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96 la giovinezza

la mia infinita erudizione, attinta ai testi di lingua, di ciascuna parola dicevo i derivati e i composti, i sensi antichi e nuovi, le simiglianze e le differenze, tanto che mi chiamavano «il dizionario vivente». Talora la lettura non era che di un periodo solo, e prendeva una buona ora, e non la finivo più, e mi ci scaldavo io, e ci si scaldavano gli altri. E quando, riscossomi e cavato Toriuolo, vedevo l’ora e facevo la faccia attonita, quei cari giovani mi sorridevano dicendo: — Professore, quando vi ci mettete!... — Il fatto è che in quella scuola non si sentiva la noia, perché dicevo cose novissime con un calore, con una unzione che li teneva tutti a me, vivendo tutti la stessa vita.

In quell’anno lessi dei brani del Pandolfini, del Compagni e di Frate Guido da Pisa, e terminai con la famosa leggenda del carbonaio di Iacopo Passavanti. Nella prima lettura non andai più in là del primo periodo del Governo della famiglia, e ci feci sopra le più nuove e le più sottili avvertenze, indicando le differenze di tutti quei sostantivi ammassati l’uno su l’altro, che esprimevano delicate gradazioni di una stessa cosa, e parevano simili ed erano diversi, e spiegavo anche il perché del loro collocamento. Spesso tiravo fuori il capo da queste nebbie di minute osservazioni, e mi trovavo in puro cielo, nel cielo luminoso dell’arte, e m’entusiasmavo io, e tutti si entusiasmavano, mutando io voce e colore e accento. Mi rimane ancora oggi l’impressione viva che fece la lettura del convito del Pandolfini. Quando lessi: «spento il fumo alla cucina, è spento ogni grado e grazia», e quando, con intonazione solenne, uscii in quel «solitudine e deserto», quella vivace gioventù non si poté contenere, e proruppe in applausi, affollandomisi intorno. Quella descrizione magnifica degli apparecchi del convito, dove tutto è pieno di senso, ch’io annotava e scolpiva, si trasformava nella mia calda analisi in una scena drammatica. Un’impressione più durevole forse fece la descrizione graziosa di una festa, nella quale il nostro messer Agnolo Pandolfini colse la moglie che s’era imbellettata. Fece ridere quella «faccia imbrattata a qualche padella in cucina», e tutti colsero il garbo e la bonomia che è verso la fine, quando il marito, vedendola piangere, dice: «Io