La colonia italiana in Abissinia/XXIII
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XXIII.
Lo spagnuolo Hamsa — Scene mezzo tragiche — Partenza da Massaua — Arrivo a Zula — L’accampamento inglese — Munzinger — Un missionario ebreo — Datteri ed acqua — Malattia. Arrivo di Glaudios coi quattro francesi — Sue cure verso di noi. Partenza per Suez — Ritorno in Europa — Notizie dei compagni. Congedo dal lettore.
Entrati in Massaua, ci dirigemmo tosto dallo spagnuolo Hamsa, già noto ai miei compagni che lo avevano conosciuto al loro arrivo con Zucchi.
Alloggiammo presso di lui in una catapecchia, chi sopra qualche cassone, chi anche sul terreno, ravvolti nelle proprie coperte di lana.
Hamsa era di un temperamento bisbetico, ottuso e fiero, un poco anche capriccioso, giacchè dopo averci prima trattato con premura ed amorevolezza, come avrebbe fatto qualunque altro europeo in soccorso di compagni sventurati, ebbe ben presto a darci dei brutti saggi del suo strano temperamento. Nei primordi ricevemmo persino in regalo alcune bottiglie di Vermouth che ci servirono a scacciar la noia ed i pensieri per qualche giornata.
Un giorno eravamo seduti al desco, ed egli girava per la camera con inquietudine mista a rabbia, della quale non sapevamo darci una spiegazione. Quand’ecco, dopo aver emesso una specie di rantolo, lo vediamo uscire frettoloso, e poco dopo ritornare agitato, furente e con un pugnale nella mano destra; pugnale che piantò in atto di minaccia sulla panca in cui eravamo seduti.
Le stoviglie della tavola ballarono pel movimento istintivo di sorpresa che noi tutti facemmo nell’alzarsi; la tavola stessa traballò e si scostò; e ci guardavamo l’un l’altro in faccia, quasi nel dubbio che lo Spagnuolo fosse uscito di senno.
Gentilomo prese poco dopo la parola per chiedergli cosa avesse, e per calmarlo; ma ci voleva ben altro: quell’energumeno non ascoltava consigli. Pare avesse trovato questione con qualcuno del paese; dico pare, giacchè dalla sua bocca non uscì verbo, e tutto ingrugnito, volgendoci le spalle, ci lasciò esterrefatti.
Mentre noi attendevamo a Massaua l’occasione di un imbarco, arrivò in porto un vapore della compagnia Zizia, che rimase ancorato alcune ore.
Sarebbe stato dovere di Hamsa di recarsi a bordo per visitare il legno, ma egli non si mosse dalla propria abitazione. Fu duopo quindi che un ufficiale scendesse dalla nave e si recasse a lui per ottenere la cosiddetta patente netta.
Ma lo Spagnuolo non ne fu ancora persuaso, e costrinse lo stesso comandante ad andarsela a prendere.
Verso il capitano di un sambuk fu ancora più capriccioso e villano, giacchè essendoglisi questo presentato a sollecitare il permesso di partire, egli gli si slanciò addosso, regalandogli un sonoro schiaffo ed uno sputo sulla faccia. Poi, per soprassello, gli dichiarava che non gli avrebbe permesso di partire se non quando gliene fosse venuto il capriccio.
Colui se la prese anche con noi, perchè, come dovevasi, avevamo difeso il capitano; e tante ce ne disse che, alla perfine, Stefano, il toscano, perduta la pazienza, gli menò tale una ceffata tra naso e bocca che, se si ritrova ancora a questo mondo, se ne deve per certo ricordare.
Girava egli pel paese, quasi sempre ignudo, portando una semplice benda di tela intorno al ventre.
Col capitano del sambuk contrattammo poscia il nostro imbarco per Zula, che avvenne la sera stessa del diverbio, malgrado il divieto dello Spagnuolo e in forza dell’appoggio che trovammo da parte del governatore e della polizia del luogo.
La traversata si fece durante la notte, nella quale stabilimmo di rivolgerci al console Munzinger, che appunto trovavasi a Zula presso l’accampamento inglese, acciocchè ci procurasse un nuovo imbarco per le Indie, ove intendevamo recarci per cercarvi fortuna.
Arrivati a Zula, era il giorno 11 di ottobre, sulla groppa di quattro arabi, tragittammo quel tratto di mare che stendesi, dal sito in cui le navi si devono arrestare, sino alla spiaggia, giacchè di pontili o di approdi in genere non ve ne era uno, nemmeno per accidente. Tostochè gli arabi ci ebbero deposti, trascinammo i nostri bagagli sino all’accampamento, per giungere al quale dovemmo percorrere una larga zona di terreno arenoso, nel quale il piede si sprofondava totalmente e scivolava ad ogni passo.
Ivi trovammo il console che stava cavalcando. Mi avanzai io pel primo, e, salutatolo, favellandogli in idioma tedesco, presentai me ed i compagni, facendoci conoscere siccome reduci dalla colonia di Sciotel.
Per questa dichiarazione mostrò egli tanta meraviglia, che noi stessi, non sapendo spiegarcela, restammo più meravigliati di lui. Il motivo però era plausibile, ed era il seguente:
Sino d’allora ch’eravamo a Sciotel e che Gheremetim erasi accampato all’acqua Osch con intenzione di assalirci, l’arabo, ch’era giunto a Keren con Zucchi, ed era ivi rimasto insieme allo spagnuolo Glaudios a custodia dei bagagli, credendoci tutti spacciati, aveva pensato bene di mettersi in salvo; e perciò, di notte, aveva tacitamente abbandonato Keren e a grandi giornate erasi portato a Massaua a recarvi la notizia, un po’ troppo precipitata, che eravamo stati tutti massacrati.
In seguito a ciò, il console, avendone fatta parola ai comandanti della nave inglese, questi, irritati contro quelle tribù, nel momento dell’impressione avrebbero ben volentieri spedito alcuni dei loro Indiani sul luogo per vendicare la nostra morte.
Passata la meraviglia, e fatta al console l’esatta descrizione dello stato infelice e ormai disperato della colonia, lo pregammo a volerci assistere e a procurarci l’imbarco per le Indie, del quale ho già parlato.
Ci accompagnò egli da un Ebreo, che viveva in un tugurio poco distante dal campo, e ci raccomandò a lui pregandolo di alloggiarci. Era questi un missionario spedito dall’Olanda per abboccarsi coi propri correligionari ch’ei supponeva dovessero trovarsi nell’Abissinia centrale, ed i quali, a parer suo, dovevano derivare in linea retta dal ceppo antico del popolo d’Israel. Il console, poco dopo, ci lasciò.
Ma il tugurio dell’Ebreo bastava appena per lui, e noi dovemmo passar le notti all’aperto, o, tutt’al più, rannicchiati sotto qualche cespuglio, disturbati nel sonno dai ruggiti delle iene.
Anche le giornate passavamo melanconiche e tristi, e, riguardo al cibo, la faccenda era ancora peggiore. Si beveva poi dell’acqua infetta, nella quale talvolta si cuoceva un po’ di riso, che, a stento e verso esuberante compenso, potevamo ottenere dai soldati indiani.
Alcuni datteri che ci servivano di companatico, completavano il nostro vitto.
Per conto d’acqua, anche gl’Indiani, la ciurma inglese ed i loro graduati, non istavano meglio di noi. Essi erano stati costretti a far iscavare dagl’indigeni di Zula alcune fosse, da cui poscia attingevasi un’acqua fangosa che bisognava filtrare attraverso un lino per purgarla alla meglio; ma tanto e tanto il suo sapore era nauseante ed i suoi effetti dannosissimi alla nostra fisica costituzione. Gl’Inglesi però, non potendone usare, avevano in prossimità alla spiaggia stabilito un laboratorio per convertire l’acqua del mare in acqua dolce.
Non andò guari ch’io mi ammalai, e non pertanto mi aggirava sostenuto dal bastone qua e là per darmi coraggio e non lasciarmi sopraffare dalla debolezza. Bramoso di bere un sorso di acqua migliore di quella che bevevo giornalmente, mi trascinavo qualche giorno appunto sino alla spiaggia, raccomandandomi a qualche Indiano per poterne tracannare un bicchiere.
Tra il 17 ed il 18, mi assalsero acutissimi dolori alle gambe, i quali non mi permisero di più muovermi dal mio duro ed umido giaciglio; per la qual cosa caddi in una debolezza straordinaria, sorreggendo l’esistenza con alcuni datteri e con qualche bicchierino di cognak, che pagavo a carissimo prezzo dall’Ebreo, il quale speculava nella vendita, e in questo modo provvedeva al proprio sostentamento.
Ricorsi finalmente al console Munzinger pregandolo che mi facesse somministrare almeno per qualche giorno un po’ di zuppa, od anche un po’ di brodo, per poter rimettere alquanto le mie forze; ma mi venne acremente risposto che lui non teneva cucina e meno ancora faceva il cuoco.
Fu mestieri dunque adattarmi al destino che mi perseguitava e pensare seriamente a togliermi una buona volta da quei luoghi.
Quindici giorni vi dimorai coi miei compagni; quindici giorni di patimenti fisici e morali, di privazioni essenziali, di sofferenze inaudite.
Io che era il più malconcio di tutti fui quello che mi diedi il coraggio di ritornare al console, e pregarlo di farci partire più sollecitamente che fosse possibile, altrimenti io, in particolare, sarei perito senza alcuno scampo.
Mi rispose egli che avessimo avuto la pazienza di attendere sino al giorno 25, che saremmo partiti con un vapore inglese che era diretto a Suez per caricarvi dei muli. Questa disposizione mi racconsolò un poco, e quando ne diedi parte ai compagni, anch’essi migliorarono d’umore.
Una settimana circa innanzi alla nostra partenza, fummo sorpresi di veder giungere a Zula quei quattro francesi che avevano piantato il loro stendardo a Keren, e poscia, avendo levato il campo, si erano condotti di paese in paese, ramingando per quelle regioni, finchè si erano persuasi che anche per essi l’aria dell’Africa non era troppo confortante.
Con coloro trovavasi anche lo spagnuolo Glaudios che aveva pur esso abbandonato Keren, ma in migliori condizioni che noi, vale a dire più fornito di robe e di denaro.
Come dissi più sopra, i Francesi, per la loro condotta poco umana verso gl’indigeni, in un’epoca più tarda, la finirono male, e di essi, neppur uno è ritornato in Europa.
Si accamparono, appena giunti, in vicinanza al nostro terreno, piantandovi le tende, e costruendosi immediatamente una capanna; poi una seconda, nella quale ci ricoverarono nei tre ultimi giorni, dividendo con noi il loro pasto frugale.
Glaudios, in quest’incontro, si mostrò migliore di quello che era stato in antecedenza, nè io gli mostrai risentimento, sebbene tanto danno avesse arrecato al mio amor proprio ed alla mia dignità nell’opinione di Zucchi e della famiglia di lui.
Mi propose eziandio di rimanere con esso, chè in pochi mesi, secondo ciò che aveva in vista d’intraprendere, avremmo fatto fortuna; ma io niegai decisamente, in primo luogo perchè la mia salute non lo permetteva: in secondo, perchè lo scoraggiamento morale si era impossessato di me; da ultimo, perchè io non credeva affatto a quanto asseriva per persuadermi, vale a dire: esser egli venuto a conoscere che il paese di Zula era stato acquistato anni fa da un francese, ricco sfondato, che era testè morto in Francia, e tra le cui carte erano stati trovati i documenti relativi a quel possesso.
A quanto egli mi disse, era intenzionato di contrastare agl’Inglesi il diritto di accampamento, oppure ottenere da essi una contribuzione in belle e buone sterline.
S’immagini il lettore, se io poteva, su tali basi, arrendermi al suo invito.
Finalmente spuntò il sole del 25 ottobre.
In quel mattino, l’ultimo che io passai sopra il suolo abissino, Glaudios volle mostrarsi più generoso che mai, e c’imbandì una lauta refezione.
Ringraziammo l’Ebreo per l’ospitalità accordataci, e senza più ci recammo a bordo del Coromandel, dal cui ponte mandammo l’ultimo addio a quella terra fatale che ci aveva in pochi mesi costato il sacrifizio d’un quarto almeno della nostra mortale carriera.
Senza inconvenienti sbarcammo a Suez. Ivi trovai alcuni amici, presso i quali mi trattenni alcuni giorni, quindi mi diressi a Porto Said, e rimasi alquanto tempo in Egitto alacremente lavorando onde mettermi da parte un gruzzoletto di denaro per far ritorno in Europa, in Italia, a Trieste, a riabbracciarvi i genitori, i parenti, gli amici ch’ero sì avido di rivedere.
Dei compagni rimasti a Sciotel non ebbi più nuove dirette; ma mi consta che tutti, meno due, fecero anche essi assai presto ritorno.
I due rimasti furono Alessandro Bonichi ed il padre Stella, il qual ultimo venne a morte due anni dopo la mia partenza, probabilmente di crepacuore.
Moro da Udine non sopravvisse anch’egli di troppo e morì durante il viaggio di ritorno; gli altri compagni lasciarono anch’essi le terre dei Bogos e l’Africa dopo di me.
Così la colonia italiana in Abissinia finì di consunzione come tutte le cose di questo mondo.
E qui faccio punto, chiedendo compatimento al lettore per la noia che avrà provato nello scorrere queste mie pagine disadorne, a stender le quali non fui mosso da alcun sentimento di ambizione, ma dal semplice desiderio di far noti alcuni dettagli di quella sfortunata missione, che avrebbero potuto esser taciuti o travisati da altri. A me basti la soddisfazione di aver fatto quanto era in mio potere per cooperare ad una impresa, la quale, se fosse riuscita, avrebbe reso certamente un buon servigio alla causa della civiltà e del progresso.
fine.