La Scimitarra di Budda/9. Bianchi e gialli

9. Bianchi e gialli

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9.

BIANCHI E GIALLI


Il povero americano, appena l'ira gli sbollì, comprese che razza di balordaggine aveva commesso e che uragano erasi attirato sul capo. Avrebbe dato metà del suo sangue per trovarsi fuori di quel ginepraio.

Aveva un bel dire che qualcuno dei suoi compagni sarebbe accorso in suo aiuto, ma intanto non vedeva dinanzi a sé che una folla minacciosa, urlante, che agitava moschetti, picche, scuri e bastoni, e che si preparava a farlo a pezzi. In mezzo ad essa, si scalmanava il taverniere, eccitando i più coraggiosi a irrompere nella taverna e a sfondare la barricata.

Per alcuni minuti tutta quella canaglia urlò, lanciando di quando in quando dei sassi che fracassavano le lanterne e i vasi di liquori, poi, visto che il nemico non osava mostrarsi, sei o sette uomini, senza dubbio i più arditi, armati di picche e di scimitarre, varcarono la porta.

L'americano vedendoli emise un profondo sospiro.

– Orsù, è proprio finita – mormorò. – Eccomi preso in trappola come un misero topolino. Ragazzo mio, ci vuole del coraggio per fare una marmellata di quei musi gialli. All'opera!

Attirò a sé una tavola, armò le pistole e diresse le canne verso la porta.

I sette od otto cinesi, incoraggiati dall'arrivo di una banda di facchini, entrarono risolutamente nella taverna e s'avvicinarono alla barricata. Vedendo però l'americano alzarsi con le pistole in pugno, si arrestarono indecisi, e tre o quattro, temendo per la propria pelle, alzarono i talloni.

– Benone – mormorò James. – Non hanno molto coraggio questi briganti. Toh, se saltassi fuori?

Si raccolse su se stesso e balzò sui banchi urlando per dieci e puntando le armi.

I cinesi voltarono le spalle fuggendo precipitosamente. Dalla strada furono sparate alcune archibugiate, ma senza buon successo.

– Briganti! – urlò James. – Aspettate un po'!

Si ritirò dietro la barricata e mirò un cinese di statura gigantesca che stava caricando un moschetto presso la porta.

– Va' a trovare Budda! – gridò facendo fuoco.

Il gigante cadde al suolo mandando un urlo di dolore. Alcuni uomini si gettarono su di lui e lo trascinarono via, mentre alcuni altri sparavano delle archibugiate.

James puntò la seconda pistola, ma non la scaricò. Una idea, in quel momento, gli era passata pel capo.

– Vediamo: – mormorò – sì, riuscirò, ne son certo.

Si appoggiò alla parete più vicina, che era nascosta in parte dalla barricata e fece forza. Sentì che cedeva facilmente.

– Sono salvo – disse. – Con un colpo di spalla la sfonderò, e quando sarò fuori vi sfido a raggiungermi, brutti musi gialli.

Si fece più piccino che poté, radunò le sue forze e cozzò furiosamente contro la parete che si screpolò. Con un secondo urto la sfondò e senza curarsi del piano superiore che crollava traendo seco la mobilia delle stanze, si slanciò fuori.

Non c'era un istante da perdere. Si calò il cappello sugli occhi, sprofondò le mani nelle saccocce entro le quali aveva nascosto le pistole e il bowie-knife, infilò la prima viuzza che si vide dinanzi e scappò via raccomandandosi alle gambe. Credeva di essere ormai fuori pericolo, quando udì una vociaccia rauca gridare:

– Eccolo! Dalli!... Dalli!...

L'americano non volse nemmeno il capo. Si strappò la casacca, impugnò con la destra il bowie-knife e con la sinistra la pistola carica e affrettò la corsa.

Trenta o quaranta cinesi si slanciarono dietro di lui, urlando e sparando archibugiate.

– Sono perduto! – mormorò il povero americano.

In quattro salti raggiunse l'estremità della via, atterrò due uomini che cercavano di chiudergli il passo e si cacciò in un'altra strada, seguito da una folla composta di soldati, di barcaioli, di facchini, di mercanti e di contadini.

– Dalli!... Dalli!... – urlavano gli uni.

– Al fiume lo straniero! Alla cangue1 la spia! Alla brandillotta2 la pelle bianca! – urlavano gli altri.

– Ammazzatelo! – gridavano i soldati.

E questo non era tutto. Dalle finestre, dalle terrazze, dai tetti piovevano sul fuggiasco vasi, pentole, tegole, pietre, bastoni, stuoie e torrenti di liquidi puzzolenti.

Il disgraziato americano, inseguito in tutte le vie, assordato dalle urla e dalle detonazioni, inzuppato d'ogni sorta di liquidi, contuso dai sassi e dalle tegole, non ne poteva più. Con un ultimo sforzo egli giunse sull'angolo di una nuova via, dove quattro barcaioli urlavano spaventosamente agitando nodosi bastoni.

– Largo! Largo! – tuonò egli alzando il bowie-knife.

– Fermatelo! Dalli! Ammazza! Ammazza! – urlò la folla che lo inseguiva con accanimento senza pari.

– Vigliacchi! – gridò l'americano pallido per l'ira. – Volete proprio ammazzarmi? Largo!

Con un calcio poderoso mandò a gambe levate un barcaiolo, con un pugno rovesciò un altro addosso al muro e partì di carriera. Un sasso lo colpì alla nuca, una tegola lo ferì in faccia, una pentola gli schiacciò il cappello, ma continuò a correre. Aveva visto l'albergo disegnarsi di fronte alla viuzza; nessuno sarebbe più stato capace di arrestarlo. In dieci salti percorse la distanza e si precipitò verso la gradinata dell'albergo. Nell'istesso momento il Capitano e il polacco mettevano alla porta l'albergatore e i suoi quattro guatteri.

– James!

– Giorgio!

Non dissero altro. I tre avventurieri rientrarono precipitosamente nell'albergo, barricando la porta con tutte le mobilie del pianterreno.

– Mille milioni di fulmini! – esclamò il Capitano quand'ebbero finito. – Che avete fatto, imprudente?

– Io? – esclamò lo yankee tergendosi il sangue che colavagli dalla fronte. – Non so nulla; né capisco nulla. Tutti i barcaioli, tutti i soldati, tutti i borghesi e perfino i contadini mi hanno inseguito per ammazzarmi senza che io abbia fatto nulla a loro. L'ho sempre detto io che i cinesi sono briganti!

– Avrete certamente commesso qualche balordaggine. Non importa; ditemi, avete visto Luè-Koa?

– Sì, e gli ho detto di tenersi pronto a partire.

– Come usciremo ora? – chiese il polacco.

– Per la porta – disse l'americano.

– Volete saltare dalla finestra? Io non...

Non finì. Urla spaventevoli scoppiarono al di fuori unite ad alcuni spari. Il Capitano si precipitò verso una finestra e fin dove poté spingere lo sguardo vide una folla furibonda che tendeva le armi verso l'albergo.

– Siamo assediati – diss'egli ritirandosi. – Se non troviamo un mezzo per scappare, nessuno di noi vedrà l'alba di domani.

– Abbiamo le nostre carabine – disse il polacco. – Ci difenderemo fino agli estremi.

– Ma noi siamo quattro e i cinesi sono mille – osservò l'americano.

– E abbatteranno la porta – aggiunse Min-Sì.

Nuove urla scoppiarono nella strada.

– Fuori! Fuori! – gridavano alcuni.

– Mostrate la vostra faccia, stranieri! – gridavano gli altri.

– Saliamo sul tetto e tempestiamo quei birbanti colle tegole – propose il polacco.

– Ben detto! – esclamò l'americano. – Che ne dite, Giorgio?

– Tentiamo prima di calmarli – rispose il Capitano.

– In qual modo?

– Farò un discorso.

– Vi piglieranno a sassate – disse il polacco.

– Mi ritirerò e cominceremo a sparare. Tenetevi pronti.

Aprì la finestra e si affacciò. La sua comparsa fu salutata da urla indescrivibili, urla di rabbia, urla di vendetta, urla di belve assetate di sangue. Cinquecento, ottocento, mille mani armate si tesero verso di lui.

– Cittadini di Tchao-King, – principiò egli – io non sono uno straniero come voi mi credete, ma un suddito fedelissimo dell'imperatore vostro...

– Voi mentite! – urlò una vociaccia, che l'americano riconobbe per quella del taverniere.

– Posso darvi delle prove. Ho lettere del governatore di Canton...

– Accoppatelo! – urlò un'altra voce.

– A morte la spia! Al fiume lo straniero! – vociò la folla.

– Vi prego... un po' di silenzio...

– Alla brandillotta quel cane! Al fuoco la spia!

Il Capitano, non riuscendo a farsi capire, mostrò la sua coda per far comprendere a quei furibondi che era un vero cinese. Nessuno ci badò, anzi venti fucili s'alzarono e lo presero di mira.

– Indietro! Indietro! – gridò egli respingendo i compagni che gli stavano vicini.

Urla ancor più feroci rimbombarono nella via. Si gridava, si minacciava, si batteva il tam tam e si suonava l'yo. Due o trecento fucili s'alzarono verso la finestra e l'attacco cominciò con violentissime scariche.

Una grandine di palle cominciò a piovere sull'albergo, attraversando le finestre, mandando in pezzi le porcellane e le lanterne, scrostando le muraglie, fracassando i bambù delle tramezzate e le persiane.

I quattro assediati in un batter d'occhio salirono nei piani superiori appostandosi dietro le finestre. Il Capitano diede il segnale del fuoco abbattendo un soldato che si agitava come un energumeno ai piedi della gradinata. Le tre carabine dei compagni vi tennero dietro. Altri tre uomini caddero, fra i quali il taverniere, scelto dall'americano. Tra i cinesi vi fu una breve sosta, la moschetteria cessò, ma ricominciò quasi subito con maggior vigoria. Si tirava dalla via, dalle finestre, dai poggioli, dai tetti, crivellando l'albergo. Un drappello di zappatori assalì la porta a colpi di scure, cercando di scassinarla.

La posizione diventava pericolosa. Il Capitano, l'americano, il polacco e il cinese si difendevano disperatamente, spargendo con giusti tiri la morte nelle file nemiche; ma si sentivano impotenti contro tanta folla. A ogni loro scarica i cinesi rispondevano con cinquecento archibugiate; di più la porta dell'albergo, furiosamente percossa, minacciava di crollare.

– È impossibile tener testa a tutti quei briganti – disse l'americano, raggiungendo Giorgio. – E non ho che una dozzina di cariche.

– Ed io non ne ho che due – disse il polacco mostrando la bisaccia affatto vuota.

– Gettiamo le mobilie – rispose il Capitano. – Bisogna assolutamente continuare la difesa.

– Se si salisse sul tetto? – chiese l'americano. – Con una pioggia di tegole si può sgombrare la strada.

– Ma la casa minaccia di crollare – osservò Min-Sì.

– Aspettate – disse il Capitano.

A rischio di ricevere una palla nel cranio, s'affacciò alla finestra e gettò al di fuori una rapida occhiata. Alcune palle gli fischiarono attorno, ma nessuna lo colpì.

– Sul tetto! – esclamò. – Spicciamoci, amici, non c'è un secondo da perdere.

– Volete tempestare gli assalitori con le tegole? – chiese l'americano.

– No, voglio condurvi in salvo. Ho osservato che l'albergo ha dietro di sé una sessantina di case e che la folla non si estende fino alla estremità della via. Saliremo sul tetto, passeremo sopra le case e ci nasconderemo in qualche soffitta o salteremo in istrada.

– Bravo! – esclamò l'americano. – Siete un gran generale.

– Presto, presto, e badate di non sdrucciolare, perché chi cade è un uomo morto.

Si slanciarono su per la scala, raggiunsero la soffitta e uscirono sul tetto.

– Coraggio, amici – disse il Capitano.

Si cacciarono dietro ai camini per non essere scorti dai bersaglieri che stavano sui poggioli, sulle terrazze e alle finestre delle case di faccia, e si misero a salire e a discendere, sostenendosi l'un l'altro, afferrandosi alle antenne, alle bandiere e ai comignoli, che lassù erano numerosissimi.

– Avanti! Avanti! – diceva il Capitano. – Attenti alle cadute, guardate dove posate il piede. Se sdrucciolate andrete ad infilzarvi come polli sulle lance dei cinesi. Animo, James, camminate più leggermente, frantumate tutte le tegole. Coraggio, Casimiro, sali su quella terrazza, e tu, Min-Sì, caccia la testa in quell'abbaino.

– Ah! – esclamava il povero americano aggrappandosi alle antenne, alle banderuole e ai camini. – Chi avrebbe detto che un giorno sarei scappato su pei tetti, e su pei tetti cinesi e costrettovi da cinesi? Un onorevole cittadino della libera America, dover fuggire come un ladro! Uh! Se avessi un cannone! Che marmellata di musi gialli!

Le uscite dell'americano, malgrado la critica posizione, facevano scoppiare dalle risa i compagni e soprattutto il polacco.

Il maligno giovinotto, fra un salto e l'altro, trovava tempo di lanciargli qualche frizzo.

Mezz'ora dopo, superata una delle più alte case, essi giungevano sull'ultima abitazione del quartiere, dalla quale si scorgeva il Si-Kiang, lontano appena cinquecento passi.

Il Capitano guardò giù. Erano a venti metri d'altezza.

– È impossibile saltare abbasso – disse.

– Vedo là un abbaino! – esclamò il polacco. – Esso mena sicuramente in qualche appartamento. Entriamo, signor Giorgio.

– Bravo – disse l'americano. – Fuori il coltello e avanti!

Entrarono e si trovarono in una piccola soffitta deserta. Con due spallate gettarono giù una porta e scesero in una stanzuccia abitata da una vecchia strega.

Il Capitano saltò addosso alla donna, che cominciava a gridare.

– Zitta! Zitta! Non vogliamo farti alcun male – le disse.

La cacciò in un bugigattolo, la chiuse dentro a catenaccio, poi, seguito dai compagni, discese nella via. Non vi era nessuno, ma verso l'albergo si sparavano ancora delle fucilate.

I fuggiaschi si slanciarono a rompicollo in una viuzza e giunsero presso il fiume nel momento in cui il battelliere Luè-Koa e i suoi barcaioli, armatisi di bastoni, stavano per correre verso il luogo della battaglia.

– Alla barca! Alla barca! – gridò il Capitano.

– Cosa succede? – chiese il battelliere.

– La rivoluzione è scoppiata in città. Soldati e cittadini si sgozzano per le vie.

I cinesi non ne vollero sapere di più e tornarono precipitosamente indietro.


Note

  1. Grosso collare di ferro o di legno che si mette ai prigionieri.
  2. Supplizio che consiste nell'appendere le vittime per i capelli.