La rivincita di Yanez/Capitolo XIII - Fra le acque e le tenebre

Capitolo XIII - Fra le acque e le tenebre

../Capitolo XII - Le furie del «rajah» ../Capitolo XIV - Il cavallo del bandito IncludiIntestazione 25 luglio 2016 75% Da definire

Capitolo XIII - Fra le acque e le tenebre
Capitolo XII - Le furie del «rajah» Capitolo XIV - Il cavallo del bandito

Capitolo XIII.
Fra le acque e le tenebre.


Dei pazienti e abilissimi operai avevano scavato l’interno dell’enorme pianta la quale, se non per altezza, poteva per grossezza rivaleggiare colle oregonie della California, che sono le piante piú colossali del mondo finora conosciute.

Lo scavo era stato eseguito in modo da non danneggiare il tara, ossia senza intaccare la corteccia esterna.

Due gradinate mettevano in una vasta rotonda che altre volte doveva essere stata abitata, poiché vi erano sparsi al suolo vecchi tappeti ormai fracidi e covoni di paglia, anche quella marcita.

— Come vedi, sahib, — disse il gurú a Kammamuri — nemmeno questa volta mi sono ingannato.

— Ma chi ha scavata questa pianta? — chiese il rajaputo.

— T’ho detto che non lo so — rispose il sacerdote.

— Tu non sai mai nulla — disse il maharatto un po’ irritato.

Il gurú alzò le spalle e scese le due scalette toccando il fondo della rotonda.

Timul continuava a far luce colla sua fune incatramata, la quale disgraziatamente si consumava con una rapidità veramente spaventosa.

Il gurú fece subito il giro di quella specie di caverna legnosa, cercando qua e là, poi un grido gli sfuggí.

— piú nulla! — esclamò, facendo un gesto di disperazione. — Vi doveva essere un’altra molla che apriva una seconda porta e non l’ho trovata.

— Forse l’avevi sognato — disse Kammamuri.

— No, vi era; lo ricordo bene.

— E chi vuoi che l’abbia levata o guastata?

— Io non ho abitato sempre l’interno di questo albero — rispose il gurú. — Forse degli sconosciuti sono entrati per il passaggio sotterraneo scavato sotto la jungla e tutto hanno distrutto.

— Cercherai meglio piú tardi.

Sahib, — disse Timul — avremo luce solamente per altri dieci o quindici minuti.

— Non hai altre corde?

— Nessuna, sahib.

— Allora approfittiamo subito di questo breve tempo per cercare il passaggio.

— È inutile, sahib, — disse il gurú — tutto è stato distrutto.

— Sicché rimarremo prigionieri qui? — chiese Kammamuri.

— Vi è la porta da cui siamo entrati, e usciremo da quella parte quando saremo ben sicuri che nessun pericolo ci minaccia. Vedrai che i cavalieri del rajah torneranno qui per accertarsi se le tigri ci hanno divorati.

— Non ne dubito. Ma non verranno questa notte. Hanno troppa paura delle jungle... Hai trovato?

— Nulla, nulla! — rispose il gurú con voce quasi piangente.

— Vi saranno dei viveri qui?

— Mai piú! Mangiai qui dentro tre o quattro anni fa e non avevo portato con me che alcuni banani ed un po’ di riso.

— È una condizione quasi disperata — disse Kammamuri. — La rivincita del signor Yanez sarà ben dura. Si direbbe che tutto congiura contro di noi! E pensare che di noi egli ha tanto bisogno! Che cosa dici tu, rajaputo?

— Restiamo qui per ora. Non ci scoveranno tanto facilmente i banditi di Sindhia, se torneranno. Vorrei solamente sapere dal gurú se vi è qualche finestra.

— Mi pare — rispose il sacerdote. — Io mi ricordo che di giorno la luce entrava.

— Da finestre o da fessure?

— Ecco quello che non posso dire — rispose il sacerdote. — La mia memoria mi tradisce sempre.

— Lo sappiamo già — disse Kammamuri. — Tu sei sempre cosí.

— Sono vecchio, sahib.

Sahib, — disse il rajaputo — io vorrei proporti un gran bel colpo di testa.

— Butta fuori, mio valoroso.

— Approfittare della notte per andare a sorprendere i cavalieri del rajah e prendere loro le bestie.

— In quattro soli con tre sole armi da fuoco?

— Tu sai che le pistole che si fabbricano in India sono sempre state apprezzate anche dagli inglesi.

— Non dico il contrario. Ma siamo pochi, mio caro.

— Ed io che volevo proporti, sahib, di andare a rapire il rajah...

— Per che cosa farne dopo? Sarebbe un fastidio di piú. Giacché vi è ancora un po’ di luce, spieghiamo questi vecchi tappeti ed aspettiamo che il sole risorga. Allora decideremo.

— Sarà meglio — disse il gurú.

I tre uomini stavano per prepararsi un giaciglio piú o meno passabile, quando da una parte della rotonda si udirono improvvisamente dei rumori sospetti.

— Puzzo di selvatico. Brutto segno, sahib! — esclamò il cercatore di piste.

— Tu sei un uomo veramente meraviglioso, Timul — disse il maharatto. — Possiedi anche un naso straordinario. Prepariamoci a ricevere i signori che desiderano farci una visita punto desiderata.

Timul aveva appena pronunciato quelle parole, che un largo pezzo di parete si rovesciò dentro l’enorme tara.

Pareva che una porta fosse stata sfondata, forse quella che doveva mettere al passaggio segreto.

Subito dopo i quattro uomini udirono dei sordi brontolii, poi agli ultimi sprazzi di luce della corda incatramata, videro una testa enorme traforata da due occhi fosforescenti.

— Leopardo? — si chiese Kammamuri, puntando risolutamente la pistola regalatagli da Kiltar. — Una tigre no di certo. Anche le bestie si sono alleate per far guerra a noi.

Intanto l’animale, che con un’ultima spinta aveva sfondata la parete, cercava di farsi avanti mostrando una bocca formidabilmente armata di denti acutissimi.

— Attenti al leopardo! — gridò Kammamuri. — Non lasciatelo avanzare.

Intanto il rajaputo si era precipitato verso l’apertura, e impugnata la pistola per la canna, urlava:

— Risparmiate le cariche!

Una belva era già entrata, e si preparava forse ad assalire quegli uomini, quando fu invece assalita dal rajaputo.

Si udirono alcuni colpi sordi, come di tremende martellate, poi un urlo lunghissimo acutissimo.

— Muori! — gridava il gigante. — Credo che tu ne abbia abbastanza ormai e senza avermi fatto consumare un granello di polvere.

— Luce, Timul! — gridò Kammamuri.

— La corda sta per finire.

— Corri qui subito.

Il giovane si slanciò avanti agitando la sua povera fiaccola.

Presso l’apertura giaceva un magnifico leopardo ridotto in uno stato spaventevole. Aveva il cranio sfondato, il naso fracassato, gli occhi pesti e non piú visibili.

— Che colpi, rajaputo! — disse il maharatto. — Tu saresti capace di uccidere anche un bufalo selvaggio.

— È morta la bestia? — chiese tranquillamente il gigante.

— Non si muove piú.

— Ha avuto il fatto suo.

— E tu nessuna ferita?

— No, sahib, nessuna. Mi sono tenuto lontano dalle unghie.

In quel momento la fiaccola di Timul si spense del tutto, ed un’oscurità densissima invase la caverna legnosa.

— Bell’occasione per i leopardi se ve ne sono ancora! — disse Kammamuri.

— Tornerò a martellare — disse il rajaputo. — Un colpo che vada a posto, e la bestia sarà fuori di combattimento.

— Tuttavia non fidiamoci, amico — disse Kammamuri. — Anzi, apriremo per bene gli occhi e gli orecchi. Ah, se ci fosse ancora un po’ di luce!... I leopardi avranno la pazienza di aspettare l’alba per darci addosso? Timul, hai piú nulla da bruciare?

Il cercatore di piste frugò e rifrugò le sue numerose tasche finché mandò un grido di trionfo.

— Ecco un’altra corda incatramata — disse — che io non ricordavo piú di avere indosso. Avremo un’ora di luce.

— Accendi subito — disse Kammamuri — e vediamo come stanno le cose. Le belve ci minacciano qui dentro, i banditi del rajah possono giungere da un momento all’altro, scoprire la molla e venire a prenderci qui caldi caldi.

Il cercatore di piste, tutto lieto di aver trovato quella seconda funicella, si affrettò ad accenderla.

Un altro vivissimo sprazzo di luce si diffuse dentro la caverna legnosa, diradando d’un tratto le fitte tenebre.

— Vediamo un po’ — disse Kammamuri. — Ecco il passaggio, ed ecco qui il leopardo tutto sanguinante, che non dà ormai piú segno di vita.

Si avvicinò all’apertura e vide un enorme pezzo di parete caduta al suolo.

— Quelle bestie devono aver lavorato molto bene di denti — disse. — Ma già si sa che le loro mascelle sono armate quasi al pari di quelle delle tigri.

Guardò la bestia, che occupava col suo corpo parte del passaggio, rialzò, aiutato dal rajaputo e da Timul, la parete sfondata, e tappò coi vecchi tappeti quanto rimaneva di vuoto.

— State zitti un momento — disse poi.

Si era gettato al suolo e si era messo in ascolto.

Una forte corrente d’aria continuava a passare attraverso le fessure, rumoreggiando stranamente dentro la caverna legnosa.

— Si direbbe che qualche torrente serpeggia attraverso questo misterioso condotto — mormorò.

Si volse verso il gurú, il quale si era seduto tranquillamente su un covone di paglia marcita e che pareva sonnecchiasse, e gli domandò:

— Da questa parte tu uscisti?

— Sí, sahib.

— Trovasti dell’acqua?

— Allora no.

— Eppure vi è un torrente che rumoreggia.

— Io non so nulla.

— Potevo fare a meno d’interrogarti. È sempre la solita risposta. Tu non sai mai nulla, gurú. Lo sappiamo che sei vecchio.

Il rajaputo si era avvicinato al maharatto, il quale ascoltava sempre con estrema intensità, e gli chiese:

— Si può andare?

— Dove?

— Fuori. Io ne ho abbastanza di questa specie di prigione, e vorrei essere già ben lontano.

— E se la luce venisse novamente a mancare? Sarà meglio che aspettiamo l’alba. Il gurú ha affermato che allora anche qui ci vedeva senza bisogno di fanali o di torce.

— Credi a quell’uomo che ignora sempre tutto? — brontolò Kammamuri, stringendo i denti.

Stava per coricarsi presso l’apertura, temendo sempre che qualche altro leopardo tentasse di irrompere nell’interno del gigantesco tara, quando Timul gridò:

— Spengo! spengo!

— Che cosa? — chiese il maharatto.

— La corda incatramata.

— Perché?

— Sento venire dei cavalli. I miei orecchi non possono ingannarsi.

— Che i banditi di Sindhia ritornino per vedere se noi siamo stati divorati?

— È probabile, sahib.

— Allora piú nessuna luce. Questo colosso potrebbe avere delle fessure.

Il giovane cercatore di piste spense rapidamente la corda mettendovi sopra un piede, poi quando le tenebre ripiombarono dentro il rifugio, tutti si misero in ascolto, in preda ad una vivissima ansietà.

— Odi, sahib? — chiese Timul dopo qualche istante.

— Sí, il galoppo di parecchi cavalli che si avvicinano — rispose Kammamuri.

— Ed anche delle grida.

— Sí, anche delle grida. Sono i banditi del rajah che vengono a fare una visita ai nostri corpi colla speranza di trovarli bene spolpati.

— Che ci prendano questa volta, sahib?

— Non siamo ancora nelle loro mani — rispose il maharatto. — Sindhia avrebbe potuto ammazzarci dentro il sepolcreto senza far correre tanto i suoi cavalieri.

Avevano tutti accostato un orecchio al suolo, e udivano distintamente il rumore prodotto da molti cavalli lanciati a corsa sfrenata.

— Sí, vengono — disse Kammamuri. — Ma non li aspettiamo qui, giacché abbiamo ancora un pezzo di corda incatramata.

— Vorreste fuggire, sahib, per il condotto segreto? — chiese il gurú.

— Vorrei tentarlo.

— E se vi sono delle acque?

— Le attraverseremo.

— Un bagno non farà male — disse il giovane cercatore di piste. — E poi siamo tutti buoni nuotatori; anche tu, gurú, non è vero?

— Nuoto come un indiano che fino dai primi anni ha sfidato le correnti sacre di non so quanti fiumi.

Il fragore dei cavalli era bruscamente cessato al piede del gigantesco vegetale.

Kammamuri ed il rajaputo si alzarono silenziosamente, piano piano si accostarono alla porta aperta dalla molla e si misero in ascolto.

La voce del capo dei banditi echeggiava alta al di fuori.

— Dove sono andati quei cani? — urlava. — Eppure li abbiamo ben legati a questa pianta!

— Le tigri li avranno portati via — rispose un altro cavalleggero.

— Ma non si vedono delle ossa qui, né brandelli di stoffa.

— Quelle bestie li avranno portati via, dentro le loro tane.

— Io vorrei peraltro essere sicuro, prima di tornare nella pagoda — rispose il comandante. — Il rajah sarebbe capace di farci tagliare la testa a tutti prima del sorgere dell’aurora.

— Venga qui lui a cercare le ossa dei fuggiaschi.

— Ora sta cenando, e si è fatto preparare un lettuccio con dei tappeti che abbiamo trovati nelle gallerie della pagoda. Non si disturberà per cosí poco.

— Allora possiamo ritornare.

— Sí, se t’incarichi tu di avvertirlo che dei prigionieri non abbiamo trovato nessuna traccia.

— Non voglio sfidare la sua collera. Io ne ho abbastanza di questa notte. Il rajah finirà col farci morire di fatica e di fame. Renda la corona al Maharajah ed alla rhani, e ci lasci un po’ tranquilli. Già, tanto la partita è perduta: il colera distrugge senza rimedio un gran numero di uomini; poi ci sono quei demoni scatenati venuti dai lontani paesi con armi cosí micidiali che decimano le colonne in un batter d’occhio.

— E tu vorresti andartene?

— Ho fame e sonno anch’io, capo — rispose il cavalleggero che fino allora aveva parlato.

— Io invece non ancora.

— Vuoi cacciarti nella jungla ed aprire il ventre delle tigri per vedere se i fuggiaschi sono stati trangugiati?

— Non sarò cosí stupido! — rispose il capo. — C’è troppa oscurità, e noi non abbiamo un fanale.

Successe un breve silenzio, poi i cavalli, che dovevano essere parecchi, tornarono a scalpitare ed a nitrire.

Il rajaputo si era accostato a tentoni al maharatto, il quale ascoltava sempre.

— Se ne vanno? — gli chiese.

— Non ancora — rispose Kammamuri.

— Parlano sempre dinanzi alla pianta? Che cosa aspettano? Noi forse che saltiamo fuori colle pistole?

— Noi non commetteremo una cosí grossa sciocchezza! Ci conviene rimaner qui ed aspettare.

— Che entrino e ci uccidano tutti?

— Se avessero scoperta la porta, sarebbero già qui. Pare invece che non sappiano quale decisione prendere.

— Ascolta bene! — disse il gigante che si era appoggiato contro la porta, la quale già tentennava. — Parlano di dare fuoco all’albero e di cremarci.

— Ma noi non ci lasceremo certamente arrostire — rispose Kammamuri. — Queste piante sono molto ricche di resina, e bruciano come torce a vento.

Il capo ed i suoi uomini avevano ripresa la conversazione.

— Io ho udito raccontare di grosse piante scavate — diceva il primo. — Chi sa che gli uomini che cerchiamo non siano lí dentro invece che nelle budella delle tigri?

— Ho questo dubbio anch’io — rispondeva un’altra voce.

— Anche tu, Kimal?

— Sí, capo — rispose l’individuo che doveva portare quel nome.

— La scomparsa di quegli uomini è troppo misteriosa.

— Li avevamo legati ben bene, e da sé soli non potevano liberarsi dai lacci.

— Che qualcuno li abbia aiutati?

— Quel bramino veramente mi è persona sospetta...

— È il segretario del rajah.

— Che cosa importa? Dei traditori se ne trovano dappertutto. Prova a picchiare col calcio della carabina contro il tronco di questo enorme albero.

Un gran colpo risonò seguito da parecchie grida di trionfo.

— Ah! — esclamò il capo colla sua voce tagliente. — Ha risonato come una botte vuota. Andate a fare raccolta di legna e tentiamo di mandare in fiamme questo tara gigante.

Kammamuri, a cui non era sfuggita una parola, trovandosi proprio dietro il pezzo di corteccia che la molla aveva fatto sollevare, si alzò rapidamente.

— Stanno per arrostirci — disse al rajaputo che lo seguiva come un’ombra.

— Ho udito anch’io, sahib — rispose il gigante. — Che cosa decidi?

— Di fuggire e senza ritardo.

— Per quel passaggio, che ha servito al leopardo per giungere fino a noi?

— Non abbiamo altra ritirata.

— Ma tu hai detto che hai udito delle acque scrosciare.

— È vero — rispose il maharatto.

— Che ci sia qualche fiume sotterraneo?

— Se c’è, non ci farà paura. Meglio l’acqua che il fuoco.

Fuori i banditi continuavano a picchiare coi calci delle carabine contro la pianta, per accertarsi meglio se era vuota. Disgraziatamente il suono sempre eguale, rivelava la cavità del tronco.

— È tempo di filare — disse Kammamuri al rajaputo. — Finiranno col trovare anche la porta e sfondarla.

— Se non preferiranno cucinarci — rispose il gigante.

— Ragione di piú per sgombrare subito. Quest’asilo è ormai diventato troppo pericoloso.

Retrocessero verso la rotonda, cercando di non fare il minimo rumore, e urtarono contro Timul ed il gurú i quali, assai inquieti, stavano per muoversi.

— Dunque? — chiese il sacerdote.

— Siamo presi! — rispose Kammamuri. — Siamo stati scoperti, bisogna fuggire e presto, poiché quelle canaglie minacciano di bruciare il tara. Chi resisterebbe qui dentro?

— Nessuno — disse Timul.

— Quanto può durare ancora la tua corda?

— Ben poco, sahib: ne abbiamo già consumata assai.

— Accendi, e vediamo dove va a finire quel passaggio.

— Non scorgeranno la luce dal di fuori?

— La porta non è stata ancora aperta.

— Vi possono essere delle fessure.

— Già, sono convinti che noi siamo qui. Gurú, lascia da parte la tua eterna vecchiaia, e guidaci.

— Io farò quello che potrò, sahib — rispose il sacerdote.

La corda fu accesa ed i quattro uomini si slanciarono là dove si trovava ancora il cadavere del leopardo.

Lo rimossero e si cacciarono nel passaggio rombante d’acque scorrenti.

Timul agitava la sua meschina torcia per far lume ai compagni.

Si era messo alla testa, comprendendo che il gurú a nulla avrebbe servito, né come guida, perché non si ricordava mai di nulla, né come un uomo pronto ad aiutare, perché era troppo vecchio.

— Presto! Presto! — diceva Kammamuri, il quale conservava sempre un sangue freddo ed una calma ammirabili. — Mi pare già di sentire puzzo di fumo.

— Anche a me — disse il rajaputo, sostenendo il povero sacerdote, il quale pareva fosse completamente esaurito.

Alla base del gigantesco vegetale si apriva nella massa legnosa una specie di budello, sufficiente al passaggio di una persona.

— Chi l’avrà aperta questa via? — si chiese Kammamuri. — Certamente gli stessi uomini che hanno scavata la rotonda. Già tu, gurú, non saprai nulla.

— Io allora ero nella pagoda di Tsama, che è molto lontana di qui — rispose il sacerdote colla sua voce sempre monotona e misurata.

— Ti pare di sentire odore di fumo?

— Qualche cosa deve bruciare non lontano da noi.

— Almeno il naso lo hai ancora buono! — disse il maharatto ironicamente.

Tutti si erano spinti innanzi, temendo che da un momento all’altro il tara si trasformasse in una fiaccola spaventosa.

Un acre odore di fumo un po’ resinoso continuava a diffondersi, provocando fra i fuggiaschi dei violentissimi colpi di tosse.

Le radici dell’enorme vegetale erano finite, sicché la marcia era diventata rapidissima.

Il fondo di quel fiume sotterraneo d’altronde non aveva che una lieve pendenza ed era costituito da tutti i detriti della vicina jungla.

Trascorsero cinque minuti angosciosi, poi la corda di Timul si spense bruscamente.

— È finita — disse il povero giovane. — Addio luce!

— La nostra situazione veramente è poco allegra — disse il maharatto — ma non siamo ancora morti. Ah, se avessimo potuto portare con noi la grossa lanterna di marina!... Anche quella ci hanno presa quei dannati banditi!

— Tenete alte le pistole — disse in quel momento il rajaputo. — L’acqua tende ad aumentare.

— Ancora? — chiese Kammamuri.

— Sí, sahib.

— Com’è il fondo?

— Sempre buono, quantunque assai limaccioso:

Si erano presi per mano, perché il deviare di qualcuno, fra quella profonda oscurità, sarebbe stata una vera sentenza di morte.

L’acqua intanto aumentava sempre. Già giungeva fin quasi al petto dei fuggiaschi, ed era un’acqua freddissima che dava dei brividi.

Sempre tenendosi per mano, continuarono la terribile marcia fra le tenebre, e dopo un certo tempo si udí Timul, che stava in testa al piccolo drappello, esclamare:

— Vedo un’apertura.

— Dinanzi a noi? — chiese Kammamuri.

— Sí, sahib, e molto ampia.

— Le acque si precipitano verso quella?

— Non mi pare; anzi il fondo si alza rapidamente. Io sono immerso solamente fino alle ginocchia, mentre poco fa correvo il pericolo di annegare.

— Hai bagnata la pistola?

— No: mi è troppo cara. Ci sarà preziosa nella jungla.

— Ma tu credi che noi sboccheremo in mezzo al regno delle tigri?

— Io so che possiamo uscire, e posso dirti che non si sente piú odore di fumo. Dobbiamo essere già ben lontani dal piede del tara.

— Che qualche divinità ci abbia protetti?

— Lo credo — rispose il gurú che si tenera stretto fortemente al rajaputo temendo di rimanere indietro.

— Alto! — comandò in quel momento Timul. — La terribile prova è finita. Anche questa volta la dea della morte non ci ha voluti!