La rivincita di Yanez/Capitolo XII - Le furie del «rajah»
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Capitolo XII.
Le furie del «rajah».
L’eco delle detonazioni era appena cessato, quando Sindhia, scortato da una quarantina d’uomini benissimo armati e che portavano delle torce, osò avanzarsi nel sepolcreto.
L’ubriacone indossava una specie di mantello di seta verde con vistosi alamari e grossi bottoni d’oro.
Calzava scarpe rosse a punta rialzata, ed aveva la testa coperta da un gigantesco turbante, adorno di tre piume monumentali cosparse di brillantini.
Il suo viso pareva incartapecorito e piú oscuro che mai. Solamente i suoi occhi, sempre nerissimi, scintillavano come quelli di un cobra capello.
Mosse risolutamente verso il gigante, il quale aveva ormai gettate le armi scariche e che pareva lo sfidasse colle possenti braccia incrociate, e dopo averlo attentamente guardato, gli disse con una vera ammirazione:
— Se io avessi avuto cinquecento uomini forti e coraggiosi come te, l’Assam già da tempo sarebbe mio. Tu sei un vero guerriero che non ha paura delle carabine.
— No, Altezza — rispose il rajaputo con voce rauca.
— Tu mi piaci. Vuoi arruolarli sotto le mie bandiere?
— Io ho giurato fedeltà alla rhani e al Maharajah.
Il viso scimmiesco dell’ubriacone si contrasse tutto, mentre un lampo terribile gli accendeva gli occhi. — Il Maharajah! la rhani! — esclamò ridendo sgangheratamente.
— Ma dove sono quei signori? Nell’Assam ora comando io solo.
— Non credo — rispose il rajaputo, fissandolo intrepidamente.
— Se sono tutti morti! ...
— Forse per te, Altezza, ma non per me. Io so che il Maharajah si difende sempre insieme con le tigri della Malesia e che la rhani sta benissimo sulle montagne natie.
— Si è rifugiata fra i montanari di Sadhja; è vero?
— Credo — rispose il rajaputo.
— Tu devi saperlo.
— Quando il Maharajah la fece partire, io non ero piú presso di lui, quindi io non so precisamente ove si trovi.
— Me lo dirai, e mi dirai qualche altra cosa ancora. Il mio rivale dove ha nascosti i suoi tesori?
— Io non sono mai stato il suo tesoriere, Altezza. È inutile domandarlo a me, che sono sempre stato un uomo di guerra.
— Ci sarà qualche altro che mi risponderà meglio — disse il rajah.
— Chi? — domandò il rajaputo.
— Qui ci deve essere il famoso maharatto, quello che inspirava il Maharajah. Saprà molte cose lui.
— Lui? T’inganni, Altezza! Anche quello è sempre stato un uomo di guerra.
— Lo vedremo — rispose Sindhia con un sorriso feroce.
Si volse verso il capo del drappello e gli chiese:
— Dove sono?
— Tutti dentro quella sepoltura.
— Hai fatto benissimo.
Il rajah trasse dalla sua altissima fascia di seta, che gli stringeva il vestito, un fischietto d’oro e mandò un sibilo stridente.
Quasi subito un uomo, che doveva essere un fakiro piuttosto che un paria, entrò nel sepolcreto portando appese ad un lungo bastone due grosse ceste di vimini.
— Quanti serpenti hai? — gli chiese il rajah alzandosi bruscamente.
— Una trentina, signore.
— Tutti velenosi?
— Vi sono cobra capello, serpenti del minuto, ed anche dei bis cobra.
— Ne abbiamo abbastanza — rispose il rajah. — Vedrai che faremo uscire subito da quella tomba i prigionieri senza consumare una carica di polvere.
— E morranno tutti! — disse il rajaputo fremendo.
— Dei prigionieri non so che cosa farne — disse il rajah. — Sono troppo imbarazzanti.
— Ma qualche volta possono diventare preziosi.
— Lo so. Ma io ho troppa fretta di riconquistare il mio regno, e sono deciso di andare subito a fondo.
— Vorresti dire, Altezza?
— Distruggere subito tutti gli amici del mio rivale. In quanti siete, prima di tutti?
— In quattro, ma tutti feroci come le tigri che hanno assaggiata la carne umana. Domandalo al comandante del tuo primo drappello di cavalleria.
— Oh, sí! Terribili, gran signore! — rispose il comandante. — Non vorrei affrontarli un’altra volta.
— Ba’, voi non avete sangue nelle vene! — disse il rajah. — Io vi pago come principi e voi evitate i combattimenti. Bei soldati che ho arruolati io!
Alzò le spalle, abbassò il monumentale turbante nascondendosi quasi tutto il viso, poi rivolgendosi al rajaputo, gli disse:
— Fa’ uscire i tuoi compagni da quella tomba.
— Sono tutti legati.
— Li metteremo in libertà. Hanno armi?
— Nessuna — rispose il capo dei cavalleggeri. — Nemmeno un miserabile coltello.
— Sono curioso di vedere quel famoso uomo che chiamano il maharatto. Vedrai che quello la saprà piú lunga di te.
— Potresti ingannarti, Altezza — rispose il rajaputo, il quale faceva sforzi enormi per mantenersi relativamente tranquillo. — Ne saprà meno di me.
— Ma io lo voglio vedere. Fallo uscire, o faccio gettare dentro la tomba una cinquantina di serpenti e tutti velenosi.
— Vostra Altezza mi vedrà senza ricorrere alla violenza! — gridò in quel momento Kammamuri. — Fatemi sciogliere dalle corde e comparirò dinanzi a voi.
— Ed armi ne hai? — chiese il rajah.
— Nessuna.
— Desidero molto vederti. Tu sei un uomo famoso nella storia dei thugs e anche dell’India.
— Vedrai un uomo che vale molto meno del rajaputo.
— Non importa: voglio vederti. Sono un principe, non già un tuo servo.
— Hai un coraggioso che mi liberi dalle funi?
— Ne ho cento.
— Basto io! — disse il gigante. — Lasciate fare a me, Altezza. Tutto andrà bene senza sprecare polvere e veleni di serpenti.
Saltò agilmente nell’avello armato d’un corto tarwar datogli dal capo dei cavalleggeri, e tagliò rapidamente le funicelle che tenevano avvinto Kammamuri.
Il maharatto appena si sentí libero scattò come se avesse avuto cento molle sotto i piedi.
Con un gran salto si slanciò nel sepolcreto e comparve dinanzi al rajah, dicendo con voce un po’ ironica:
— Eccomi, Altezza. Che cosa vuoi da me?
Sindhia lo guardò attentamente, poi disse:
— Ecco un altro bell’uomo che ha compiuto già mille e mille prodigi. Fosti tu, è vero, che uccidesti il capo dei thugs durante la rivolta di Delhi?
— No, Altezza, — rispose Kammamuri. — Fu la Tigre della Malesia insieme col principe bianco che si chiama Yanez.
— Yanez? Chiamano con questo nome l’attuale Maharajah.
— È il suo.
— Vorrei sapere prima di tutto da dove vengono quei terribili uomini, poiché, devo confessarlo, essi sono quasi invincibili.
— Vengono dalla Malesia, Altezza. Ma tu lo sapevi già, perché Teotokris, il greco, te l’aveva detto.
— E perché sono venuti qui?
— Se non avessero incontrato Surama, sarebbero rimasti laggiú a combattere, ora cogl’inglesi, ora coi guerrieri del Sultano di Varauni.
— Surama! — esclamò il rajah con voce rauca. — È stata la mia sventura; ma la rhani questa volta non mi scapperà; la prenderò insieme col Maharajah e la famosa Tigre della Malesia.
Un sorriso d’incredulità spuntò sulle labbra del maharatto.
— Sterminerò tutti! — riprese a dire il pazzo, mettendosi a passeggiare furiosamente per il sepolcreto. — È ora di finirla. Quanti uomini hanno?
— Lo ignoro, Altezza. Da qualche settimana non mi trovo piú presso di loro, quindi nulla posso sapere.
— Eppure sei giunto cogli elefanti tu!
— Non lo nego; ma ho abbandonato subito il Maharajah ed i suoi amici, perché dovevo recarmi verso le montagne di Sadhja.
— A vigilare la rhani?
— Può darsi — rispose tranquillamente Kammamuri.
Il rajah stava per riaprire la bocca quando fece un salto indietro. Uno dei cavalleggeri che aveva condotto dal suo campo, era stramazzato pesantemente al suolo, a pochi passi dinanzi a lui.
Tutti erano rimasti immobili o avevano fatto un passo indietro manifestando un vivo terrore; ma quasi subito due o tre coraggiosi si precipitarono sul cavalleggero, che non dava ormai piú segno di vita, e lo portarono via correndo.
— Pare che si goda poca salute nel tuo campo! — disse il maharatto. — Quel disgraziato è morto di colera fulminante.
— Come lo sai tu? Sei un medico forse?
— No, Altezza, ma m’intendo di colera, avendo soggiornato a lungo fra i molanghi delle Sunderbunds del Gange.
— Sapresti guarire tu quella terribile malattia che decima rapidamente le mie truppe? Io ti darei una fortuna — disse il rajah.
— A che cosa mi servirebbe ormai? I miei giorni, lo so bene, sono contati, e forse è già preparato il pezzo d’artiglieria che deve scaraventare in aria il mio misero corpo.
— Forse t’inganni — disse il principe. — Io non ho l’abitudine di uccidere dei valorosi, che potrebbero servire alla mia causa.
— Vorresti dire, Altezza?
— Che se anche non sei un medico, ti arruolo insieme coi tuoi compagni.
— Io ho giurato fedeltà al Maharajah.
— Fra pochi giorni il mio rivale sarà catturato o morto.
— Chi sa!
— Credi che sia molto forte?
— Piú di quello che credi, Altezza.
— Eppure, non deve avere che un pugno d’uomini con sé.
— Ma quegli uomini si chiamano le tigri della Malesia.
— So quanto valgono quei selvaggi della lontana isola — rispose il rajah, facendo un gesto di rabbia. — Non è la prima volta che li provo. Senza di loro, il principe bianco non mi avrebbe preso il trono.
Girò tre o quattro volte su se stesso come un pazzo, poi si piantò dinanzi al maharatto e gli disse:
— Io non ho tempo da perdere: o con me, o contro di me.
— Un guerriero non può mancare alla sua parola, Altezza — rispose Kammamuri con fierezza.
— Ah, mi dimenticavo una cosa che mi preme assai. Dove ha nascoste le sue ricchezze il Maharajah.
— Lo ignoro anch’io.
— Ah, nessuno vuol parlare! — urlò il principe, schizzando fiamme dagli occhi. — Lo vedremo.
— Comanda ai tuoi uomini, Altezza, che ci fucilino tutti qui dentro. La cassa è pronta a raccogliere le nostre spoglie — disse Kammamuri.
— Sarebbe una morte troppo dolce — gridò sogghignando il principe crudele.
— Fa’ vuotare i panieri che sono pieni di serpenti.
— Non farò nemmeno questo. Io voglio sapere assolutamente dove il Maharajah ha nascoste le sue ricchezze. Mi occorrono per condurre a termine la guerra; e le casse dei miei ministri sono vuote.
— È una ostinazione inutile — rispose il maharatto. — Quando la capitale bruciava, nessuno di noi si trovava presso il principe bianco.
— L’hai incendiata tu, canaglia?
— No; sono stati i soldati del principe bianco.
— Aveva ancora tanti uomini?
— Io non li ho contati, Altezza.
— Tu non vuoi sbottonarti.
— Non posso dire quello che non so.
— Tu mi giuochi, brigante!... Su anche gli altri!
Il capo dei cavalleggeri insieme con alcuni soldati discese nell’avello e tagliò le corde ai due ultimi prigionieri.
— Chi è quell’uomo? — chiese Sindhia, fissando i suoi occhi sul gurú.
— Il guardiano del tempio — rispose il capo dei cavalleggeri.
— Ed è ancora vivo?
— Non volevo prendermi delle maledizioni, Altezza. È un peccato troppo grosso spegnere la vita di un gurú.
— Delle maledizioni io me ne rido! — disse il crudele principe. — Non ho mai avuto paura nemmeno di quelle dei bramini, che sono anche piú terribili.
— Vuoi che lo faccia fucilare, Altezza?
— Corri troppo tu, mio caro. C’è sempre tempo a morire.
— Che cosa devo fare allora? Io aspetto i tuoi ordini.
Sindhia si era messo nuovamente a passeggiare, facendo gesti di minaccia e gridando:
— Io finirò con l’aver ragione di questi quattro miserabili.
— Altezza! — gridò Kammamuri fremente. — Non sono un paria a cui si può dare del miserabile.
— Eh, sappiamo che sei un maharatto — rispose Sindhia, digrignando i denti. — L’hai finita?
— Io sí.
Il rajah si era fermato dinanzi a Kammamuri, e dopo averlo fissato intensamente co’ suoi occhietti sempre scintillanti, disse:
— Vuoi salvare la tua vita e quella dei tuoi compagni?
— Che cosa devo fare?
— Condurmi là dove il principe bianco ha nascosto i suoi tesori. Le casse dei miei ministri sono vuote, e questa campagna minaccia di diventare assai costosa.
— Ti ripeto che io non so assolutamente nulla. Io non ero il confidente del Maharajah né della rhani; e la notte che la capitale prese fuoco, io ero ormai lontano.
— Per qualche missione di premura? — chiese Sindhia colla sua solita voce ironica.
— Un maharatto non tradisce i segreti del suo signore.
— M’hai annoiato abbastanza!
— Mi rincresce, Altezza.
— Tu ti burli di me!
— Niente affatto.
— Quale morte preferisci?
— Quella dei guerrieri.
— La fucilazione?
— Ti sarei riconoscente, Altezza.
— No, no: tu non hai ancora confessato dove si trovano i tesori.
— T’ho detto che non lo so — urlò il maharatto. — Perché farmi ripetere sempre la medesima cosa?
Sindhia si avvicinò ai suoi cavalieri, e si mise a parlare animatamente a mezza voce.
Pochi momenti dopo, dieci uomini si avvicinavano ai prigionieri e li legavano di nuovo.
Nemmeno il rajaputo oppose alcuna resistenza.
— Conducili via, e gettali vivi in mezzo alla jungla, perché servano di pasto alle tigri e ai leopardi. Io ne ho abbastanza di questi uomini! — disse il rajah al capo dei cavalleggeri. — Ho ben altro da fare io. Mi preme di riconquistare il mio regno. Sbrigati. Hai capito? Fra poche ore non resterà di loro che poche ossa spolpate.
— Dovremo fare la guardia?
— E perché? Lasciali soli a districarsela con le belve.
— Con nessuna arma per difendersi?
— Diventi pazzo? Anzi li legherai per bene al tronco di qualche tamarindo o di qualche mangifera, augurerai loro la buona notte, e tornerai subito.
— Purché le belve non divorino anche me, Altezza!
— Prenditi venti uomini.
— Obbedisco, Altezza — rispose il capo. — Con venti uomini faccio fuggire anche le tigri.
— Vattene! Mi hai annoiato abbastanza. Ma dov’è il bramino?
— Kiltar?
— Sí; dev’esser giunto.
— E sono ai tuoi ordini, Altezza — rispose una voce sonora, che veniva dalla parte della pagoda.
Kammamuri aveva avuto un sussulto, ed il suo cuore si era subito aperto ad una speranza non lontana.
Quel bramino, che forse non era veramente un sacerdote, era stato salvato da Yanez, quando già lo avevano legato dinanzi alla bocca di un cannone e il carnefice aveva accesa la miccia.
Dei preziosi servigi egli aveva resi ai compagni del principe bianco, quando si trovavano nelle cloache della capitale.
Era un uomo di alta statura, magro come tutti gli indiani, che indossava un mantellone di seta gialla piú o meno scolorito.
— Quali nuove rechi dai miei accampamenti? — gli chiese Sindhia, muovendogli rapidamente incontro.
— Cattive, signore! — rispose il bramino. — Il colera infuria, ed i tuoi medici non sanno come fare ad arrestarlo.
— Farai appiccare mezza dozzina di quei furfanti che ho pagati a peso d’oro inutilmente. Non sanno dunque nemmeno che cos’è il colera?
— Forse non hanno i rimedi per combatterlo, signore.
— E il principe bianco?
— È sempre sulla collina e resiste ferocemente. Non sarà possibile cacciarlo di lassú colle forze che abbiamo.
— Tutte le divinità dell’India mi hanno dunque maledetto? — gridò Sindhia. — È troppo! Io mi vendicherò distruggendo tutte le pagode e tutte le moschee!
— Cattiva politica — disse il bramino.
— Non sta a te a giudicare.
— Tu sei infatti il padrone, e noi ti dobbiamo obbedienza assoluta.
— È cosí che voglio!
Intanto il capo dei cavalleggeri si era fatto innanzi, seguíto da una decina d’uomini armati fino ai denti.
— Altezza, — disse — aspettiamo i tuoi ordini.
— Porta via i prigionieri prima che li faccia fucilare.
— Forse sarebbe meglio — disse il capo.
— Tu sei un asino! Non occuparti dei miei affari.
— Quando quegli uomini saranno stati divorati dalle belve non potrai piú giovarti di loro, Altezza.
Il rajah alzò le spalle.
— Ci vuole una terribile lezione — disse poi. — Qui si cerca di giocarmi e da troppo lungo tempo. Via, via quelle canaglie!
Il bramino fece un ultimo tentativo per salvare i disgraziati prigionieri.
— Altezza, — disse — sono uomini troppo preziosi. Lascia che vivano.
— No! — gridò il rajah. — Sotto la mia bandiera non voglio arruolata gente di quella fatta.
— Tu sei il padrone — disse il bramino, il quale tremava dinanzi al pazzo principe, sapendo bene che egli non scherzava.
— Guida allora il capo nella jungla, e di queste canaglie non se ne parli piú.
— Ci penso io, Altezza, — disse il cavalleggero. — Conosco già i dintorni.
— Vattene! Ho sonno, fame e soprattutto molta sete. Kiltar, mi hai portato un po’ del mio liquore favorito?
— Sí, Altezza — rispose il bramino.
— Ora lasciatemi tranquillo. Ho da pensare agli affari dello Stato.
Il capo dei cavalleggeri aveva già circondato coi suoi dieci uomini i quattro prigionieri, i quali, come abbiamo detto, erano stati nuovamente legati.
— Andiamo a trovare i mangiatori d’uomini — disse. — Spero per altro di ritornare e tutto intero. Vi è ancora il ponte volante gettato attraverso il fiume. In un momento saremo sul posto.
— Vattene, noioso! — urlò Sindhia. — Ho sonno e fame.
Il capo diventò pallidissimo e disse ai suoi uomini:
— Il rajah ha parlato! Obbedite, se vi preme la vita.
Venti banditi circondarono i quattro prigionieri, e cominciarono a spingerli brutalmente verso il passaggio segreto che metteva sul ponte volante gettato attraverso il fiume limaccioso. Il capo dei cavalleggieri li guidava, e Kiltar, il bramino, li seguiva cercando di non farsi scorgere dal rajah.
Ma il principe oramai non si occupava piú di nessuno. Aveva fatto stendere parecchie coperte da cavalli su una tomba e vi si era subitamente addormentato, dopo aver tracannato una fiala piena di whisky, il suo liquore favorito.
Il drappello attraversò prima il passaggio segreto, poi il ponte, e si trovò subito sui margini della jungla.
— Dove legarli? — chiese il capo al bramino, il quale non aveva cessato di seguirli.
— Ci sono degli alberi qui — rispose Kiltar. — Io non sono il rajah.
— Farò da me.
Il rajaputo, il maharatto, il cercatore di piste ed il gurú furono trascinati verso un tara di dimensioni gigantesche, il cui tronco nemmeno cinquanta uomini in catena avrebbero potuto abbracciarlo.
— Qui — disse il capo dei cavalleggeri. — Il posto è magnifico. Le tigri ed i leopardi vi accorreranno in buon numero. Di questi uomini domani noi non troveremo nemmeno le ossa.
— Ti farà piacere! — disse il bramino con voce un po’ acre.
— Io obbedisco agli ordini del mio signore, e basta.
— Allora sbrígati.
I banditi sollevarono quasi di peso i quattro prigionieri e li legarono solidamente intorno all’enorme albero, a poca distanza l’uno dall’altro.
— Canaglie! — urlò Kammamuri. — Potevate farci fucilare!
— Il rajah non l’ha voluto — rispose il capo. — Io lo devo obbedire per salvare la mia testa.
— Siete dei briganti! — urlò il rajaputo, il quale si dibatteva disperatamente.
— No; siamo guerrieri del principe dell’Assam — rispose il capo.
I prigionieri dopo un momento furono lasciati soli, mentre la luna sorgeva, ed in lontananza gli sciacalli urlavano disperatamente.
— Ecco la nostra fine! — disse Kammamuri. — Il rajah poteva inventare un altro genere di supplizio e...
S’interruppe d’un tratto. Il bramino era improvvisamente comparso fra i folti vegetali, armato d’un corto tarwar.
— Vengo a pagare il mio debito di riconoscenza che ho verso il vostro signore — disse. — Non ho mai dimenticato che gli devo la vita.
— Kiltar! — esclamò Kammamuri — dacci delle armi.
— Non ho che tre pistole che metto a vostra disposizione, — rispose il bramino. — Il rajah è troppo crudele.
Con pochi colpi di tarwar tagliò tutti i legami dei quattro prigionieri, mise al piede dell’enorme tara le tre armi da fuoco, e fuggí rapidamente come se avesse una tigre alle spalle.
— Siamo salvi! — esclamò il gurú.
— Perché abbiamo alcune pistole? — chiese Kammamuri un po’ ironicamente. — Pròvati ad attaccare con quelle armi le regine delle jungle.
— Aspetta un po’, sahib — rispose il gurú.
Girò intorno all’enorme tronco, e finalmente si fermò dinanzi a qualche cosa che brillava ai raggi della luna.
— Abbiamo avuto una fortuna straordinaria — disse.
— Perché? — chiese Kammamuri.
— Perché quest’albero è stato scavato, ed io ho trovata la molla che ci farà aprire la porta.
— Credo che non sia questo il momento di scherzare.
— Ti dico che le tigri non ci mangeranno. Dentro questa pianta colossale mi sono rifugiato parecchie volte anch’io per fuggire bestie e banditi.
— Chiacchiera meno e agisci di piú — gli disse il maharatto.
— È fatto — rispose il gurú. — Seguitemi, giacché la luna splende.
I prigionieri s’impadronirono innanzi tutto delle pistole, sebbene fossero di ben poco valore contro le tigri, ma che tuttavia potevano essere utili in qualche difficile momento, e seguirono il gurú.
— Che cosa c’è dunque? — gli chiese Kammamuri, vedendolo fermarsi.
— Guarda, sahib, — rispose il guardiano della pagoda. — Se il capo lo avesse saputo, non ci avrebbe portati qui.
— Vedo un buco — disse Kammamuri.
— Abbastanza largo per lasciar passare anche il rajaputo. Qui vi è una porta e vi è pure una molla che per puro caso ho scoperta. Dentro questa enorme pianta nessuno ci può prendere.
— Tu sei un brav’uomo ed anche molto fortunato. Eppure non ti ricordavi dei segreti della pagoda.
— Erano troppi, sahib — rispose il gurú.
Si erano tutti radunati dinanzi all’apertura. Un pezzo di corteccia, alto qualche metro, pendeva verso il suolo, mostrando la molla misteriosa.
— Non vi saranno dei serpenti lí dentro? — chiese Kammamuri.
— Io non ce ne ho mai trovati.
— Chi ha scavato questa pianta?
— Che ne so io? Sono molto vecchio, e tutto ora non posso ricordare — rispose il gurú.
— Forse gli stessi costruttori della pagoda.
— Può darsi. Ma avrete ben altre sorprese.
— Che cosa vuoi dire?
— Che in fondo a questa pianta esiste un passaggio scavato sotto la jungla.
— E mette?
— Assai lontano. Se la memoria non m’inganna, noi sboccheremo presso la grande via che conduce alle montagne.
— Sei diventato pazzo?
— No, sahib. Una volta cinquanta banditi e forse piú, si presentarono alla pagoda per svaligiarla, colla speranza che nel sepolcreto vi fossero nascosti dei tesori, ed io ed un mio compagno ci rifugiammo qui e ci rimanemmo parecchi giorni.
— Ci vorrebbe un po’ di luce — disse il rajaputo, il quale, se non aveva paura degli uomini, si sentiva gelare tutto dinanzi ad un cobra o ad un pitone.
— Della luce? — disse in quel momento Timul. — Ho nelle mie tasche una corda incatramata che brucerà come una torcia.
— Ma hai l’occorrente per accenderla? — chiese Kammamuri, il quale avrebbe preferito il grosso fanale di marina.
— Sí, sahib, — rispose il giovane cercatore di piste.
— Accendi.
Dopo qualche istante una viva fiamma brillava dinanzi all’apertura. La corda incatramata era abbastanza grossa, e ardeva meravigliosamente.
— Come l’hai tu? — chiese Kammamuri al giovane.
— Me ne servivo per cercare le piste di notte.
— Quanto durerà?
— Ben poco, sahib.
— Entriamo dunque dentro quest’albero meraviglioso. Gurú, bada alla molla.
— So farla scattare anche per di dentro — rispose il guardiano della pagoda.
— Tu diventi un uomo assai prezioso; è vero, rajaputo?
— Pare — rispose asciuttamente il gigante.
I quattro uomini, armati delle pistole del bramino, si cacciarono destramente dentro l’apertura, la quale era tanto vasta da permettere il passaggio anche ad un uomo piú grosso del rajaputo.
Il gurú non aveva mentito. Tutto l’interno del gigantesco albero era stato, chi sa in quali tempi, pazientemente vuotato, e si vedevano anche dei gradini.
— Chiudi la fortezza — disse il maharatto al sacerdote.
La porta, formata d’un enorme pezzo di corteccia, si risollevò e tornò al suo posto.
— Come vedi, sahib, la molla agisce benissimo anche dall’interno.
— E se poi non agisse piú?
— Ti ho detto che vi è un passaggio.
— Ecco l’India misteriosa! — disse Kammamuri con un sorriso alquanto amaro.