La Scimitarra di Budda/10. Il tradimento dei tan-kia
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10.
IL TRADIMENTO DEI TAN-KIA
I minuti erano preziosissimi, sicché i quattro avventurieri, senza volgersi indietro per vedere se erano inseguiti o no, balzarono nella giunca, tagliando d'un sol colpo la corda che l'univa alla riva. I tan-kia, che realmente credevano fosse scoppiata la rivoluzione e che temevano di venire presi per ribelli e passati per le armi, afferrarono subito i remi e si misero ad arrancare con sovrumano vigore.
La notte calava rapidamente. In lontananza s'udivano ancora le frenetiche urla dei cinesi e lo scrosciare della moschetteria, e verso il luogo ove sorgeva l'albergo scorgevasi una fitta cortina di fiamme che s'alzava e s'abbassava con le selvagge contorsioni dei serpenti, sormontata da una nera nube di fumo e da una immensa colonna di scintille che il vento di quando in quando abbatteva.
Il Capitano, James, il cinese e il polacco, ancora pallidi per l'emozione, ancora ansanti per la lunga corsa, miravano con curiosità quelle fiamme che sempre più ingigantivano, illuminando d'una luce sinistra le tenebre sovrastanti.
– È l'albergo che brucia – disse l'americano.
– Lo vedo bene – disse Giorgio. – Guai se l'incendiavano un'ora prima!
– Nessuno di noi sarebbe qui. Povero albergatore! È rovinato! – esclamò Casimiro.
– Ehi, briccone di ragazzo! Osi compiangere quella canaglia?
– Un po', sir James.
– Tempo sprecato, ragazzo. Gli ho aggiustato una palla in fronte e a quest'ora ciancia o gioca agli scacchi con messer Belzebù o con suo cugino Budda.
– Corpo d'una pipa!
– Troppo forte, ragazzo. I cinesi ti odono.
– Non li temo più.
– Sono capaci di inseguirci, non trovando le nostre costolette fra le rovine della casa.
– Ma prima di domani avremo fatto tanta strada da far perdere a quei musi gialli ogni speranza di raggiungerci.
– Se i barcaioli terranno duro – disse il Capitano. – Essi si sono accorti, amici miei, che la rivoluzione è scoppiata per colpa nostra.
– Sicché?... – chiese l'americano.
– Sicché non sarei sorpreso se si rifiutassero di andare innanzi.
– Li costringeremo.
– Siate prudente, James. Luè-Koa è capace di farci un brutto tiro.
– Ancora?
– State zitto. Forse vi sono dei nemici imboscati sulle rive.
L'americano tacque e fissò gli occhi sulle rive che erano coperte di fitti bambù, in mezzo ai quali potevano benissimo celarsi degli uomini. Il Capitano invece fissò gli sguardi sull'incendio che rapidamente scemava.
A mezzanotte la giunca, che avanzava sempre assai rapidamente, giungeva dinanzi ad una massa nera, enorme, ferma in mezzo al fiume.
– Cos'è? – chiese il Capitano.
– Una giunca – rispose Luè-Koa.
– Se è una giunca non abbiamo nulla da temere.
– Al contrario! – esclamò il cinese con vivacità. – Quella barcaccia può contenere dei pirati.
– Avviciniamoci con precauzione – disse l'americano, preparando la sua carabina.
– E se ci prendono a fucilate? – obiettò Luè-Koa.
– Bah! Prendere a fucilate un vecchio collega? Tu sei pazzo!
Il battelliere guardò con occhio truce l'americano e diede il comando di avanzare, ma con estrema prudenza.
– Il nostro uomo conosce quella giunca – disse il Capitano all'orecchio di James. – Probabilmente ha più volte avuto a che fare cogli uomini che la montano.
– Credete che ci siano dei pirati là dentro?
– No, ma dei soldati.
La giunca, più silenziosa di un pesce, radendo la riva destra che scompariva quasi interamente sotto fitte masse di smisurati bambù, s'avvicinò a quella nera massa. Era proprio una giunca, ma assai malandata, di forme barocche, con la prua larghissima, con due alti alberi adorni di banderuole e tre o quattro cannoni di ferro in coperta. Vista così, fra quelle tenebre, colle sue vele di sottili bambù intrecciati, ammainate sul ponte, colle sue grandi cubie di prua, sembrava un immane mostro la cui voce erano i cigolii del timone girante sui frenelli e lo sbattere delle corde e dei grossissimi bozzelli agitati dal vento.
– Passeremo senz'essere disturbati – disse il Capitano. – I dieci o dodici marinai che la montano non si scomoderanno per chiederci chi siamo e dove andiamo.
– E cosa fa lì quella carcassa? – chiese l'americano.
– Il governo cinese sa che sui suoi fiumi la pirateria e la schiavitù, malgrado il divieto dell'imperatore, perdurano. Per difendere le popolazioni dalle scorrerie di quei briganti, pone qua e là qualcuna delle navi che non sono più in istato di tenere il mare.
– Vedo che quella giunca è sdruscita. In fede mia non darei due dollari di quella carcassa, nemmeno se fosse nuova. È così barocca di forme, che non oserei montarvi su per recarmi a Macao.
– Eppure i cinesi percorrono non solo i mari della Cina, ma anche quelli della Malesia su quelle navi, per nulla spaventati delle diecimila vittime che l'oceano inghiotte alla sola Canton.
– Diecimila vittime! Bisogna dire che quelle giunche sono pericolosissime.
– Non dico di no. Sono malissimo costruite, sprovviste di chiglia e pesantissime. Basta un urto perché i corvetti che ne formano l'ossatura si spostino, aprendo enormi vie all'acqua.
– Capitano, – disse in quell'istante Luè-Koa – io non vi conduco più innanzi.
– Perché, furfante?
– Ho veduto degli uomini su quella giunca e mi sembrano pirati.
– Non vedo alcuno sul ponte – osservò l'americano.
– Vi sembra, ma io gli ho veduti co' miei occhi. Quel legno è zeppo di pirati e io non ho voglia di perdere la mia giunca, né di fare un tuffo eterno in fondo al fiume.
– Hai paura di un pugno di briganti? Tira avanti e lascia pensare alle nostre carabine. Eppoi, quella là è una nave da guerra.
– Se gli stranieri vogliono farsi ammazzare, padronissimi, ma io e la mia gente ritorniamo a Tchao-King.
– E io ti dico che andrai innanzi – disse il Capitano con violenza.
– Ed io vi ripeto che ritorno – ribatté il battelliere, che aveva le sue buone ragioni per agire così. – Giunca da guerra, o giunca di pirati, io non vi passerò presso.
– E nemmeno noi – dissero i barcaioli ritirando i remi.
– Vi offro doppia paga – disse il Capitano che non voleva definitivamente romperla con quelle canaglie.
– Non accetto – rispose il battelliere. – Passata quella giunca ve ne saranno altre sette od otto in crociera.
– Ti offro venti tael per ogni giunca.
– Rifiuto assolutamente e rifiuterei anche se mi offriste mille tael.
– Ma tirerai innanzi a furia di pugni! – disse l'americano.
– E io v'intimo di lasciare la mia barca! – urlò Luè-Koa irritato.
– Luè-Koa, – disse il Capitano, afferrando il testardo per le braccia e scuotendolo furiosamente – è ora di finirla! Non sai che io debbo salire il fiume e che lo salirò a dispetto di tutte le giunche cinesi? Ripiglia il timone!
– No!
– Ripiglia il timone, ti dico.
– No, piuttosto vi scanno.
Il brigante, così dicendo, trasse il coltello, ma non ebbe il tempo d'alzarlo. Il Capitano l'afferrò a mezzo corpo, lo scosse e lo sollevò, tenendolo sopra le acque del fiume.
I barcaioli, vedendo il battelliere in pericolo, impugnarono i loro coltelli, ma non ardirono muoversi. Il polacco, James e Min-Sì avevano rapidamente armate le carabine e minacciavano di servirsene.
– Salirai? – chiese il Capitano che stringeva i fianchi del battelliere in modo da far crocchiare le costole.
– Sì, sì – esclamò il miserabile. – Volete stritolarmi?
Il Capitano lo lasciò cadere nel battello e lo spinse verso poppa.
– Non tentarmi altro, Luè-Koa – gli disse. – Abusare della mia pazienza è pericoloso.
Il battelliere, pallido di rabbia, voleva ribattere parola, ma, vedendo gli occhi del Capitano che mandavano lampi, stette zitto e riprese il remo.
La barca, tenendosi sempre presso la riva, in breve tempo raggiunse la sdruscita nave. Stava per oltrepassarla, quando una vociaccia domandò:
– Chi passa?
– Una giunca con passeggeri – rispose Min-Sì.
Un uomo apparve sulla prua della giunca, diè uno sguardo al battello, augurò la buona notte e scomparve dietro l'alberatura. Luè-Koa, appena non lo vide più, respirò come gli si fosse levato un gran peso che gravitavagli sul petto.
– Arrancate! Arrancate! – borbottò con voce tremante.
I barcaioli non se lo fecero ripetere due volte e la barca salì il fiume con una rapidità calcolata non inferiore alle sei miglia all'ora.
Alle due del mattino incontrarono una seconda giunca e più tardi una terza. I barcaioli erano sgomenti, il battelliere era affatto interrorito. L'americano invece rideva a crepapelle della paura di quei birbanti.
All'alba i tan-kia arrancavano ancora, ma erano di pessimo umore. Lanciavano sguardi irati sui bianchi, si scambiavano parole che nessuno comprendeva, osservavano l'orizzonte con inquietudine, brontolavano, bestemmiavano e altercavano per un nonnulla. Il Capitano, che non perdeva di vista uno solo dei loro gesti, si domandava la causa di quell'improvviso cambiamento.
– Che tramino qualche cosa? – mormorò. – Apriamo bene gli occhi.
A mezzodì fecero sosta in un piccolo seno seminascosto da grandi alberi e da fitti cespugli e allestirono il pranzo. Alle due, quando il Capitano diede il segnale della partenza, i barcaioli rifiutarono di muoversi dicendosi affranti. Invano l'americano minacciò, invano il Capitano promise lauti regali, invano il piccolo cannoniere-spaccamonti pregò il battelliere e i suoi uomini: furono tutti irremovibili.
Decisero di aspettare l'indomani. James, avendo scorto parecchie tracce di grossa selvaggina, occupò la giornata cacciando: il polacco, Giorgio e Min-Sì non lasciarono un solo istante il piccolo seno, temendo un brutto tiro da parte dei barcaioli, che avevano assunto un'aria provocante.
Al calare del sole il Capitano salì nella giunca con James, il polacco e Min-Sì, non volendo dormire accanto a Luè-Koa.
– Dove andate? – chiese questi.
– A dormire sulla giunca – rispose il Capitano.
– Volete farmi divorare dalle tigri?
– Accendi un fuoco e nessuna fiera si avvicinerà al tuo campo.
– Ma la giunca è mia e io la voglio.
– Ed io ti dico che non avrai nulla.
– Cane di un bianco! – urlò il battelliere furibondo.
– Dagli una coltellata – gridò un barcaiolo.
– Annegalo nel fiume – gridò un altro.
– Alto là! – gridò l'americano puntando la sua carabina verso la banda.
– Dammi la giunca! – urlò il battelliere.
– Sta' zitto, corvo maledetto. Buona notte, brigante.
Il battelliere proruppe in una spaventevole bestemmia e si slanciò verso la riva col coltello in pugno, ma il Capitano allontanò la barca.
– Domani ti strapperò il cuore! – gridò il miserabile.
– Se ne sarai capace. Buona notte, battelliere.
– Che Budda maledica te e la tua razza.
– E la tua – concluse lo yankee.
Ad un cenno del Capitano, il polacco e il cinese afferrarono i remi e spinsero la barca verso un isolotto che emergeva in mezzo al fiume, coperto da erbe, da un gruppo di bambù e da tre o quattro alberi.
– Accampiamoci – disse il Capitano sbarcando. – Quei bricconi non verranno a molestarci.
Fu legata la barca, rizzata la tenda, acceso il fuoco e preparata la cena. Calmata la fame e fumate alcune pipe di tabacco, i tre bianchi si stesero sotto la tenda. Min-Sì coricossi al di fuori.
Due ore erano già trascorse, quando un sordo tonfo giunse agli orecchi del piccolo cinese che dormiva con un solo occhio. Inquieto, prontamente s'alzò, girando attorno uno sguardo sospettoso. La notte era tanto oscura che a malapena si distinguevano le due rive. Di rumori non s'udivano che il gorgoglìo della corrente rompentesi contro il banco e lo stormire delle foglie lievemente scosse da un fresco venticello.
– Che sia stato un tapiro? – mormorò.
Uno strano scricchiolio l'avvertì che qualche cosa accadeva sulle rive dell'isolotto. Afferrò una pistola e fece alcuni passi. Con sua grande sorpresa vide la giunca dondolarsi fortemente da babordo a tribordo.
Un sospetto gli attraversò il cervello. Si slanciò verso la corda che univa la barca all'isolotto, ma si arrestò spaventato, vedendo Luè-Koa in persona che la stava tagliando.
– All'armi! – tuonò. – All'armi!
Tirò un colpo di pistola sul brigante, ma senza colpirlo. L'americano, Giorgio e Casimiro, destati di soprassalto, si precipitarono fuori della tenda, ma era oramai troppo tardi. La giunca, sotto la spinta dei sei remi, aveva rapidamente preso il largo, dileguandosi fra le tenebre.