La Tirnità de pellegrini (1836)
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LA TIRNITÀ DE PELLEGRINI.[1]
Ma la gran folla, la gran folla, spósa,[2]
In quella Tirnità de Pellegrini!...
Se stava un zopr’all’antro:[3] era una cosa
Da favve intorcinà[4] ccome stuppini.
Ma a vvedé le paìne e li paìni![5]...
Uhm, la ggente der monno io nun zo,[6] Rrosa,
Quanno che nnun ze spenneno[7] quadrini
Com’ha da èsse[8] mai ttanta curiosa.
C’è svienuta un’ingresa furistiera,
Che Ddio lo sa ssi[9] arriverà a ddimani.
Pareva una cuccarda ggialla e nnera.
Eppoi che cce se vede,[10] spósa mia?
Maggnà e bbeve[11] du’ preti e ddu’ villani:
Gusto che ppòi levatte[12] a oggn’osteria.
31 marzo 1836.
Note
- ↑ [V. l’altro sonetto così intitolato, del 9 apr. 46.] La Trinità de’ Pellegrini: ospizio dove i pellegrini sono mantenuti per tre giorni. Nelle sere più solenni della settimana santa ivi è concorso di curiosi, per vederli cenare serviti dai confratelli in sacco rosso, color di polmone, fra i quali per affettata umiltà si annoverano principi e talora anche piccoli sovrani.
- ↑ Pronunziato coll’o chiuso. [V. la nota 1 del sonetto: La Lavannara ecc., 14 magg. 43.]
- ↑ Si stava un sopra all’altro.
- ↑ Da farvi rintorcere.
- ↑ [Paìno corrisponde a quel che i Fiorentini, forse per antifrasi, chiamano logica; ma si estende anche, come in questo caso, a significare “qualunque persona vestita con cittadinesca eleganza;„ e se ne forma paìna, painetto, painetta, painerìa e impainàsse (impainarsi), voci in uso anche nell'Umbria.]
- ↑ Non so.
- ↑ Non si spendono.
- ↑ Essere.
- ↑ Se.
- ↑ Che ci si vede.
- ↑ Mangiare e bere.
- ↑ Che puoi levarti.