La maestrina degli operai/XVII
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XVII.
Dopo molta esitazione, la Varetti si decise ad aspettare ancora, e ritornò alla scuola serale, il lunedì sera, un po’ turbata dentro, ma tranquilla di fuori, come se nulla fosse accaduto. Seduta appena a tavolino, essa s’accorse, senza guardare il Muroni, che questi stava in un atteggiamento in cui non l’aveva mai veduto, coi pugni appoggiati sul banco e il mento sui pugni; e le bastò, un minuto dopo, dargli uno sguardo di sfuggita, per riconoscere che aveva bevuto. Aveva daccapo il ciuffo in mezzo alla fronte, gli occhi imbambolati e sonnolenti, la cravatta scomposta, e parve alla maestra di rivedergli a traverso al velo denso dell’ebbrezza l’espressione trista e bieca dei primi giorni, come se fosse tornato al proposito di schernirla e di farle paura. Ma non fece alcun disordine quella sera, nè mutò nemmeno l’atteggiamento, ed essa non lo interrogò, nè lo fece leggere. La sera dopo venne a scuola intieramente in sè, col viso consueto, e d’allora in poi lo rivide stare attento, guardarla, ascoltarla con quell’aria d’ammirazione meditabonda e quasi cupa, ch’egli aveva mostrato prima dell’ultimo incontro sul viale. Soltanto non appariva più alcun segno d’ambizione o di vanità nella sua condotta, nè sulla sua persona: tornava a mostrare il viso e le mani poco puliti, leggeva con trascuranza, faceva il lavoro alla diavola, o non lo faceva, e pareva che desiderasse di non essere interrogato, di esser lasciato tranquillo nel suo canto, a guardarla in silenzio, come un cane da caccia. Ma questa sua contemplazione, così prolungata alle volte che egli non seguitava più sul libro la lettura degli altri, e metteva le spalle al muro, voltandosi in pieno verso destra, per meglio vederla, quando lei era dalla parte della prima sezione, finì con dar nell’occhio anche agli alunni meno osservatori. Grandi e piccoli, di tanto in tanto, se lo accennavan l’un l’altro col capo, e se ne parlavan negli orecchi. To! Era dunque proprio vero: Saltafinestra era innamorato della maestrina. Era un bel caso! Questa volta, però, l’avrebbe avuta a far con la voglia. S’aveva bell’avere il muso di Saltafinestra, ci voleva una buona dose di pretensione. Nessuno avrebbe mai pensato che quel lestofante lì, che n’aveva già fatte e provate di tutte le tinte, avrebbe dato un tuffo nella bambinaggine a quella maniera. E gli uomini pei primi gli avrebbero dato la berta, se non avesser saputo che con lui c’era da correr dei rischi. Ma i ragazzi, più maligni e meno prudenti, non si moderavano tanto. Nondimeno, grazie al timore che incuteva, non sarebbe nato nessuno scandalo, s’egli non si fosse lasciato andare a provocarlo.
Il Muroni che, nei primi giorni, aveva eccitato la classe alle risa e al disordine in odio alla maestra, vedeva male ora che altri le desse noia o le facesse offesa. Cominciò a guardare a traverso quelli che facevan del chiasso, prima quasi involontariamente, come un uomo frastornato in un pensiero fisso; poi col proposito manifesto di farli smettere, fissando l’un dopo l’altro i disturbatori. Quando costoro se ne accorsero, incoraggiandosi a poco a poco al vedersi concordi, presero a far peggio; e allora alla stizza di prima s’aggiunse in lui il risentimento dell’ingiuria a lui diretta. La cosa, per alcune sere, non passò i termini; ma poi egli s’inasprì. I disturbatori ostinati non eran che i ragazzi, ma tanto più egli si sentiva ferito nell’orgoglio, che non riusciva a farsi temere da un pugno di monelli, lui che aveva fatto tremare degli uomini. Principiò, quando s’arrischiavano a qualche monelleria più sfacciata, a dire delle impertinenze fuor dei denti, a minacciare di saldare i conti all’uscita. E proprio sul viso nessuno osava di rispondergli; ma rispondevan tutti insieme facendo la voce sorda del cane rugliante o il rantolo dei gatti che fan le fusa; il che lo metteva fuor dei gangheri. Il più accanito era il piccolo Maggia, una buona stoffa di Saltafinestra futuro, capace d’affrontare anche un uomo. Doveva essere opera sua una strofetta in dialetto, che la Varetti gli udì cantare una sera coi suoi compagni, nella quale rimavano maestra e Saltafinestra a capo di due versi che la fecero arrossire. Ella si trovava in un impiccio penoso e difficile, non potendo accettare in nessun modo nè sapendo con qual mezzo far cessare quella troppo aperta protezione di chi era in più mala fama fra i suoi scolari.
Ma c’era anche di peggio. Quella aperta passione del Muroni per lei, quella sua continua ammirazione avida e muta, venivan ravvivando negli altri, per virtù di simpatia, quella fiammella mista di sensualità e di sentimento, di cui s’era accorta dopo i primi giorni. Ella si vedeva ora, anche da vari degli uomini più seri, guardata con occhi più intenti e più arditi; indovinava dei commenti più liberi sulla sua persona; coglieva a volo delle piccole manifestazioni di gelosia, perfin sulla faccia di bronzo di quel piccolo Maggia; dal quale, passando una sera in mezzo ai banchi, le parve di sentirsi strisciar la veste con la mano. I soli che rimanessero immutabili erano il Perotti, con la sua onesta barba di buon padre di famiglia, che trattava sempre la maestra col rispetto d’un vecchio servitore; quella specie di bruto dello zio Maggia, sempre ostinato a studiare, e curvo sul banco come un animale affamato alla greppia, e il socialista Lamagna. Questi, senza dimostrare alcun ossequio alla maestra, che considerava come una compagna di officina, pareva che fosse infastidito della mala condotta dei suoi condiscepoli, e dava dei segni di disgusto alle loro escandescenze più grossolane; perchè, secondo lui, l’operaio avrebbe dovuto insegnar l’educazione ai signori, e invece di farsi disprezzare da loro con la villania, farli arrossire con la sua dignità.