La casa del poeta/La Roma nostra
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LA ROMA NOSTRA
Non è quella antica, nè quella dei Papi; e neppure la Roma dopo il settanta: anzi la sua storia comincia quasi mezzo secolo dopo la breccia di Porta Pia, ed è comodo non fare ricerche nè sforzi culturali per scriverla in poche pagine.
Dunque, circa una quindicina di anni fa, una piccola colonia di provinciali, che la carestia di alloggi cacciava dalla grande Roma, lasciatasi appunto indietro la gloriosa breccia, sostò verso l’antica via Cupa, fra l’una e l’altra delle ville cardinalizie da lungo tempo abbandonate dagli ultimi eredi dei prelati di Pio Nono. Facile fu acquistare ed abbattere alcune di queste bicocche, un tempo ritrovo di personaggi gaudenti: e, tagliate le ultime siepi di carpini, spianati i ciglioni erbosi dove pascolavano le pecore, sventrata, con dolore delle coppie clandestine delle quali era rifugio, la tenebrosa via Cupa, si diede mano alla nostra città.
Sorse in breve, ad immagine e somiglianza di quelle natìe dei suoi abitanti: piccole case a schiera e piccoli villini, tinti di teneri colori contadineschi, tutti con terrazze pavesate di bucati casalinghi; tutti con giardinetti dove la palma non sdegna di fare ombra al prezzemolo: e, quasi per vendicarci della Metropoli che non ci voleva più dentro il cerchio delle sue mura, alle nostre strade, ricche di aria, di sole, di sfondi campestri, si diedero nomi di città di provincia. E tutto il quartiere si fregiò col nome glorioso della Patria grande: quartiere Italia.
Come tutti i popoli felici, il nostro, dunque, non ha ancora una storia. Il nucleo primitivo della nostra città, del quale appunto qui si vuol parlare, si è già esteso ed ingrandito; o, meglio, nuovi quartieri imponenti e moderni, con palazzi signorili e costruzioni popolari, ci hanno raggiunto ed accerchiato: noi però si rimane fermi al nostro posto, e tutto al più possiamo ammettere nel nostro ambito qualche antica villa rimodernata e il campo del tennis che ancora ci salva l’orizzonte.
Il nostro quartiere è sempre quello della prima colonia: le case e i giardinetti gli stessi: solo gli alberi sono cresciuti, per nasconderci forse agli occhi di chi, dall’alto dei palazzi nuovi, può incuriosirsi ad osservare la nostra patriarcale intimità. E questo raggiungerci della Metropoli ci lusinga, sì, ma non eccessivamente. Si stava bene anche a debita distanza.
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Del resto, quando si torna dal centro di Roma, si ha ancora l’impressione di aver fatto un viaggio: l’aria è diversa, l’orizzonte più vasto: scendendo dal tranvai affollato, ci sembra di smontare in una tranquilla stazione provinciale, e di internarci, per esempio, nel cuore della lontana cara Romagna. Via Forlì! Il crepuscolo, brillante di azzurro e di rosso, ci permette, scendendo il quieto marciapiede, di rievocare la visione della bella città romagnola, chiara tra il verde delle sue campagne feconde. È sera: noi vediamo la città nel velo della lontananza, dalle colline benefiche della Fratta, seduti all’aperto intorno alla mensa ospitale di un ricco colono, le siepi delle cui vigne sembrano altorilievi di bronzo, più cariche di grappoli che di foglie: il faro fosforescente del Castello delle Caminate sfiora tutta la Romagna, da Bertinoro al mare, con una carezza luminosa di ventaglio che rinfresca le notti estive.
Ma da Forlì eccoci sbalzati miracolosamente a via Caserta: la strada, qui, è ancora più tranquilla e solitaria: si può camminare ad occhi chiusi, a ridosso delle case, le maniglie dei cui portoncini, ben lucidate dalle servette zelanti, raccolgono l’ultimo riflesso del giorno. Caserta, città di pace e di sole, anch’essa cara al cuor nostro perchè il giardino incantato del suo Palazzo Reale, coi suoi nascondigli boschivi, le acque perlate, le ombre dense di profumi, ha veduto una sosta del nostro viaggio di nozze.
E così si va, per le arterie della nostra piccola «Italia», attraversando in un quarto d’ora tante graziose e svariate città, da Trapani a Girgenti, da Potenza a Lucca: anche di Lucca balza il ricordo delle vie strette, con lo sbocco aereo dei bastioni fantasiosi, e la dolce Ilaria addormentata nel sonno dal quale l’amore e l’arte hanno allontanato per sempre la morte.
Da Lucca si sale fino a Udine, poi si ridiscende a Como, un ramo del cui lago, cioè un solitario vicolo, viene a lambire proprio la nostra dimora; ma non abbiamo la chiave del cancello di servizio e preferiamo vagabondare ancora, nella sera tiepida e lucente: si torna indietro, si risale la stessa via, larga adesso e aristocratica, orgogliosi che anche la nostra città possegga una villa ed un parco che ci richiamano all’antico. I pini secolari, sopra la balaustrata del muro di cinta, imbevuti di carminio, sul cielo che si trascolora per far più vivido il primo sguardo delle stelle, disegnano intorno alla villa il classico paesaggio romano: qui siamo proprio a Roma, e qui ci resteremo.
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D’altronde nulla ci manca per essere cittadini contenti: anzi godiamo vantaggi che «quelli del centro» c’invidiano cordialmente. E se nel nostro mercato nuovo la roba è tre volte più costosa che in quelli vecchi, i nostri orticelli suppliscono alla carestia, coi loro finocchi candidi e dolci come gelati e con l’insalata che sa di prato. Chi mai, dentro Roma, ha la soddisfazione di svegliarsi al canto biblico del gallo, e di vedere, dalla finestra spalancata al mattino, le tartarughe uscire dal loro covo e succhiare le melagrane cadute nella notte sotto il peso della loro abbondanza? Se nella Roma nostra uno non è poeta, è perchè adesso è di moda il cuore duro; e la vita non basta viverla di contemplazione. Bisogna camminare: e, dopo l’uscita delle tartarughe sornione, si vede anche, nel primo mattino, l’esodo, verso la Città grande, delle agili e ben vestite commesse di negozio, degli impiegati, degli studenti: teorie di bambini, che hanno i colori dei fiori, vanno a scuola: il quartiere resta in dominio delle massaie, ed è confortante sentirle pestare il lardo per gli squisiti minestroni casalinghi, o cucire a macchina o sbattere i tappeti. Passa l’arrotino, passa il venditore di scope, passa l’ombrellaio: le loro voci sono diverse, acuta e squillante quella del primo, quasi per dare l’idea delle sue lame bene affilate; chiara e rapida quella del secondo, e caratteristica ma non ben definibile quella dell’uomo che aggiusta gli ombrelli: è una voce che a volte ha l’eco del grido del corvo; annunzia il cattivo tempo, i grandi cieli invernali fumosi e agitati come campi di battaglia; a volte è lunga, cadenzata e monotona, per ricordarci le pioggie interminabili dalle quali ci vuol riparare.
Semplici voci di villaggio, alle quali si aggiungono quelle del venditore di ricotta e del pescatore di ranocchie: entrambe fresche di pastura e di fossi erbosi. Ma d’estate la più gradita è quella del venditore di gelati, fermo col suo carrettino celeste sotto le robinie del campo del tennis sul marciapiede innaffiato: voce che, se dà molestia ai dormiglioni e agli scrittori che trovano buona ogni scusa per non mettere giù il capolavoro, trasporta nel fresco d’una colonia marina i bambini rimasti a casa e le donne che sudano a lucidare i pavimenti.
A mezzogiorno, poi, in ogni stagione, passa il monumento diafano, azzurro e brillante, del carro dell’acqua acetosa: la donna che vi troneggia sopra non si scompone a gridare, poichè tutti corrono a lei con le bottiglie vuote, come verso una fontana miracolosa, che guarisce novantanove su cento dei mali umani. E il centesimo, chi lo guarisce? Forse la musica zingaresca dell’organino che attacca con violenta esultanza l’inno Giovinezza; o la voce pastosa del portalettere che risona da una strada all’altra e fa battere il cuore anche ai vecchi pensionati e alla gente che non aspetta più nulla dalla vita.
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La parola «villaggio» non offenderà dunque i pescicani, le aviatrici, i divi, e tutti i modernissimi abitanti dei palazzi intorno a noi. Il nostro quartiere è sempre quello piccolo che ci siamo costruiti noi coi nostri risparmi; nostri i giardinetti con le fontane non più grandi di una coppa per sciampagna; nostri i negozietti sotterra, con le scalette precipitose; nostra la luna che sorge dai monti Albani ed è sempre quella della nostra fanciullezza.
Via Porto Maurizio è ancora l’arteria che, dopo via Forlì, dà lustro al quartiere; da questo quieto porto noi, del resto, siamo un bel giorno salpati, come avventurosi stracittadini, verso i mari gelati e le metropoli scintillanti ai confini della terra abitata; da esso, un altro bel giorno, in una barca d’ebano decorata d’oro e lieta di ghirlande di rose, salperemo verso il paese dei cipressi, che ci sembra qui limitrofo, ed è invece oltre i confini della terra.