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322 ATTO TERZO
L’onor troppo è geloso. La pubblica vendetta

Può rendere la fama a scapitar soggetta.
Necessario è il silenzio quanto il riparo istesso;
Si ha da celare al mondo il temerario eccesso.
E se la colpa è chiusa fra le pareti ancora,
Ciò pubblicar non deve chi la sua fama onora.
Marchese. Sono fuor di me stesso. Mi arde di sdegno il petto.
Si laveran col sangue le macchie del mio tetto.
A rivedervi, amico... Oimè, qual tetro orrore
Mi ricerca le vene, e mi avvilisce il cuore?
Vile la sposa mia? la mia diletta infida?
Pria che crederla tale, un fulmine mi uccida.
Ella di onor, di fede fu sempre mai l’esempio...
Ma che non pon le insidie di un seduttor, di un empio?
Vissero amanti un giorno. Spento mi parve il foco;
Ma un amor radicato tutto non cede il loco.
Restano le scintille del concepito amore,
E una scintilla ancora può ravvivar l’ardore.
Ah son tradito, amico, ah mia vergogna estrema!
Vo’ vendicar miei torti... ma il piè vacilla, e trema.
(vuol partire, e poi si arresta)
Fernando. Sì, sfogatevi pure con chi può dar consiglio;
Ma non vogliate esporvi ad un maggior periglio.
Se la consorte ingrata voi rimirate in viso,
Chi può sottrarvi il cuore da un turbine improvviso?
Se di me vi fidate, prenderò io l’impegno
Di vendicar gl’insulti, senza vibrar lo sdegno.
Sappia la sposa vostra, che note al suo consorte
Son le fiamme che nutre; sappia ch’è rea di morte.
Ma se pietà richiede, pietà ritrovi il modo
Di renderla ai congiunti, e di disciorre il nodo.
Si sa che al vostro talamo dal genitor forzata
Venne, d’un altro amante la donna innamorata,
E far valer si puote di chi governa in faccia
Del genitor severo l’impegno e la minaccia.