La donna forte (Goldoni)/Atto III

Atto III

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Atto II Atto IV

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ATTO TERZO.

SCENA PRIMA.

Camera in casa di don Fernando.

Don Fernando, poi Servitore.

Fernando. Il marchese Riccardo di prevenir mi giova;

Spedirò questo foglio in villa ov’ei si trova.
Spero che ritornando verrà fra queste soglie,
Pria di veder nessuno, pria di veder la moglie.
Egli che ancor dell’ombre suol prendere sospetto,
Verrà, perch’io gli spieghi il mister del viglietto.
Chi è di là?
Servitore.   Che comanda?
Fernando.   Immantinente io voglio,
Che al marchese Riccardo spedisca questo foglio.
Servitore. Egli verrà a momenti. Veduto ho il suo lacchè.
Fernando. Il lacchè del Marchese?

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Servitore.   Or or parlò con me.

Dissemi che il padrone l’avea spedito innante,
E che sarà egli stesso da noi poco distante.
Fernando. Disseti la cagione, onde a venir si appresta?
Servitore. Parmi che mi dicesse che gli dolea la testa;
Che cambiatosi il tempo, risolse in un momento
Di lasciar per quest’anno il suo divertimento.
Fernando. Di qui dovrà passare. Fermati sulla strada:
Digli che da me scenda pria che da lui sen vada;
Digli che ho da svelargli cosa di sua premura;
E s’ei venir ricusa, chiamami a dirittura.
Servitore. Sì, signore.
Fernando.   Mi sembra lo strepito sentire
Dei cavalli di posta. Vanne, non differire.
(il servitore parte)

SCENA II.

Don Fernando solo.

Inutile è la carta. Talor lo scritto nuoce.

Meglio sarà ch’io cerchi di favellargli a voce.
(straccia la lettera)
Sento fermar le sedie. Sarà il Marchese, io credo.
Ah mi palpita il cuore, ma per viltà non cedo.
Quel che ho fissato in mente, voglio condurre al fine,
A costo d’ogni impegno, a costo di ruine.
Son dall’amore acceso, son dal dolore oppresso;
Vo’ vendicar gl’insulti... Ecco il Marchese istesso.

SCENA II.

Il Marchese ed il suddetto.

Marchese. Eccomi ai cenni vostri.

Fernando.   Marchese mio, venite;
Se incomodo vi reco, di grazia, compatite.

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Se la cagion non fosse pressante a dismisura,

Non avrei procurato vedervi in queste mura.
Da voi sarei venuto, quale il dover m’insegna,
Ma l’affare è geloso, e a segretezza impegna.
Marchese. Ora e in ogni altro tempo dispor di me potete.
Vostro amico mi vanto, quale voi pur mi siete.
Fernando. Di perfetta amicizia darvi desio una prova.
Quando di onor si tratta, dissimular non giova.
Compatite l’amore che il zelo mio trasporta...
Che non ci senta alcuno. Vo a chiudere la porta.
(la chiude)
Marchese. (Aimè, qualche sventura a danno mio pavento.
Da mille tetre immagini inorridir mi sento). (da sè)
Fernando. Or la cagion vi svelo del mio pressante invito.
Siete offeso, Marchese, e nell’onor tradito.
Marchese. Nell’onor? Chi m’insulta?
Fernando.   La vostra sposa istessa,
Da un altro amor sedotta, dalla passione oppressa.
Marchese. Oh ciel! la sposa mia vile sarà a tal segno?
Chi è colui che l’accende? chi è il traditore indegno?
Fernando. Egli è il conte Rinaldo.
Marchese.   Quel che di mia germana
Esser dovria lo sposo, quel l’onor mio profana?
Ah compatite, amico, se co’ miei dubbi eccedo.
Facile è l’ingannarsi, tal fellonia non credo.
Fernando. Vi compatisco. Io pure ciò non avrei creduto,
Se non avessi il vero cogli occhi miei veduto.
Un segreto colloquio ebbe con essa il Conte;
Uscir di casa vostra lo vidi a fronte a fronte.
Dissimulai la tema ch’ei vi facesse oltraggio,
Tentai di rilevare il suo pensier malvaggio;
Ed ebbe l’ardimento, senza verun rossore.
Di svelar le sue trame, di confidarmi il cuore.
Fremea dentro me stesso nell’ascoltar l’audace,
Ma suscitar non volli la critica mendace.

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L’onor troppo è geloso. La pubblica vendetta

Può rendere la fama a scapitar soggetta.
Necessario è il silenzio quanto il riparo istesso;
Si ha da celare al mondo il temerario eccesso.
E se la colpa è chiusa fra le pareti ancora,
Ciò pubblicar non deve chi la sua fama onora.
Marchese. Sono fuor di me stesso. Mi arde di sdegno il petto.
Si laveran col sangue le macchie del mio tetto.
A rivedervi, amico... Oimè, qual tetro orrore
Mi ricerca le vene, e mi avvilisce il cuore?
Vile la sposa mia? la mia diletta infida?
Pria che crederla tale, un fulmine mi uccida.
Ella di onor, di fede fu sempre mai l’esempio...
Ma che non pon le insidie di un seduttor, di un empio?
Vissero amanti un giorno. Spento mi parve il foco;
Ma un amor radicato tutto non cede il loco.
Restano le scintille del concepito amore,
E una scintilla ancora può ravvivar l’ardore.
Ah son tradito, amico, ah mia vergogna estrema!
Vo’ vendicar miei torti... ma il piè vacilla, e trema.
(vuol partire, e poi si arresta)
Fernando. Sì, sfogatevi pure con chi può dar consiglio;
Ma non vogliate esporvi ad un maggior periglio.
Se la consorte ingrata voi rimirate in viso,
Chi può sottrarvi il cuore da un turbine improvviso?
Se di me vi fidate, prenderò io l’impegno
Di vendicar gl’insulti, senza vibrar lo sdegno.
Sappia la sposa vostra, che note al suo consorte
Son le fiamme che nutre; sappia ch’è rea di morte.
Ma se pietà richiede, pietà ritrovi il modo
Di renderla ai congiunti, e di disciorre il nodo.
Si sa che al vostro talamo dal genitor forzata
Venne, d’un altro amante la donna innamorata,
E far valer si puote di chi governa in faccia
Del genitor severo l’impegno e la minaccia.

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S’ella non è più vostra, l’offesa a voi non resta;

Siete da lei disciolto, e la ragione è onesta.
Marchese. No, vederla non soffro di un mio nemico in braccio.
Altro fuor che la morte non può troncare il laccio.
Muoia la traditrice, sento gridar l’onore;
Ma di vederla almeno mi suggerisce il cuore.
Fernando. Voi l’adorate ancora.
Marchese.   L’amo, ve lo confesso.
Fernando. Degna vi par d’amore rea di sì nero eccesso?
Marchese. Ma se fosse innocente?
Fernando.   Dunque son io mendace.
Marchese. Non può mentir piuttosto quel temerario audace?
Fernando. Il colloquio è seguito.
Marchese.   Quando?
Fernando.   Saran due ore.
Marchese. Vicino alla mia sposa chi vide il seduttore?
Fernando. Vidi il suo turbamento; m’accorsi da’ suoi detti
Della perfida tresca.
Marchese.   Sono tutti sospetti.
Fernando. Orsù, fìnor vi ho detto di tai sospetti il meno.
Voglio dell’amor vostro disingannarvi appieno.
Dopo del Conte, io stesso passai dalla Marchesa,
La ritrovai confusa, la riconobbi accesa;
Negar non mi ha saputo l’amor che nutre in petto.
Lo disse non volendo, lo disse a suo dispetto.
Ed a rimproverarla, dal zelo mio portato,
Onte, insulti, minacce contro di me ha scagliato.
Marchese. Come! voi pure ardiste entrar nelle mie soglie?
Voi lasciar vi sentiste rimproverar mia moglie?
Serbar mi consigliate silenzio in caso tale,
E voi con imprudenza faceste il maggior male?
Non so più che pensare, confuso io mi confesso.
Dubito degli amici, dubito di me stesso.
Vil non sarò, il protesto, se avrò l’error scoperto;
Ma l’error della sposa parmi per anche incerto.

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Fernando. Orsù, se l’amor vostro vi accieca a questo segno,

Compatitemi, amico, siete d’aiuto indegno.
Nè vi credea capace di tanta debolezza.
Vuol meritar gl’insulti chi l’onor suo disprezza.
Marchese. Troppo vi riscaldate. Lodo d’amico il zelo;
Ma dai confusi detti la verità non svelo.
Cauto l’ira eccitata saprò celare in seno.
Fin che il cuor della sposa giunga a scoprire appieno.
Di ciò non vi offendete, alfin di me si tratta;
Vano è il ritrarre il passo, quando la corsa è fatta.
Nè vo’ scagliare il colpo fin che il delitto è incerto.
Voi dell’opra amorosa, voi non perdete il merto.
Vi sarò buon amico, se il mio decoro amate;
Ma l’amor di un marito perciò non condannate.
Se rea scopro la sposa, seco sarò inclemente.
Ma non lo credo ancora, ma la desio innocente.
(si apre da sè la porta, e parte)

SCENA IV.

Don Fernando solo.

Peggio ho fatto finora, sperando di far bene;

Ma meditando inganni, poco sperar conviene.
Tuttavia non mi perdo. Fu un colpo ben pensato,
Prevenire il Marchese che in casa io sono entrato.
Se da lei, se dai servi il mio garrir si accusa,
Fu provvido consiglio il prevenir la scusa;
Che se amico mi riesce passar presso al Marchese,
Posso sperar un giorno di vendicar le offese.
Quel che d’altri più temo, è il camerier malnato,
Che con villano orgoglio la borsa ha ricusato.
Ma saprò quell’audace punir in modo tale,
Che per lui non mi possa succedere alcun male.
Prosdocimo. (chiamando)

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SCENA V.

Prosdocimo ed il suddetto.

Prosdocimo.   Signore.

Fernando.   D’uopo ho del tuo coraggio.
Prosdocimo. Muoio di volontà di darvene un buon saggio.
Fernando. Esser vogliono fatti, e non parole.
Prosdocimo.   E bene.
Che si faccian dei fatti. Da ridere mi viene.
A me voi dite questo? A me, che son quell’uomo
Bravo da tagliar teste, come si taglia un pomo?
A me, che se mi trovo esposto ad un cimento.
Non mi fanno paura, se fossero anche in cento?
Perchè credete voi che mi abbiano cassato
Dal ruol dei militari, dove da pria son stato?
Perchè se qualcheduno faceami un mezzo torto,
Diceano immantinente, questo soldato è morto;
E se quel che mi dite, un altro avesse detto,
Io gli averei cacciato questa mia spada in petto.
Fernando. Quando averò veduto una bravura sola.
Crederò quel che dici, ti do la mia parola.
Ma fin che sol ti vanti, non credo alle bravate.
Prosdocimo. Oh cospetto di bacco. Il valor mio provate.
Fernando. Or da te mi abbisogna un picciolo servizio.
Prosdocimo. Comandatemi pure.
Fernando.   Devi ammazzar Fabrizio.
Prosdocimo. E non altro?
Fernando.   Non altro.
Prosdocimo.   Gli trarrò le cervella.
Fernando. Hai coraggio di farlo?
Prosdocimo.   Questa è una bagattella.
Fernando. Se ti offro sei zecchini, dimmi, ti faccio un torto?
Prosdocimo. Non signor, fate conto che Fabrizio sia morto.
Fernando. Cercalo fuor di casa.

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Prosdocimo.   Lo sfiderò alla spada.

Fernando. Ma in un luogo remoto.
Prosdocimo.   Su la pubblica strada.
Fernando. Ma se vengono i sbirri?
Prosdocimo.   Cospetto! io son chi sono;
Se vengono gli sbirri, li ammazzo quanti sono.
Fernando. Basta, di te mi fido; all’occasion sii pronto.
Prosdocimo. Si potrebbono avere due zecchinetti a conto?
Fernando. Eccoli; se l’uccidi, questi di più ti dono;
Ma se poltron ti veggo, sul mio onor, ti bastono.
(parte)

SCENA VI.

Prosdocimo solo.

Non occor che s’incomodi con un tal complimento.

So usar, quando bisogna, l’astuzia ed il talento.
Ha da morir Fabrizio per le mie man, lo giuro.
In corpo di sua madre da me non è sicuro.
È ver che fino adesso nessun non ho ammazzato;
Ma sarò un uom terribile, quando avrò principiato.
Parmi già di vederlo tremar dalla paura;
Subito che l’incontro, l’infilzo a dirittura.
E se vien col bastone? Non mi vo’ spaventare;
Finalmente un bastone non può che bastonare.
E s’egli sulla schiena mi dà una bastonata.
Mentre che ha il braccio in aria, gli tiro una stoccata.

SCENA VII.

Fabrizio e detto.

Fabrizio. Oh di casa.

Prosdocimo.   (Cospetto! eccolo qui il birbone).
(con un poco di paura)
Fabrizio. Ditemi, galantuomo, è egli qui il mio padrone?

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Prosdocimo. Non so nulla, signore.

Fabrizio.   So pur che è qui venuto.
Prosdocimo. (Oh, se in là si voltasse). Io qui non l’ho veduto.
Fabrizio. (Povera mia padrona! Vive in un gran sospetto).
Prosdocimo. (Se mi volta la schiena, gli misuro un colpetto).
(mostrando di voler cacciar la spada)
Fabrizio. Avanzatevi un poco, parliam con confidenza.
Prosdocimo. Mi perdoni, signore, so la mia convenienza. (mostrando star indietro per rispetto, e facendo qualche riverenza.)
Fabrizio. Don Fernando è sortito?
Prosdocimo.   Credo di sì, signore.
Fabrizio. Dov’è andato? il sapete?
Prosdocimo.   No, da suo servitore.
Fabrizio. (Temo che don Fernando abbia col mio padrone
Qualche insidia tramata). (da sè)
Prosdocimo.   (Seco non ha il bastone).
(disponendosi a cacciar la spada)
Fabrizio. Galantuom, cosa fate? (accorgendosi)
Prosdocimo.   Ho male a questa mano.
Fabrizio. (Costui vuole insultarmi; non lo sospetto invano).
Prosdocimo. (Voltati un poco in là). (come sopra)
Fabrizio.   (Stiamo a vedere un poco,
Dove di quel poltrone va a terminare il gioco).
(mostra voltarsi, ma sta con attenzione)
Prosdocimo. (Ora mi sembra a tiro). (tira fuori la spada)
Fabrizio.   Cosa vuol dir, signore?
(voltandosi in fretta)
Prosdocimo. Pulisco la mia spada, non abbiate timore.
Fabrizio. Ora che mi sovviene, anch’io voglio bel bello
Levare un pocolino la ruggine al coltello.
(tira fuori un coltello, e mostra di pulirlo)
Prosdocimo. Servo suo riverente. (vuol partir con timore)
Fabrizio.   Di qua non se ne vada. (minacciandolo)
Prosdocimo. Che cosa mi comanda?
Fabrizio.   Favorisca la spada.

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Prosdocimo. La spada mia?

Fabrizio.   Perdoni, la vo’ vedere un poco.
Prosdocimo. È lama della lupa. (gli dà la spada con paura)
Fabrizio.   Per attizzare il foco.
Vada, se vuol andare.
Prosdocimo.   Mi favorisce il brando?
Fabrizio. Glielo darò domani.
Prosdocimo.   A lei mi raccomando.
Fabrizio. Servitore umilissimo.
Prosdocimo.   La spada mia, signore.
Fabrizio. Gliela darò nei fianchi.
Prosdocimo.   Grazie del suo favore.
Fabrizio. Padron mio riverito.
Prosdocimo.   Servidore obbligato.
Fabrizio. Poltronaccio, insolente. (parte)
Prosdocimo.   Eccomi disarmato.
Corpo di satanasso. A me codesto torto?
Voglio cavarti il cuore.
(Fabrizio si fa vedere colla spada)
  Gente, aiuto, son morto.
(fugge via, battendo la testa in una scena)

SCENA VIII.

Camera di donn’Angiola.

Donn’Angiola sola.

Dica quel che sa dire, a ragion mia cognata

Temo del Conte accesa, se un dì fu innamorata.
Perchè farlo venire solo a parlar con lei?
E perchè il testimonio sfuggir degli occhi miei?
Ah, che non vedo l’ora che torni il mio germano.
Ch’io taccia, mia cognata può lusingarsi invano.
Son nel debole colta, la gelosia mi sprona,
Ed a soffrir gl’insulti non sarò io sì buona.

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Stelle! chi vedo mai? Tornato è mio fratello?

Egli la sposa ardita può mettere in cervello.
E se prima del tempo veggiolo a noi tornato,
Per rimettermi in calma il ciel l’avrà mandato.

SCENA IX.

Il Marchese e la suddetta.

Marchese. Come state, donn’Angiola?

Angiola.   Male, fratello mio.
Marchese. Male? che vi sentite?
Angiola.   Non lo so ne men io.
Marchese. Ma pur de’ vostri incomodi vi sarà una cagione.
Angiola. Provien la mia tristizia da interna agitazione.
Marchese. Confidatevi meco, se vi poss’io giovare.
Angiola. Sì, giovar mi potete, ma non vorrei parlare.
Marchese. Non mi tenete in pena, il vostro cuor svelate.
Tutto farò per voi, certissima ne siate.
Cosa che a voi convenga, non vi negai finora.
Angiola. La Marchesa vedeste?
Marchese.   Non l’ho veduta ancora.
Per la scala segreta tacito son venuto.
Alcun della famiglia venir non mi ha veduto.
E per ponere in chiaro certi sospetti miei,
Sono da voi passato pria di passar da lei.
Angiola. Ah pur troppo i sospetti saran verificati.
Ditemi, i suoi deliri vi fur notificati?
Marchese. Di chi?
Angiola.   Della Marchesa...
Marchese.   Qualche cosa ho sentito.
Angiola. Ella è accesa del Conte.
Marchese.   (Ah, mi ha la rea tradito).
(da sè)
Venne da lei l’indegno?

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Angiola.   Venne celatamente.

Marchese. Per qual fin? Con qual mezzo?
Angiola.   Nessuno seppe niente.
So che lo vidi io stessa entrare in queste soglie;
So che segretamente parlò con vostra moglie.
Stetter mezz’ora insieme, poi si partì confuso.
Guardandosi d’intorno qual chi tradire ha in uso.
Passai da mia cognata col turbamento in volto;
Veggola sostenuta, e minacciarmi ascolto.
Tutti segni veraci che ancor nel di lei cuore
Arde segretamente il suo primiero amore.
Marchese. Siam traditi, germana. Siam tutti due traditi;
Ma se n’andran, lo giuro, i traditor pentiti.
Vorrei veder Fabrizio, il camerier fidato.
Tutto saprà narrarmi quando ne sia informato.
Angiola. So ch’ei voleva al feudo venire a ritrovarvi;
Qualche cosa di grande Fabrizio ha da narrarvi.
Ei si trovò presente, mi pare, allora quando
S’udì vostra consorte gridar con don Fernando.
Marchese. Dunque è ver che Fernando anch’egli è qui venuto.
Angiola. Verissimo, signore, io stessa l’ho veduto.
Marchese. Fedelissimo amico, tu mi dicesti il vero;
Or riconosco il zelo del tuo parlar sincero.
Se a te commisi un torto scemandoti la fede,
Ora l’error comprendo, ed il mio cuor ti crede.
Angiola. A don Fernando ancora nota è la tresca indegna?
Marchese. Sì, l’amico i miei torti di vendicar s’impegna.
Angiola. Quale pensiere è il vostro in simile periglio?
Marchese. Non so; del fido amico accetterò il consiglio.
Lascierò di vedere per or la sposa infida.
Chi sa, s’io la rimiro, dove il furor mi guida?
La scellerata offesa sento nel cuore a segno,
Che contener nel seno più non poss’io lo sdegno.
Vo’ saper da Fabrizio quel che svelarmi ei vuole.
Fate che alcun mel guidi senza formar parole.

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La Marchesa non sappia ch’io son nel vostro quarto.

Il camerier si cerchi; senza di lui non parto.
Angiola. Farò che una mia donna lo trovi immantinente.
Di lei posso fidarmi; altrui non dirà niente.
Ma vi consiglio intanto a moderare il foco;
Potete la Marchesa mortificar con poco.
A voi non manca il modo di farlo in guisa tale,
Onde il rimedio stesso non sia peggior del male.
Col Conte io vi consiglio di regolar lo sdegno;
Se la donna l’invita, ei di perdono è degno.
Esser con lei dovete assai più rigoroso.
(Bramo di vendicarmi, senza smarrir lo sposo). (parte)

SCENA X.

Il Marchese solo.

Di regolar lo sdegno so che prudenza impone.

Ma chi può mai vantarsi padron della ragione?
Questo poter sublime a noi dal ciel donato,
Talor dalla passione è vinto e dominato,
E chi frenar dell’ira può la passione ultrice,
Può vantarsi nel mondo di vivere felice.
Fuggirò di vederla fin che si calmi il foco...
Scellerata, sugli occhi mi viene in questo loco?
(osservando verso la scena)
Ah, l’onor mi sollecita che di mia man l’uccida.
Aiutatemi, o numi, a tollerar l’infida.

SCENA XI.

La Marchesa ed il suddetto.

Marchesa. Signor, degna non sono?

Marchese. No, che non sei più degna
Che a rivederti io venga, perfida donna indegna.
Togli da me quel volto che può ispirarmi orrore.

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Fino il tuo nome istesso vo’ cancellar dal core.

Di comparirmi in faccia fosti cotanto ardita,
Col tuo delitto in petto, colla mia fè tradita?
Vattene da me lungi, t’abborro, e ti detesto,
Anima senza fede.
Marchesa.   Che favellare è questo?
Con tai villani oltraggi si parla ad una dama?
Contro il marito istesso vo’ garantir mia fama.
Ho nelle vene un sangue che al suo dover non manca:
Con chi l’onor mi tocca, son risoluta e franca.
Della mia vita istessa l’arbitro, è ver, voi siete,
Ma nell’onor, signore, a rispettarmi avete.
Marchese. Chi dell’onor si pregia, alla passion non cede;
Rispettare non deggio chi mancami di fede.
Marchesa. Chi vi manca di fede?
Marchese.   Il vostro cuore audace.
Marchesa. Chi di accusarmi ardisce, è un traditor mendace.
Dove poc’anzi andaste, dove vi trovo adesso,
Lo so che si congiura contro il mio sangue istesso.
Ma una germana ingrata, che di oltraggiarmi ardì,
Ma un scellerato amico, conoscerete un dì.
Marchese. Ogni perfido core, per mendicar la scusa,
Suol tentar cogl’insulti discreditar l’accusa.
No, più garrir non voglio con una donna ardita;
Perfida, le menzogne ti han da costar la vita.
Marchesa. Questa minaccia orribile non forma il mio spavento.
Salva la mia innocenza, di morire acconsento.
Provami la mia colpa, se hai tal potere, ingrato.
Marchese. Non provocarmi, altera.
Marchesa.   Sfido la morte e il fato.
Marchese. Qual fato a te sovrasta, dica il tuo cuore insano.
La morte che tu sfidi, l’avrai dalla mia mano.
So quel che tu facesti, so quel che a me si aspetta.
Non attendo discolpe; vo a meditar vendetta. (parte)

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SCENA XII.

La Marchesa sola.

Non ti avvilir, mio core. Se il barbaro non t’ode.

Cerca per altra strada di smascherar la frode.
Vezzi, preghiere e pianti ora non sono al caso;
Li crederebbe inganni il fier marito invaso.
Vagliami il giusto orgoglio, vagliami la costanza;
Chi ha l’innocenza in petto, può parlar con baldanza.
Sappianlo i miei congiunti, sappialo tutto il mondo;
Quel che celar dovevasi, altrui più non ascondo.
Mille nemici ho intorno, anche il marito istesso
Carica la mia fama di un vergognoso eccesso.
Prima si disinganni; poi, se il desia, si mora;
Ma nel morir si serbi la mia fortezza ancora. (parte)

Fine dell’Atto Terzo.