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CCXIX. — Allora disse messer T. al figliuolo del re di Norgales: «Noi non rimaremo ora mica, imperciò che ancora non è tempo d’albergare. E perciò v’acomandiamo noi a Dio». «Siri cavaliere», disse lo figlio del re «quando è cosí che voi per mia preghiera non volete rimanere, ora prego [p. 275 modifica] io voi quanto piú posso pregare, che voi mi diciate vostro nome». «Siri, ciò non farò io ora, salva vostra grazia» disse messer T. «Certo» disse lo cavaliere «di ciò mi pesa molto duramente. Ma ora mi dite: ove credete albergare istasera?». «Certo io non so» disse messer T.; «noi albergheremo lá ove a Dio piacerá». Allora se ne va oltra elli e messer Estor, che a grande pena cavalca, sí si sente forte innaverato. E dimanda messer T.: «Siri, fuste voi mai nel reame di Norgales?». «Sí bene» disse messer T. «altre volte ci sono stato, sí veramente, che ora che noi c’eravamo non [mi] riconosceva. Ma ora mi riconosco bene e so bene lá ove noi siamo». E quando furo cavalcati una grande pezza, messer T. disse a messer Estor: «Io so bene che qua dinanzi dimora una gentile dama, la quale onora di tutto suo podere li cavalieri erranti. Se noi saremo lá ista[se]ra, io so certo ch’ella ci fará onore e servigio a tutto suo podere. Andiamo a quell’ostello, ove noi saremo tosto, ciò m’è aviso, ché noi ne siamo alquanto apresso». «Siri» disse messer Estor «voi che sapete la via, andate avanti, e io vi vero apresso». «Volentieri» disse messer T.