La colonia italiana in Abissinia/XXII

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Peripezie del ritorno — Lauta colazione di dura — Ospitalità. Conversazione e giuochi di famiglia — Notizie inglesi — Una notte alla pioggia — Il deserto di Samhar — Ultimi sacrifici a Moncullo — La città di Massaua.



Destati, che erano appunto le due antimeridiane del 29 settembre, partimmo salutati dagli indigeni, i quali ci consigliarono di viaggiare giorno e notte senza interruzione, allo scopo di sottrarci più presto che si potesse al probabile inseguimento dei soldati di Gheremetim, che non avrebbero tardato ad apprendere la nostra ritirata.

Giunti alle falde della grande montagna, risalimmo poscia la strada delle roccie sotto un cielo oscurissimo e per sentieri sì dirupati che eravamo spesso in procinto di fiaccarci il collo o di spezzarci una gamba.

Camminammo appunto tutto quel dì e tutta la notte, sicchè all’alba del 30, eravamo decisi di accam[p. 175 modifica]parci sovra un altipiano che estendevasi sino a Keren; ma non essendo quello il luogo più opportuno, stabilimmo di continuare ancora per qualche miglio sino ad un paesello che ci era già in vista.

Colà giunti si fece macinare della dura e impastarci del pane che ci servì di colazione, e un paio d’ore dopo eravamo nuovamente in marcia.

La quantità di strada che percorremmo in quel giorno fu invero rilevantissima, poichè avevamo stabilito di non fermarci più sino a Gendak, paese dipendente dal triumvirato di Keren e sede di uno dei tre capi.

Al nostro arrivo costui ci venne incontro, offrendoci gentilmente ospitalità nella sua chiusa e nella sua stessa abitazione.

Introdotti, vi trovammo raccolta la famiglia, composta di alcune donne e di parecchi fanciulli, i quali ultimi attoniti ci guardavano, e tratto tratto, dopo essersi avanzati verso noi, correvano a rifugiarsi dietro le femmine.

Fummo lautamente trattati a pane, latte e burro; e un bel montone c’era stato offerto in dono, accompagnato da mille e mille dimostrazioni di affetto.

In contraccambio delle quali noi diemmo loro alcuni sigari ch’essi ricevettero con grande piacere.

Il montone però non venne da noi accettato, sebbene ci capitasse per ricompensarci dell’avere, mercè la nostra intromissione, rappacificato l’ospite nostro con uno dei suoi fratelli, già da qualche tempo secolui disgustato.

Alla sera giunsero i pastori colle mandre, ed allora ci fu imbandita la cena con dell’altro latte fresco.

Poi rimanemmo a conversare. La sera che succedeva ad una giornata, memorabile per la pace conclusa fra i due capi, non poteva essere che lietissima e solen[p. 176 modifica]ne. E tale fu. La famiglia era tutta ivi raccolta coi molti suoi membri, i quali sedevano intorno a noi, interrogandoci a vicenda sui nostri usi, sulle nostre abitudini, su quello che avevamo passato, su quello che intendevamo di fare.

Mentre noi rispondevamo alle loro domande, eravamo del pari seduti e fumavamo nelle nostre pipe. Grande impressione producevano specialmente nei fanciulli lo schiopettìo e la luce che si sviluppavano per lo sfregamento di alcuni zolfanelli, di cui tratto tratto ci servivamo; sicchè venivamo pregati di ripetere la prova acciò loro servisse di trastullo nel vedere le smorfie dei ragazzi ed anche di qualche adulto, che ad ogni scoppio si turavano gli orecchi; correndo poi i fanciulli a nascondersi chi tra le gambe del padre, chi in seno della madre. Ed essendomi venuto in mente ch’io possedeva uno specchietto, lo trassi dalla mia valigetta e feci sì che quei piccini vi si guardassero; della qual cosa meravigliati, ne parlavano ai propri famigliari, poi ridevano a crepapelle.

Finita la conversazione, pensammo al riposo. Ed essendoci ritirati, dopo aver preso congedo dalle donne, i maschi ci accompagnarono al sito assegnato per dormire, ove ci coricammo.

Alla mattina il capo venne ad augurarci la buona ventura, e quando ci rimettemmo in viaggio ci volle accompagnare, alla testa di una scorta d’onore, per un lungo tratto di via.

Occorre di ricordare, che, prima di partire, mentre stavamo allestendo i nostri bagagli, era giunto un indigeno da Massaua il quale aveva recato la notizia trovarsi in quelle acque una nave da guerra inglese, la quale aveva già sbarcato a Zula alquante truppe che [p. 177 modifica]dovevano poscia internarsi per portar guerra al negus Teodoro; spedizione già nota, e della quale si occuparono i giornali più importanti d’Europa.

Alla sera dello stesso giorno arrivammo stanchi ed affamati a Maldi, paesello che il lettore ricorderà, siccome quello in cui si tolse di vita lo sfortunato Ravasano.

Pernottammo colà, come meglio ci fu possibile, ed al levare del nuovo sole, fummo nuovamente in gambe per superare una ripida altura che conduce al vortice d’un altissimo monte, da cui si domina, da un lato il lembo di quella immensa pianura che chiamasi il Samhar o Meden, e dall’altro il Mar Rosso.

Superata la cima, scendemmo, non senza altrettanto disagio quanto ne avevamo patito nell’ascesa, in un basso piano, ove dovemmo attraversare parecchie grotte e spelonche, nidi e ricovero di bestie feroci.

La notte ci colse per via, e con essa una pioggia dirotta che ci costrinse a far sosta prima del tempo, coprendo alla meglio noi, le bestie ed i bagagli, ma rimanendo in piedi, bagnati da capo a fondo ch’era una desolazione a vederci. Avremmo forse potuto ricoverarci in alcuno degli antri che avevamo poco prima visitati, ma non pensavamo punto a dividere il ricovero con quei feroci abitatori che avrebbero posto a contributo di sangue il favore fornitoci dell’ospitalità.

E ben ci eravamo apposti al vero, imperciocchè, essendosi uniti a noi due indigeni, giunti da Massaua con le loro vacche cariche di burro, e l’odore della selvaggina, essendo forse un po’ troppo piccante, richiamò fuori dalla propria tana un vecchio leone, dalla folta criniera, dagli occhi fiammeggianti e dalla terribile voce, che non ristette un solo istante in tutta la notte [p. 178 modifica]dal girare intorno a noi, malgrado i fuochi che mantenemmo accesi a dispetto dell’umidità e della pioggia.

Quella notte fu per noi, quant’altre mai, interminabile, eterna; ma l’alba poco a poco si distese sull’orizzonte e il sole spuntò a rischiararci la via, per la quale dovevamo procedere.

Dopo aver arrostito un grosso topo selvatico, ammazzato durante la notte, e spartitone un pezzo ad ognuno di noi, asciolvemmo, e sorseggiato un po’ di cognak ci rimettemmo in cammino.

Attraversato un tratto del Samhar entrammo ad Assus, e senza fermarvisi, proseguimmo per Moncullo.

Anche in questa piccola tappa ci colse la pioggia. Non ne potevamo più: Gentilomo soffriva più che gli altri, e nervoso com’egli era, dava in ismanie disperate, cosicchè, colto da un accesso di bile, aveva tratto dalle tasche una pistola per togliersi la vita. Fu però da noi trattenuto e confortato col noto adagio del: solatium miseris socios habere poenarum.

Non era ancora il meriggio che entravamo a Moncullo, luogo d’infausta memoria in cui dovemmo privarci persino dei fucili, vendendoli agli indigeni per poter pagare ai servi la pattuita mercede. Anche il somiere passò in proprietà di un negoziante del luogo, costretti in seguito a sostituirlo nelle fatiche, portando un po’ per uno i nostri fardelli sino al luogo d’imbarco.

Partiti anche da Moncullo il 5 ottobre, ci trascinammo sino a Massaua, ove intendevamo fermarci qualche giorno per ricomporre le esauste nostre forze, e procurarci un sambuk che ci portasse a Zula, l’Adulis degli antichi.

All’uopo contavamo sopra uno Spagnuolo colà dimorante, certo Hamsa, che n’era stato indicato come [p. 179 modifica]esperto dei luoghi, e che ivi copriva la carica di commissario sanitario.

Massaua è un attivissimo porto di mare, in cui oltre al movimento di innumerevoli barche arabe, si notano frequenti arrivi di legni africani, ed in ispecie quelli della Società di navigazione Kediviè, provenienti da Suakin, da Gedda e da Suez.

La città risulta da un gran numero di capanne di forma rettangolare, costrutte a legno e paglia, tra le quali sorgono quà e là alcuni edifizi in pietra di recente costruzione. Possiede una piazza irregolare, ma quadrata all’aspetto, sempre ingombra di merci, tra le quali abbonda il legname.

Essa è limitata a destra da un recinto, che vorrebbe essere un magazzino di deposito con annesso ufficio doganale, ed a sinistra da una baraccona di paglia in cui convengono gli uomini di mare, e da una discreta fabbrica in pietra che è la sede dei vari uffici. Il fondo consta del palazzo del governatore, una casaccia nuda, alta e massiccia e d’un bianco abbagliante.

Il palazzo ha un portico angusto, pel quale si penetra in un labirinto di luridi chiassuoli, in parte coperti di stuoie filacciate che pendono a brandelli dalle sconnesse impalcature e lasciano passare i raggi ardenti del sole e a chiazzar di luce il suolo arido e polveroso.

La via principale è la via del commercio, ove si aprono i principali negozi di manifatture, di mercerie e simili, e nella quale regna molta attività. Nelle altre stradicciuole si tiene il mercato dei commestibili, che è pure animatissimo.

Rispetto all’edilizia, osservai alcune case in costruzione, che si stavano allora sostituendo alle antiche capanne, e ciò a motivo di scansare i frequenti incendi; case [p. 180 modifica]che generalmente si fabbricano in uno stile arabo un po’ corrotto. Alcune già compiute ed abitate da ricchi negozianti, vantano il lusso di balconi aperti, ornati di intagli in legno e dipinti a colori vivacissimi. Il materiale di costruzione è d’ordinario un calcare conchiglifero che si esporta dalla baia di Nucra.

La città è protetta inoltre da una fortezza, situata in riva al mare, all’imboccatura del porto, ed è un grande quadrilatero, di cui tre lati a bastioni bassi, armati di artiglierie, il quarto è formato dalla capanna, edifizio di un solo piano a dodici finestre, con moresca ed un alto terrazzo sovra la medesima. Ad uno dei lati sorge un massiccio torrione munito di due pezzi. Conta circa 5000 anime, a quanto si può supporre, dacchè in quelle regioni l’ufficio del censimento e dello stato civile sono ancora di là a venire.