La leggenda di Tristano/CCXXVIII
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CCXXVIII. —Quando lo re seppe certamente, per coloro che l’andavano a vedere, che T. s’apressimava di sua fine, allora sí ricomincia a ripentere di quello fatto, e dice a se medesimo come elli non puote essere che di quella morte non avenga grande male. E ora si ripente elli duramente, ora vorrebbe elli non avere creduto Andret; elli conosce certamente ch’elli avea ucciso lo migliore cavaliere del mondo; tutto lo mondo l’ará in ira e lo biasimerá, e li suoi uomini medesimo, che per paura di T. lo dottavano, sí l’odieranno ugiumai, e dotterannolo via meno. A ciò va pensando lo re Marco, che pietá hae di suo nipote, e, cosí si muove l’amore dela carne, ora nol vorrebbe elli unqua avere fatto. La reina che tanto duolo avea, che non disidera altro che la morte, mena suo duolo lo giorno e la notte, e di ciò non si cela in tutto dalo re. Ella vorrebbe bene che lo re l’uccidesse, sí serebbe lo suo dolore finito. E ella medesimo vede che lo re si va pentendo di ciò che ha fatto di T. Quando le novelle li sono dette che T. s’apressima sí duramente a sua fine, ch’elli non puote piú durare, al piú alto tre giorni overo quatro, ella disse: «Muoia quando elli vorá, ché certo tosto li farò compagnia. Quello giorno medesimo, se Dio mi salvi, io m’ucciderò, sí finerò lo mio dolore». Queste parole disse la reina, quando li fuoro dette novelle che T. era a sua fine; e lo re era assai piú corrucciato che non faceva sembranti.