La rivincita di Yanez/Capitolo XV - L'assalto dei coccodrilli
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Capitolo XV.
L’assalto dei coccodrilli.
Non albeggiava ancora, ma l’oscurità non era piú cosí densa come prima sulla grande jungla.
Strisce di fuoco, che annunciavano l’imminente comparsa del grande astro, s’irradiavano per il cielo in varie direzioni allungandosi sempre piú rapidamente.
Gli uccelli cominciavano a svegliarsi. Calavano a stormi presso la piccola radura o pigolando o cantando sonoramente. Erano per lo piú dei brutti marabú neri, degli aiutanti, dei pavoni scintillanti di colori e di sprazzi d’oro con gigantesche code.
Calavano anche stormi di grossi pappagalli, i quali appena toccato il suolo si mettevano a ciangottare rumorosamente.
Gli sciacalli invece tacevano. Fuggivano dinanzi a quell’onda di luce che stava per piombare sulla terra e si rifugiavano frettolosamente nei loro covi.
Il minuscolo drappello si era messo in marcia animosamente.
Lo precedeva il giovane cercatore di piste, poi veniva il rajaputo, che conduceva il cavallo montato dal sacerdote, e ultimo Kammamuri. Era questi l’unico uomo che potesse ancora sparare un colpo di fuoco. Come si sa, il bramino aveva regalate le pistole, ma si era dimenticate le munizioni adatte a quelle armi.
— Ora ci affidiamo a te, gurú, — disse Kammamuri, dopo aver attraversata la macchia. — Ci hai detto che tu conoscevi questi luoghi.
— Ci venni una volta infatti col mio compagno — rispose il sacerdote.
In quell’istante lo stallone fece un balzo terribile che per poco non gettò a terra il gurú, e tentò di fuggire dalle mani d’acciaio del gigante.
Kammamuri aveva puntata risolutamente la carabina mormorando:
— O uomo o belva, qualcuno cadrà. Sento una voglia furiosa di sparare.
— Sahib, — disse il giovane cercatore di piste abbassandogli la canna — pensa che vi sono dei banditi che ci cercano, e che udendo la detonazione, non tarderebbero a giungere.
— Timul ha ragione — disse il rajaputo trattenendo a stento lo stallone, il quale faceva sforzi disperati per liberarsi e fuggire. — La detonazione li guiderebbe.
— Lo so anch’io — disse Kammamuri stringendo i denti per l’ira. — Gurú!
— Che cosa vuoi, sahib? — chiese il sacerdote, il quale ad ogni momento correva il pericolo di venire scavalcato.
— È lontana quella torre?
— Non credo.
— Sai davvero guidarci?
— Lo spero.
— O ci condurrai invece in mezzo a qualche jungla popolata di tigri?
— È piú probabile — disse il rajaputo con accento ironico. — Di quest’uomo non c’è da fidarsi.
Il gurú chiuse e socchiuse parecchie volte gli occhi, poi disse sempre con voce monotona:
— Io vedo già la torre.
— In cielo? — chiese Kammamuri.
— Aspetta un momento che mi orizzonti. Ah!... Ci sono!
— Finalmente! — esclamarono il maharatto, il rajaputo ed il giovane cercatore di piste.
— Sí, mi sento di condurvi a quel rifugio — disse il gurú.
— Ti è tornata la memoria? — chiese Kammamuri sempre ironico.
— Pare di sí. Io ho dormito, e per me il sonno è tutto.
— Ma quanti anni hai?
— Non lo so.
— Giovane non sei piú di certo.
— Pare anche a me — rispose il sacerdote. — Mi stanco facilmente e sento un desiderio immenso di dormire.
— È il sonno che preannunzia la morte — disse Kammamuri spietatamente.
Il gurú alzò le spalle, socchiuse ancora gli occhi, poi rispose:
— La morte a noi sacerdoti non fa paura, poiché siamo certi di andare a godere le letizie del nirvana.
— Speriamo di andarci anche noi in quel luogo delizioso, dove si raccolgono anche le anime dei guerrieri oltre quelle dei sacerdoti — disse Kammamuri.
— Dio sa quanti peccati avete commesso!
— Molti; ma tu che sei un uomo di religione, che rappresenti in terra la divinità, ci assolverai di tutti, spero.
— Vedremo — rispose il gurú asciuttamente.
In quel momento il cavallo fece uno scatto violentissimo, e per poco non sfuggí alle robuste mani del rajaputo.
Il povero gurú, sbalzato di colpo, era andato a cadere nelle braccia di Timul, che si aspettava quella caduta, ed era stato lesto a rimetterlo in piedi.
— Niente di rotto, gurú? — chiese il giovane. — Nemmeno una costola?
— Siva protegge i suoi sacerdoti.
— Meno male! — disse Kammamuri accorso in aiuto del rajaputo, il quale lottava fieramente contro il terribile stallone che non cessava d’inalberarsi e di sparare calci.
— Come stai ora, gurú? — chiese il giovane cercatore di piste con una voce un po’ beffarda.
— Benissimo: mi pare di essere caduto, non sulla terra, ma sul tappeto celeste di qualche divinità.
— Fortunato mortale! A me ciò non succederà mai. Mi spaccherò la testa o mi romperò qualche costola.
Lo stallone continuava a lottare contro il rajaputo ed il maharatto tentando perfino di morderli.
— Ah, pessima bestia! — urlò il gigante furibondo. — Si domano le tigri e anche gli elefanti, e tu che non hai che le zampe per difenderti, vorresti rivoltarti a me?
Aveva alzato il formidabile pugno, e stava per lasciarlo cadere con tutta la forza, risoluto a sbarazzarsi di quel pessimo cavallo, ma Kammamuri fu pronto ad intervenire gridando:
— No, amico! È ancora troppo prezioso per quanto sia caparbio. Ci farà sempre comodo.
— Io l’avrei ucciso — disse il gigante, dando allo stallone una furiosa strappata, che gli fece sanguinare la bocca. — Noi non ne ricaveremo nessun vantaggio finché il suo padrone non sarà morto; e finora le prove che sia partito per l’altro mondo non le abbiamo.
— Chi sa che qualche bestia non lo abbia divorato. Timul assicura di averlo ferito.
— Sí, sahib — disse il giovane cercatore di piste. — Dopo che gli ho sparato addosso la carabina, il bandito è scappato, ma mi è parso che zoppicasse. Anzi, urlava forte, il malandrino!
— Lo finirò io! — disse il rajaputo stringendo i denti. — Quell’uomo è condannato.
— Va’ dunque a cercarlo — disse Kammamuri.
— Non so chi mi tenga...
— Io! Io che comando come se fossi il Maharajah.
— Obbedisco, sahib, — rispose il gigante — ma io non sarò tranquillo, finché saranno vivi questo cavallo ed il suo padrone.
Il gurú che si era rimesso in arcione, aiutato da Timul, disse in quel momento:
— Odor di selvatico! E dinanzi a noi!
— Noi siamo qui pronti a difenderti e a difenderci — disse il maharatto. — Anch’io ho fiutato un odore a me ben noto. È il profumo di una bestia che è avida della carne umana. Vi è insomma un altro mangiatore di uomini. Si mostri, e cadrà come l’altro.
— Si può andare? — chiese il rajaputo. — Vorrei trovarmi dentro la famosa torre, dove il sacerdote ha promesso di condurci.
— Tieni sempre forte il cavallo — disse Kammamuri. — Non lasciarlo fuggire, ché raggiungerebbe i banditi di Sindhia.
— Credi che ci diano sempre la caccia quei paria?
— Sí, amico. Vogliono prenderci vivi.
— Ah, la vedremo! — disse il gigante con rabbia. — Li accopperò tutti a pugni.
— Bada che hanno delle armi da fuoco.
— Huf! Delle semplici pistole forse.
— Che qualche volta ammazzano anche un gigante. Lascia quindi in pace i banditi di Sindhia per ora. Piú tardi alla mia carabina faremo fare dei miracoli, se si presenterà l’occasione. Su, andiamo.
Il rajaputo e Kammamuri afferrarono per le briglie lo stallone intrattabile e lo costrinsero ad andare avanti.
S’impennava di quando in quando la bestia selvaggia, ma un pugno del gigante lo calmava subito.
Il gurú sorrideva stupidamente e si lasciava condurre, quantunque corresse sempre il pericolo di rompersi il nodo del collo.
Cominciava a fare assai caldo. Una vera pioggia di fuoco cadeva già sulla jungla, sollevando nuvolette di nebbia, che il vento via via disperdeva.
Cantavano le gigantesche cicale mandando fischi acutissimi.
Meravigliose farfalle, colle ali azzurre o giallastre, scintillanti, calavano dall’alto, succhiavano un fiore e poi fuggivano dentro le nuvolette di nebbia.
Di quando in quando in qualche stagno si udiva rombare il nitrito antipatico del coccodrillo delle jungle, bestia terribile, che può con un colpo delle sue gigantesche mascelle, armate di denti acutissimi di forma triangolare come quelli dei pesci-cani, tagliare una gamba ad un uomo.
Kammamuri era passato all’avanguardia, essendo il solo uomo che potesse arrestare od atterrare una belva, ma Timul si era affrettato a raggiungerlo.
Il rajaputo intanto badava al cavallo, il quale di quando in quando, piú ostinato che mai, tentava di ribellarsi, con grande disagio e spavento del povero gurú.
Per un paio d’ore il minuscolo drappello si avanzò fra bambú immensi e bassure umide e fangose, che avevano un brutto colore verdastro, poi Kammamuri disse:
— Vi è molta acqua qui. Dove siamo, gurú?
— Nella jungla — rispose il sacerdote.
— Hai veduto degli stagni da queste parti?
— Sí, sahib, ed assai pericolosi, perché hanno il fondo traditore. Un giorno salvai il mio compagno per vero miracolo.
Kammamuri si era fermato. Aveva attraversato un enorme gruppo di canne, intrecciate con calamus ed altre piante parassite, ed era giunto dinanzi ad una lingua di terra piuttosto boscosa, la quale si stendeva fra delle acque morte.
Si volse verso il gurú, e gli domandò:
— Potremo noi raggiungere la tua famosa torre, o, per lo meno, la gran via della montagna?
— Sí, sahib.
— Ed i coccodrilli non ci daranno addosso?
— Non sono poi tanto cattivi — rispose il sacerdote. — Io ho attraversato col mio compagno diverse volte queste paludi e, come vedi, non mi manca nemmeno un dito.
— E dove andremo a finire noi?
— So dove ci troviamo, sahib, — disse il gurú, il quale stava abbastanza bene sui larghi fianchi dello stallone che il rajaputo teneva sempre bene stretto.
— Possiamo inoltrarci su questa lingua di terra? — chiese Kammamuri.
— Sí, sahib.
— La memoria non ti tradirà?
— No; io traversai col mio compagno, molti anni fa, queste paludi.
— Molti anni fa? Allora siamo sicuri di andare diritti a quella famosa torre che io intanto non vedo spuntare da nessuna parte. E tu, rajaputo, la scorgi?
— Io non vedo altro che dei bambú giganti — rispose l’uomo forte. — Proviamo, sahib: è meglio che fuggiamo attraverso queste paludi. I banditi di Sindhia, se è vero che ci danno ancora la caccia, avranno cattivo giuoco con noi. I loro cavalli non serviranno a nulla, se ci vorranno assalire.
Era mezzo giorno. Una pioggia di fuoco cadeva su quei bacini fangosi, sprigionando miasmi pestiferi.
La nebbia, apportatrice di febbre e forse anche di colera, si alzava a ondate, attraversata da immense file di uccelli acquatici dalle ali gigantesche.
Kammamuri prese subito il suo partito.
— Per una volta possiamo fidarci del gurú — disse. — Quella torre ora io non la vedo, ma speriamo che presto comparisca sull’orizzonte.
Il minuscolo drappello lasciò la macchia e dopo avere attraversato dei brutti e puzzolenti pantani, raggiunse la lingua di terra.
Era una penisola abbastanza lunga, coperta di bambú e di piante acquatiche, piuttosto elevata sulle acque morte di quei putridi stagni.
Tagliava un vastissimo bacino, pieno di acque plumbee dai riflessi azzurrastri e di brutto aspetto.
Bestiacce nerastre di quando in quando montavano a galla, si scaldavano un po’ al sole, poi filavano verso l’argine. Ingigantivano a vista d’occhio, e mostravano code mostruose e mascelle terribilmente armate.
Kammamuri si era fermato aggrottando la fronte.
— Come andremo a finire con quei mostri che giungono a dozzine e dozzine, pronti a gettarsi su di noi? Ehi, rajaputo, tieni ben fermo il cavallo.
— Non mi sfuggirà, sahib, — rispose il gigante.
— Credi che potremo passare?
— Domandalo al gurú.
— Io ed il mio compagno attraversammo molte volte questa laguna senza perdere le gambe — disse il sacerdote.
— Questione di fortuna! — osservò il maharatto. — E poi voi eravate ben protetti da Visnú e da altri dèi ancora.
— Certamente.
— Invoca anche su di noi la loro protezione.
— Non mancherò di farlo sahib.
I quattro uomini continuarono ad avanzarsi sempre in mezzo a terreni umidi e dopo un paio d’ore giungevano sulle rive d’un canale, largo una decina di metri, nel cui fondo fangoso si dibattevano parecchie dozzine di coccodrilli, dal corpo gigantesco e dai musi quasi quadrati e formidabilmente armati di denti.
— Ehi, gurú, — disse Kammamuri — avete attraversato anche questo canale senza perdere le gambe?
— Abbiamo raggiunto felicemente l’altra riva — rispose il sacerdote — e senza sparare un colpo di carabina.
— Appartenevano forse quei rettili ad un’altra razza meno feroce?
— Ah, io non lo so, sahib.
— Solita risposta — disse Timul.
— Tentiamo il passaggio, rajaputo? Il fondo non sembra pessimo, ma misura prima l’altezza dell’acqua un po’ piú avanti di noi.
— Subito, sahib, — rispose il gigante, abbattendo con pochi colpi di tarwar un altissimo bambú.
Si avanzò nell’acqua scandagliando, niente spaventato dalla presenza dei coccodrilli, i quali in quel momento non minacciavano nessun attacco, quantunque non cessassero di mostrare i loro lunghi denti giallastri e di agitare le code, e si avanzò nel canale una mezza dozzina di metri, immergendo la lunghissima pertica.
— Fondo buono anche per il cavallo — disse. — L’acqua ci giungerà ai fianchi, almeno fin là dove ho scandagliato io.
Kammamuri era diventato assai preoccupato e guardava verso i terreni inondati, sui quali si erano radunati altri rettili, pronti a tagliare la ritirata ai fuggiaschi.
— Siamo ormai costretti ad andare avanti — disse al rajaputo, che lo interrogava con lo sguardo. — Se torniamo indietro, dovremo subire chi sa quale spaventoso assalto. Abbiamo piú coccodrilli dietro di noi che dinanzi.
— E poi, sahib, non dimenticare che i banditi del rajah ci danno la caccia, e che forse hanno scoperte le nostre tracce. Cerchiamo quella torre che il gurú afferma non trovarsi lontana.
Il maharatto scosse la testa e disse:
— Se la memoria non l’ha ingannato. Tuttavia andiamo avanti a qualunque costo, per raggiungere la gran via delle montagne.
Fece salire sullo stallone il gurú, armò la carabina ed entrò nell’acqua prima di tutti guardandosi bene d’intorno.
Non aveva percorsi dieci passi, quando i sauriani, che fino allora, come abbiamo detto, si erano mantenuti tranquilli, si misero a nuotare velocemente muggendo come tori.
— Presto! presto! correte! — gridò. — Le nostre gambe sono in pericolo.
I suoi tre compagni si precipitarono nel canale, avendo ben compreso che un ritardo di qualche minuto sarebbe forse stato fatale.
Il rajaputo teneva fortemente lo stallone, il quale, udendo i muggiti dei rettili, tentava di fuggire e di sbarazzarsi del sacerdote. Continuava ad inalberarsi, sferrava calci formidabili, minacciando di accoppare Timul che veniva ultimo.
I terribili sauriani per alcuni minuti si contentarono di guardare i quattro uomini ed il cavallo, battendo sempre le mascelle con gran fragore, poi si lanciarono all’attacco.
Erano venti o venticinque, tutti di gran mole e bene corazzati di grosse piastre ossee, quasi impenetrabili alle palle delle migliori carabine.
Fortunatamente avevano tardato un po’ a muoversi, perciò i fuggiaschi avevano avuto il tempo di attraversare il canale e di salire frettolosamente l’argine opposto che era ingombro di bambú e di piante acquatiche.
Lo stallone con un gran salto portò il sacerdote in salvo, tentando bensí subito di fuggire, ma il rajaputo non aveva lasciate le briglie e dava dei furiosi strappi alla bestia caparbia facendole sanguinare la bocca.
Kammamuri si era collocato sull’orlo dell’argine e teneva la carabina puntata verso i sauriani, i quali non cessavano di avanzare, agitando furiosamente le loro possenti code e sollevando enormi spruzzi d’acqua fangosa.
— Sahib, — disse il rajaputo — tenta di spaventarli con un colpo di carabina. Vedi che stanno per raggiungerci.
— La mia carabina sarà impotente ad abbattere quei bestioni! — rispose Kammamuri. — Tuttavia brucerò una carica.
Mirò un vecchio coccodrillo, dalle mascelle ormai cadenti, e gli piantò in piena gola una palla.
Il sauriano rimase come sorpreso e si arrestò di colpo mandando un muggito formidabile, poi con un colpo di coda si spinse innanzi salendo audacemente l’argine.
I suoi compagni lo seguivano, pronti ad aiutarlo nella lotta e muggendo anche loro.
Il rajaputo affidò il cavallo a Timul, snudò il tarwar, e con pazza temerità si precipitò addosso all’assalitore menando colpi formidabili a destra ed a manca.
— Guardati! — gli gridò Kammamuri.
— Lascia fare a me, sahib, — rispose il gigante. — Tu intanto ricarica la carabina, perché stanno per giungere anche gli altri.
Aveva attaccato furiosamente, quasi a corpo perduto, fidando nella bontà dell’acciaio delle mezze scimitarre indiane.
Il mostro, che si era ormai issato, con un ultimo colpo di coda, sull’argine riceveva colpi spaventevoli fra le mascelle, già gorgoglianti di sangue per la ferita prodotta dal proiettile.
Tentava di spingersi innanzi e gettarsi a sua volta, e non meno risolutamente, contro l’assalitore, il quale in un baleno lo aveva persino privato degli occhi.
Stava per piombare addosso al rajaputo, quando intervenne il maharatto, il quale aveva ricaricata precipitosamente la carabina.
— Lasciami il posto! — gridò il vecchio cacciatore della Jungla nera.
Cacciò la canna dell’arma fra le mascelle sanguinanti del sauriano e sparò, facendo subito un salto indietro.
— Io credo che questa canaglia ne abbia abbastanza ora! — disse il rajaputo. — Ha inghiottito fumo, fuoco e piombo, e per ben due volte.
— Ma ci sono gli altri che stanno per circondarci! — gridò Timul, il quale faceva degli sfoghi disperati per trattenere l’indemoniato stallone.
Kammamuri gettò intorno un rapido sguardo, e mandò un grido di gioia. Dietro la prima linea di bambú aveva scorto dei grossi gruppi di palmizi tara.
— Salviamoci su quelle piante! — gridò. — Via, via! E tu, Timul, metti a terra il gurú e lascia andare quel dannato cavallo.
Il vecchio sauriano spirava sul margine della proda, ma i suoi compagni accorrevano per vendicarlo, ed avevano già preso terra cacciandosi violentemente dentro le folte piante.
Lo stallone, sentendosi libero, spiccò un gran salto, nitrí fragorosamente, poi partí come una saetta scomparendo subito.
— Che la dea Kalí e Parvati se lo portino via! — gridò Kammamuri. — Ne avevo abbastanza di quella bestiaccia!
Attraversarono a gran salti le prime linee dei bambú, raggiunsero un palmizio tara, e vi si arrampicarono lestamente, aiutandosi gli uni con gli altri.
Era tempo.
Un momento dopo quindici rettili si arrestavano al piede della pianta, e sfogavano il loro malumore con gran colpi di coda e con muggiti sempre piú acuti.
— Venite a prenderci ora — disse Kammamuri, il quale si era accomodato su un robusto ramo insieme col rajaputo. — Non siete leopardi per arrampicarvi.
— E non sono nemmeno elefanti, sahib, — disse Timul — che possano abbattere l’albero.
— Tuttavia la nostra situazione è tutt’altro che brillante — disse il rajaputo. — Quando questi ingordi bestioni si decideranno a levare l’assedio? Non abbiamo viveri e nemmeno una goccia d’acqua. Il Maharajah ci crederà già sulle montagne, mentre abbiamo ancora molto da camminare.
— Tre o quattro giorni per lo meno — disse il maharatto.
— Che resistano sempre quei terribili uomini?
— Tu non conosci le tigri della Malesia. In cento...
Si interruppe bruscamente alzando la testa e tendendo gli orecchi.
Un sonoro nitrito era echeggiato a non molta distanza, e subito i coccodrilli si erano messi in agitazione aprendosi faticosamente il passo fra tutti quei vegetali.
— Lo stallone che torna! — esclamò Kammamuri. — Che si sia già affezionato a noi?
— Ne dubito — rispose il rajaputo. — Va in cerca del suo padrone.
— Non sarà qui che lo troverà.
— Lo credo bene. Lo vedi, sahib?
— Alzati un po’ ed aggrappati al ramo superiore che è occupato da Timul e dal gurú. Ah, che strano cavallo!
— Eccolo! eccolo! — gridò in quel momento il giovane cercatore di piste. — Ha nel corpo ventiquattro kateri.
L’indemoniato stallone tornava verso il tara al piccolo galoppo. Doveva essere sfinito dopo quelle due corse furiose.
Seguiva la riva sinistra del canale; che era stata sgombrata dai coccodrilli, i quali avevano preferito la caccia agli uomini.
Kammamuri aspettò che giungesse fino a duecento cinquanta o trecento passi e sparò, mirandolo alla testa.
Il cavallo si arrestò un momento come se avesse scorto dinanzi a sé qualche grave pericolo, poi rovinò a terra stendendo le zampe deretane nelle acque del canale.
Sussultò tre o quattro volte, mandò un nitrito disperato, tentò di rialzarsi per riprendere la fuga, ma le forze lo tradirono, e ricadde agitando disperatamente la bella testa che doveva essere stata attraversata dalla palla della carabina.
— Ecco una buona cena pei coccodrilli — disse il rajaputo. — Fra un quarto d’ora saranno tutti intorno allo stallone per divorarselo e noi potremo scendere.
— Taci — disse il maharatto — e ascolta.
— Odo di nuovo il segnale del bandito. Allora quel furfante si trova vicino a noi piú di quello che credevamo — disse il rajaputo. — Ma dove si nasconde?
— Scoprirlo non sarà facile, amico, — rispose il maharatto. — Vi sono troppe piante lungo le rive del canale; ma per me è certo che il bandito ci ha quasi raggiunti.
— Come hai ammazzato il cavallo, ammazza anche il padrone. È lui che guida i cavalieri del rajah.
— È troppo furbo per lasciarsi cogliere. Sono giorni e giorni che ci segue e senza mai essersi fatto vedere, né di giorno, né di notte.
— Sí; dev’essere un gran furbo — rispose il rajaputo, e tosto aggiunse: — Ah, ah! Ecco i coccodrilli che si muovono. Si sono finalmente accorti che abbiamo procurata loro una cena abbondante.
Infatti i sauriani dopo essersi radunati ed aver tenuto nel loro linguaggio di muggiti una specie di consiglio, dopo aver dato ai quattro uomini, che si trovavano sempre bene al sicuro, un ultimo sguardo, cominciarono a dirigersi verso il luogo ove lo stallone era caduto.
— Ecco la libertà pagata una sola palla! — disse Kammamuri. — Non aspetteremo certo il loro ritorno.
— Avranno da fare un pezzo per divorare lo stallone — disse il rajaputo. — È vero che hanno mascelle da far paura e che sono sempre affamati, ma...
Un sibilo acuto gli troncò la parola.
— Un proiettile! — esclamò gettandosi lungo disteso sul grosso ramo.
In quel momento si udí la detonazione dell’arma da fuoco.
— Un colpo di carabina; è vero, sahib? — chiese il gigante.
— Sí — rispose Kammamuri.
— Allora chi ha sparato non può essere il padrone dello stallone.
— E perché?
— Non aveva che delle pistole quel bandito.
— Può essere stato raggiunto dai cavalieri del rajah e da loro nuovamente armato.
— Ragione di piú per prendere subito il largo, sahib.
— Scappiamo, giacché i signori coccodrilli sono occupati a cenare — disse Timul, il quale essendo piú in alto dominava le due rive del canale. — Si dirigono verso il cavallo.
— A terra! — gridò Kammamuri. — Se non approfittiamo di questo momento, non ci salveremo piú. Timul, aiuta il gurú.
Il rajaputo fu il primo ad abbandonare il tara. Impugnava il tarwar, e pareva furibondo.
Un coccodrillo si era nascosto in mezzo ai bambú, rinunciando alla cena cavallina per quella umana.
Il gigante senza aspettare il maharatto gli piombò addosso, e si dette a sciabolarlo furiosamente fra le mascelle.
Muggiva il rettile e vibrava terribili colpi di coda in tutte le direzioni, colla speranza di abbattere l’avversario.
Di quando in quando spiccava dei veri salti, ma Kammamuri era già a terra.
— Lascia fare a me ora, rajaputo! — gridò il vecchio cacciatore della Jungla nera.
Aveva ricaricata precipitosamente la carabina e si avanzava intrepidamente contro il mostro che vomitava sangue dalle mandibole sgangherate dai terribili colpi di tarwar.
A soli cinque passi di distanza ne prese di mira un occhio, e sparò.
Il sauriano parve dapprima non accorgersi di avere ricevuta una palla nel cervello, e continuò a dibattersi furiosamente, tentando di spingersi addosso al rajaputo. Ma tutto ad un tratto soffiò dalle nari del sangue spumeggiante, e quasi subito si allungò, scosso da tremiti fortissimi.
— Anche questo è andato! — disse Kammamuri. — Gli ho piantato una palla, quasi a bruciapelo, dentro il cervellaccio. Ed ora corriamo.
— Sí, sahib, fuggiamo subito — disse Timul, che era stato l’ultimo a lasciare il tara. — Io ho veduto dei cavalieri che cercavano di guadare un largo stagno.
— Banditi del rajah?
— Si, sahib: ci hanno raggiunti un’altra volta.
— Fortunatamente queste paludi sono coperte d’una folta vegetazione, ed i cavalli non potranno passare cosí facilmente — disse Kammamuri.
Ricaricò la carabina poi partí a passo di corsa cercando di orientarsi. Voleva raggiungere a qualunque costo la gran via che guidava alle montagne di Sadhja.
Tutti gli altri gli si erano slanciati dietro, aprendosi impetuosamente il passo fra quel caos di piante che s’intrecciavano con dei calamus immensi, lunghi anche cento e piú metri.
Il rajaputo non tardò a passare in testa al drappello. Il suo tarwar era necessario per aprirsi un passaggio, e si mise subito a sciabolare le piante con vigore indemoniato, facendo cadere perfino dei bambú grossissimi che impedivano il passo.
La jungla succedeva subito alla palude, la terribile jungla popolata di serpenti mostruosi che stritolano un uomo in meno d’un minuto, di cobra capello, di tigri, di rinoceronti, di leopardi.
— Potremo noi dirigerci? — chiese il rajaputo asciugandosi col dorso della mano il sudore che gli grondava dalla fronte e spaccando rabbiosamente un altro bambú.
— Non abbiamo Timul forse? — rispose il maharatto.
— Non mi ricordo mai di lui.
— Perché io chiacchiero poco — disse il giovane cercatore di piste sorridendo.
— E tu, gurú, sapresti condurci? — chiese il gigante al sacerdote.
— Non so... vedremo... Attraversai questa jungla moltissimi anni fa.
— Non contiamo su quell’uomo — disse Kammamuri. — Cercheremo di fare da noi.
— Io vorrei sapere se quella famosa torre lancia ancora la sua cima verso il cielo — disse il gigante.
— Le tigri non l’avranno mangiata — rispose il gurú colla sua solita calma. — Non vogliono che carne, e possibilmente carne umana.
— Lo sappiamo meglio di te.
Si erano fermati mettendosi in ascolto. In lontananza si udivano i muggiti dei coccodrilli, i quali già si erano radunati intorno allo stallone per farne una buona scorpacciata.
Ma ad un tratto fra quei muggiti risonò altissimo l’urlo dello sciacallo, quel grido che mandava il cavaliere per richiamare la sua impareggiabile cavalcatura.
Kammamuri fece un gesto d’ira, ed esclamò:
— Ah, è troppo! Quell’uomo cerca la morte, e l’avrà!