiamo la nostra vita e queste armi.

— Senza quell’uomo, il rajah ci avrebbe fatti subito scorticare prima di uscire dal sepolcreto — disse il rajaputo.

Si erano tutti coricati fra le foglie secche e ben soffici, ed aprivano gli occhi piú che potevano per sorprendere qualche nuovo nemico, niente affatto desiderato in quel momento.

Si udiva intorno alla macchia come una specie di galoppo leggero, il quale non cessava di avvicinarsi.

— Per la morte di Kalí! — disse il maharatto. — So di che cosa si tratta. Niente elefanti, niente bufali e niente rinoceronti. Farebbero molto piú fracasso.

— Eppure, qualcuno continua a girare e rigirare intorno alla macchia — disse il rajaputo.

— È un cavallo montato certamente da qualche bandito di Sindhia.

— Lo hai veduto, sahib?

— Il leggero galoppo lo tradisce — rispose Kammamuri. — Ah, se potessimo almeno impadronirci di quell’animale!

— Siamo in quattro, sahib, — disse Timul.

— Per ora contentiamoci di uno. Ne approfitterà il gurú, che non può piú tenersi in piedi. Noi siamo forti camminatori, e le montagne di Sindhia le raggiungeremo anche con le nostre gambe... Chi arresta quella bestia?

— Io, sahib, — disse il rajaputo. — Getterò a terra cavallo e cavaliere.

— Non fare fuoco: accorrerebbero altri banditi.

— Per il cavaliere mi servirò solamente del calcio della pistola. Tu sai che io picchio sodo.

— Anche troppo, amico.

— Lascia fare a me, sahib: fra cinque o dieci minuti noi avremo quel cavallo nelle nostre mani, se si tratta veramente di un trottatore.

— Ti dico che non si tratta di una bestia selvaggia.

— Sí, è un cavaliere — disse Timul, il quale si era spinto fuori dalla macchia. — Cerca le nostre tracce.

— Ci penso io subito! — disse il rajaputo, alzandosi di scatto.

— Vuoi che ti aiuti? — chiese Timul.

— Tu sei troppo debole per arrestare un cavallo in corsa. Non sei meno sfinito del gurú, dopo il salasso delle sanguisughe.

— Questo è vero.

— Allora rimani qui tranquillo presso il sahib. Basto io per sbrigare questa faccenda. Sahib, parto.

— Ti raccomando di non far uso della pistola — gli disse Kammamuri. — Niente spari per ora.

— Come ti ho detto, non adopererò che il calcio dell’arma e contro il cavaliere, non già contro il cavallo che io voglio condurre qui vivo.

— Se mai, noi siamo pronti ad accorrere in tuo aiuto.

— Io spero di non aver bisogno di nessuno.

Ascoltò un momento, poi si slanciò rapidamente fuori dalla macchia, gettandosi subito in mezzo a dei cespugli di mindi, i quali potevano nasconderlo interamente.

— Che uomo! — esclamò Kammamuri. — Se il signor Yanez ne avesse avuti duecento come lui, chi sa dove sarebbe a quest’ora Sindhia!

Si era messo in ginocchio, impugnando per precauzione la pistola, e stava attento alla ricomparsa del cavaliere. Anche Timul si era alzato, mentre il povero sacerdote giaceva fra le foglie come una massa quasi inerte.

— Odi? — chiese il maharatto al cercatore di piste dopo alcuni minuti di attesa.

— Sí — rispose il giovane. — Il cavallo ritorna e per la terza volta. L’uomo che lo monta cerca le nostre tracce.

— Sarà solo?

— Non ho veduto altre ombre.

— Ora vediamo che cosa saprà fare quel diavolo di rajaputo. Sono certo che manterrà la sua promessa.

Si erano spinti verso il margine della macchia rimanendo nascosti sotto gigantesche foglie di banani, lunghe dieci ed anche dodici metri.

Di là scorsero subito il gigante, il quale pareva non cercasse affatto di nascondersi.

Si era gettato sulla via che doveva percorrere il cavallo, balzando come un orso in furore. Ora si abbassava fino a terra, ora scattava, piantandosi sulle gambe muscolose, e tendendo le possenti braccia.

— Son sicuro che quell’uomo arresterà il cavallo in piena corsa! — disse Timul al maharatto.

— Non ne dubito, amico. È forte come un piccolo elefante.

Intanto il galoppo si avvicinava sempre, ma senza produrre troppo rumore.

Il cavaliere doveva avere le sue buone ragioni per prendere delle precauzioni.

Ad un tratto da un macchione sbucò un bellissimo cavallo tutto bianco, il quale andava alla carica.

Il rajaputo si era slanciato ben deciso a impadronirsi della cavalcatura e non già del cavaliere, che sarebbe stato piú d’imbarazzo che d’utilità.

Essendo la notte tornata abbastanza chiara, aveva veduto distintamente il corridore, e prese le sue misure per atterrarlo senza rompergli le gambe o spezzargli le costole.

Comparve improvvisamente dinanzi al cespuglio che lo aveva nascosto e gridò al cavaliere:

— Ferma o sparo!

— Chi sei tu?

— Te lo dirò quando ti avrò scavalcato — rispose il rajaputo.

— Qualcuno di quei cani che il Maharajah...

Non poté finire la frase. Il gigante aveva afferrato risolutamente il cavallo e lo stringeva forte alle narici, resistendo vigorosamente all’urto. Doveva essere molto forte quell’uomo, piú forte di un orso delle montagne indiane!

Il trottatore mandò un sordo nitrito, poi cadde di quarto, sbalzando di sella il suo guidatore.

— A me! — gridò allora il rajaputo.

Intanto Kammamuri e Timul si precipitavano fuori dalla macchia, impugnando le pistole e gridando:

— Siamo qui.

In un baleno giunsero addosso al cavallo e subito lo immobilizzarono. Il cavaliere non aveva mandato nemmeno un grido. Aveva battuto forte il capo e pareva morto.

— Tu sei un brav’uomo! — disse Kammamuri al rajaputo. — Non ti credevo cosí forte.

— Grazie, sahib.

— Sei stato ferito?

— Niente affatto. Ho rovesciato l’animale prima che mi passasse addosso, e, come vedi, l’ho abbattuto.

Il cavaliere, un bandito di Sindhia certamente, giaceva cinque metri piú là, colle braccia spalancate.

Non parlava piú e non aveva piú la forza di rialzarsi.

— È un uomo morto — disse il rajaputo. — Meglio cosí. Noi non abbiamo bisogno di prigionieri.

Timul intanto aveva rialzato il cavallo coll’aiuto del maharatto.

La povera bestia scalpitava e tentava di fuggire, ma non poteva ormai fare un passo, poiché anche il rajaputo era accorso.

— Buona presa! — disse Kammamuri. — Due fonde, ben fornite di viveri probabilmente, ed una carabina. Valeva la pena di tentare il colpo.

— Che sia proprio morto il bandito? — chiese il giovane cercatore di piste.

— Non occuparti di lui — rispose il rajaputo. — Deve essersi spaccato il cranio contro il suolo o contro qualche tronco. Se fosse ancora vivo, urlerebbe come una bestia feroce.

— Torniamo alla macchia — disse Kammamuri, il quale aveva già tolto al povero bandito un tarwar di dentro un’alta fascia di tela grigia. — Forse non era solo, e mentre noi stiamo qui, gli altri ci spiano.

— Io non odo nessun galoppo di cavalli ora — disse Timul, soddisfatto.

Il rajaputo afferrò la bestia per le briglie, col suo pugno di ferro, e quantunque non cessasse d’impennarsi, la trasse verso la macchia, diventata ormai il loro rifugio.

Prima di giungervi ascoltarono parecchie volte, temendo sempre che nuovi cavalieri giungessero; poi rassicurati dal gran silenzio che regnava nella jungla, interrotto solo da qualche urlo di sciacallo, si cacciarono rapidamente sotto gli alberi, dove il gurú li aspettava piú morto che vivo.

— Vuota la fonda — disse il maharatto al rajaputo. — Deve essere ben fornita.

— Poca cosa, sahib, — rispose il gigante. — Una bottiglia di birra, che sarà cosí acida da non potersi bere, cinque gallette, delle palle e della polvere per la carabina. Il rajah non spende troppo a mantenere i suoi uomini.

— L’arma grossa ci era necessaria — disse Kammamuri. — Le pistole saranno armi buonissime, ma contro le tigri ed altri grossi animali non hanno mai avuto fortuna. Dammi il fucile.

— Bada che è carico, sahib, — disse il rajaputo, il quale intanto aveva rapidamente legato il cavallo sempre ricalcitrante.

Non si trattava veramente di una di quelle grosse carabine che usavano le tigri della Malesia, tuttavia doveva avere una buona portata.

Kammamuri, tutto contento di quel regalo inaspettato, diede ordine di dispensare quelle poche gallette e di sturare anche la bottiglia.

— Non moriremo d’indigestione — disse il rajaputo. — Fra cinque minuti avremo piú fame di prima.

— Prenditi anche la mia — disse Kammamuri. — Io posso farne a meno per ora. Non sono grosso e robusto come te.

— Oh, no, sahib! — rispose il rajaputo. — Ognuno si prenda la sua parte e se la mangi. Alla birra potete rinunciare, poiché è assolutamente imbevibile. Ha preso troppo sole.

I quattro uomini, un po’ scoraggiati per la meschinità della preda, si misero a sedere ai piedi d’un grosso albero con le spalle appoggiate al tronco e cominciarono a sgretolare lentamente le durissime gallette.

Il rajaputo, che le aveva conquistate, ne ebbe una di piú.

— Ed ora, sahib? — chiese Timul al maharatto, il quale continuava ad osservare la carabina. — Rimarremo qui in attesa di altri cavalieri? Io ho il presentimento ben poco allegro di vederci circondati dentro la jungla. Il bandito, che il rajaputo ha scavalcato, non doveva essere solo.

— Non lo credo nemmeno io, amico. Era un esploratore mandato innanzi per spiarci — rispose Kammamuri. — Sindhia mette un’ostinazione veramente feroce nel darmi la caccia.

— Eppure, noi non siamo che dei poveri uomini in continua fuga. Non siamo ministri del Maharajah.

— Quella canaglia voleva che io lo conducessi là dove il signor Yanez ha sepolti i tesori suoi e quelli della rhani. Deve essere molto corto a denari.

— Tu, sahib, lo sai dove quelle ricchezze si trovano?

— Lo sa anche il rajaputo — disse Kammamuri. — Ma Sindhia non metterà la mano su quel tesoro che deve essere ingentissimo. Si tratta di milioni di rupie fra monete d’oro e gioielli.

— Sí, lo so anch’io — disse il gigante, mentre rosicchiava lentamente la sua seconda galletta. — Il Maharajah non aveva segreti pei suoi fidi. Il rajah potrà tagliarmi in venti pezzi o legarmi alla bocca d’un cannone, ma da me non saprà nulla; forse...

Timul lo interruppe, tendendo l’orecchio.

— Questo non è l’urlo d’uno sciacallo! — disse il giovane cercatore di piste. — Ma è molto bene imitato.

— Qualche segnale? — chiese Kammamuri balzando in piedi.

— Certo, sahib. Tu conosci gli urli di quelle bestie meglio di me: ascolta un momento.

Tutti erano rimasti silenziosi; solamente il cavallo continuava a scalpitare furiosamente ed a nitrire.

Sahib, — disse ad un tratto il giovane cercatore di piste — noi abbiamo fatto male a non finire con una pistolettata il bandito che cercava di spiarci.

— Ma col gran salto che ha fatto — disse il rajaputo — dev’essersi spaccata la testa.

— Ci dovevamo assicurare — disse Timul — se era realmente morto. Ecco ancora l’urlo, o meglio, il segnale.

Si erano alzati tutti tendendo gli orecchi, quando un urlo ruppe il silenzio, un urlo stridulo che doveva uscire dalla gola d’uno sciacallo.

Il cavallo, udendo quel richiamo, si era impennato, e tentava di rompere le briglie.

— Hai notato, sahib? — chiese il giovane cercatore di piste.

— Sí — rispose Kammamuri, diventato improvvisamente pensieroso. — Questa bestia ode il segnale del suo padrone e cerca di fuggire per raggiungerlo.

— Ci siamo noi bensí — disse il rajaputo. — Ci è troppo preziosa e non la lasceremo scappare. Non so come se la caverà il gurú quando lo avremo messo in sella.

— Un giorno sono stato anch’io un cavaliere — disse il sacerdote. — Ho fatto molte campagne prima di seppellirmi in una pagoda ad attendere la morte.

— Ti getterà subito a terra — disse Timul. — Non vedi come s’impenna?

— Saprò domarlo.

Per la terza volta l’urlo dello sciacallo echeggiò altissimo nella notte e piú stridulo di prima. Il cavallo, udendo quel nuovo segnale, s’inalberò di nuovo tentando di rompere le briglie. Ma il rajaputo, che lo sorvegliava attentamente, in un momento gli fu addosso, lo prese strettamente per le narici e tornò a farlo cadere, badando che non si rompesse le gambe o le costole.

— Di questo cavallo noi non faremo niente, se prima non avremo la certezza che il suo padrone è morto — disse. — Non so chi mi trattenga dal prenderlo a pugni.

— Lo rovineresti — disse Kammamuri. — Metti le mani in tasca e lascialo riposare.

— Allora dammi la carabina, sahib, e lasciami partire.

— La notte è ancora oscura.

— Saprò dirigermi egualmente — rispose il gigante, afferrando vivamente il grosso fucile.

— Tu sei pazzo! — disse Kammamuri.

— No, sahib; lasciami andare — disse il rajaputo con ostinazione. — Con quest’arma mi sento assolutamente sicuro.

— E dove vuoi andare?

— A vedere se il cavaliere è ancora vivo.

— O non si è spaccata la testa?

— Io l’ho veduto fare un gran salto dentro il cespuglio che mi proteggeva, ma non posso dire proprio che sia morto. Te lo ripeto: noi abbiamo avuto il torto di non finirlo con una pistolettata.

— Credi dunque che sia lui che chiama il cavallo?

— Sí, sahib.

— E lo credo anch’io — disse Timul. — Si vede bene che il cavallo sente la chiamata del padrone.

— E alla prima occasione ci scapperà.

— Allora andiamo a finire il suo padrone, se vive ancora — disse il rajaputo con un sorriso feroce. — To’, ecco di nuovo quel maledetto urlo dello sciacallo. L’odi tu, sahib?

— Sí! E senti come il cavallo risponde con lunghi nitriti — disse il maharatto.

— Segno evidente che il bandito è tutt’altro che morto!

— Che i cavalieri di Sindhia siano già giunti e che cerchino di accerchiarci? Sarebbe meglio sgombrare di qui senza aspettare l’alba.

— Sono del tuo parere, sahib, — disse Timul. — Non ci sarà facile attraversare la jungla; tuttavia è sempre meglio aver da fare con qualche altra bâgh, piuttosto che coi cavalieri del rajah, che saranno certamente armati di carabine.

— Tentiamo la sorte! — disse il maharatto. — La grande via che conduce alle montagne è molto lontana, gurú?

— Non mi ricordo — rispose il sacerdote, facendo girare le dita con aria distratta.

— Fuori della pagoda sei un uomo morto.

— Quella era la mia casa.

— Ci torneresti volentieri?

— Sí, sahib.

— E se fossero giunti i banditi del rajah?

— Non oseranno attaccare un tempio.

— Lo hanno già assalito, e per poco non ci hanno presi dentro il sepolcreto.

— Intanto siamo ancora liberi — disse il gurú colla sua solita voce tranquilla e sfiatata.

Sahib, — disse il rajaputo — andiamo via di qui e senza troppo ritardare. Ora sono io che te lo dico.

Kammamuri si avvicinò al cavallo, il quale non cessava di sbuffare e di mordere il morso, tentando sempre di fuggire, e dopo averlo un po’ accarezzato gli montò sulla groppa che non aveva piú sella, perduta forse durante la sua corsa furiosa attraverso la jungla, e strinse con mani di ferro le briglie.

— Vediamo un po’ se i maharatti sanno ancora domare i cavalli! — esclamò.

— Non hai né sella, né staffe — disse il rajaputo.

— Non importa.

— E dove vuoi andare, sahib?

— Lascerò che il cavallo galoppi in cerca del suo padrone. Voi rimanete qui, e non movetevi finché non torno.

Sahib, il cavallo è robusto e può benissimo portare due persone. Lascia che monti anch’io dietro di te.

— Sei troppo pesante. Preferisco Timul, anche perché è un cercatore di piste.

— Gli darò il mio tarwar.

— No, conservalo. Ho la carabina io e parecchie palle da sparare. Tu puoi averne bisogno durante la nostra assenza.

— Sta’ in guardia, sahib: non fidarti di quella bestia stregata.

— Avrà da fare colle mie ginocchia. Sali, Timul.

Il giovane cercatore di piste con un balzo fu dietro al maharatto.

Il cavallo fece uno scarto terribile e tentò di slanciarsi a corsa vertiginosa, ma fu subito trattenuto. Il rajaputo era subito accorso e l’aveva preso per le narici stringendogliele fortemente.

— Lascia andare ora — disse Kammamuri raccogliendo le briglie. — Vediamo se saprà portarci dal suo padrone.

Il trottatore fece un secondo scarto tentando di sbarazzarsi dei due uomini, poi partí come una saetta. Saltava tronchi d’albero, passava in piena volata attraverso ai cespugli, mandando dei sonori nitriti.

— Questa bestia ha l’argento vivo addosso — disse Timul, il quale si teneva bene stretto al maharatto. — Ci porterà molto lontani in pochi minuti.

— Odi?

— Sí, ancora il richiamo.

— Questa volta troveremo quel bandito e lo finiremo.

Il cavallo galoppava sempre piú furiosamente, colle nari aperte, la bocca piena di schiuma sanguigna, mandando di quando in quando dei nitriti soffocati.

Kammamuri lo lasciava correre, ma non gli allentava le briglie. Le sue ginocchia poi stringevano fortemente comprimendo i fianchi dell’indiavolato trottatore.

— Questa bestia finirà per accopparci — disse Timul.

— No: si sente troppo bene guidata e comincia già a cedere.

Infatti il trottatore non s’impennava piú, né tentava di fare dei bruschi scarti o qualche pericoloso salto di montone.

Per dieci o quindici minuti i due uomini galopparono attraverso la jungla che era sempre tenebrosa, poi il cavallo si arrestò di colpo presso un gruppo di foltissimi bambú e cominciò a nitrire.

— Il bandito non dev’essere lontano — disse Kammamuri. — Si è bene imboscato. Mi stupisco che la tigre, la quale è passata di qui, lo abbia risparmiato.

— Quella bâgh voleva assaggiare le nostre carni, sahib, — disse Timul. — Devo scendere?

— Non ancora: vediamo che cosa fa questa bestia ora che pare vicina al suo padrone.

Il cavallo non si muoveva. Mandava dei deboli nitriti, quasi dolci, e volgeva gli orecchi per raccogliere i piú lievi rumori, ma la jungla era tornata silenziosa.

Solamente in alto squillavano i grossi pipistrelli chiamati anche volpi volanti.

Sahib, — disse il giovane cercatore di piste — vuoi darmi la tua carabina?

— Tu vorresti andare in cerca del bandito, ma bada: io sospetto che abbia qualche arma da fuoco. Non hai udito due colpi di pistola?

— Non mi sono sfuggiti, sahib. Puoi trattenere il cavallo per qualche po’?

— Il morso è d’acciaio e le briglie sono fortissime — rispose Kammamuri. — Non mi scapperà di certo.

— Non ti domando che cinque minuti.

— E se il bandito non fosse solo? Qualche altro cavaliere del rajah può averlo raggiunto.

— Non mi lascerò sorprendere — rispose il coraggioso giovane, prendendo la carabina che Kammamuri gli porgeva.

— Fa’ presto. Temo sempre qualche nuova comparsa dei cavalieri del rajah. Possono avere anche loro qualche abile cercatore di piste.

— Tieni ben fermo il cavallo, sahib; io non faccio che una corsa.

Saltò a terra, armò la carabina, ascoltò un momento, poi disparve entro i bambú giganti, sotto i quali doveva essersi rifugiato il bandito, che già due volte la morte aveva risparmiato.

Kammamuri teneva con forte mano le redini e stringeva le ginocchia piú che poteva contro i fianchi sempre pulsanti del trottatore.

Passarono piú di cinque minuti, poi sotto i bambú si udirono rimbombare due colpi di pistola.

— Che abbiano ucciso quel bravo ragazzo? — si chiese con angoscia il vecchio cacciatore della Jungla nera.

Trascorso un altro minuto, fu la carabina che fece udire la sua voce ben piú poderosa di quella delle pistole.

Il cavallo aveva tentato di fuggire verso la macchia, ma dovette novamente arrendersi. L’aveva da fare con un cavaliere esperto come tutti i maharatti, che forniscono ai rajah la migliore cavalleria.

Con uno strappo violento lo fece retrocedere, poi con una possente stretta delle ginocchia lo costrinse quasi ad inginocchiarsi.

In quel momento Timul comparve agitando la carabina ancora fumante. In un baleno raggiunse Kammamuri e gli disse:

Sahib, fuggiamo!

— Hai scovato il bandito?

— Sí, e spero di averlo ferito.

— Dovevi ucciderlo.

— Non potevo ben distinguerlo. Io ho fatto ciò che ho potuto.

— Quella canaglia ha sparato contro di te?

— Sí, due colpi di pistola senza prendermi, almeno credo.

— È scappato poi quel briccone?

— È sparito in mezzo ai bambú. Bada, sahib, ti avverto che ho udito il galoppo di numerosi cavalli avvicinarsi rapidamente.

— I banditi di Sindhia vogliono prenderci prima che noi raggiungiamo le montagne di Sadhja. Ah, la vedremo!... Monta subito e carica la carabina. A te le munizioni.

— Noi non ci lasceremo prendere da quei miserabili banditi.

— Dobbiamo e vogliamo vivere per il Maharajah e per la rhani. In cammino!