La Scimitarra di Budda/8. La bottiglia di gin dell'americano
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8.
LA BOTTIGLIA DI GIN DELL'AMERICANO
L'avventura doveva avere la sua coda. L'albergatore, vedendoli entrare con quelle pistole e quei coltelli in mano, insospettito che fossero stranieri e spaventato di alloggiare tali persone, voleva metterli alla porta. Non ci voleva altro per raddoppiare la collera dell'americano.
– Brigante! – esclamò egli diventando rosso come un gambero. – Tu ci vuoi mettere alla porta? Mettere alla porta persone come noi? Olà, mariuolo, per chi ci prendi? Non fare tanto fracasso, per mille saette!
– Eppoi, – disse il Capitano – dove vuoi che andiamo a dormire? Non ti pare che abbiamo l'aria di galantuomini, malgrado la nostra tinta sbiadita?
– Voi cercate di ingannarmi – strillò il cinese, guardandoli biecamente. – Voi siete spie, non siete cinesi, eccettuato quell'omiciattolo là, che non si vergogna di condurre nell'interno del nostro paese dei ladroni. Andate fuori dai piedi, vi dico, che non voglio assaggiare per voi né la brandillotta né il bambù. Prendete le vostre robe e lasciatemi in pace.
– Ehi, galantuomo, non alzare troppo la voce né allungare troppo la lingua! – gridò l'americano mostrandogli i pugni. – Bada, perché se fai schiamazzo, ti rompo la testa prima che accorra uno dei tuoi guatteri. Io lascerò questa casaccia quando sarò stanco d'abitarvi.
– Ed io lo afferro per la coda e lo scaravento fuori della porta – aggiunse il polacco.
Il cinese, vedendo quegli uomini farglisi incontro coi coltelli, ebbe paura.
– Ma volete assassinarmi? – balbettò con un tono di voce che fece scoppiare dalle risa l'americano.
– Non vogliamo farti male, né rovinarti – disse il Capitano. – Noi non siamo cinesi, ci vuole poco a indovinarlo, ma non siamo spie come tu credi. Lascia dunque che questa notte alloggiamo qui, ma bada che, se muovi un passo verso la polizia o verso quei sei o sette farabutti che stazionano dinanzi all'albergo, ti infilzo come un fagiano e ti metto ad arrostire sul camino. Giura che ci lascerai tranquilli.
– Lo giuro – balbettò il cinese, che non aveva più sangue nelle vene.
– Siamo intesi. Uomo avvisato è mezzo salvato: bada ora a quello che farai.
Gettò un pugno di monete sul tavolo e salì nella stanza coi compagni sbarrando la porta. Accesa la lanterna di talco e cenato in fretta con un'oca in salsa verde, tennero consiglio.
Rimanere in quell'albergo con l'uragano che brontolava in città era pericoloso. Vi era da temere un assalto da parte della ciurmaglia, i cui capi erano di guardia dinanzi all'albergo e fors'anche una visita della polizia, un arresto e quindi una espulsione dalla Cina. Correvano il pericolo di perdere per sempre la Scimitarra di Budda e per conseguenza la scommessa.
– Siamo in un brutto impiccio – disse il Capitano. – Se rimaniamo qui, passeremo senza dubbio un brutto quarto d'ora; ma come uscire e, usciti che saremo, dove troveremo i barcaioli? Eppure bisogna affrettarsi a raggiungere la giunca; questa è la mia opinione.
– E che! – gridò l'americano. – Avete paura di una banda di ragazzacci? Son diventate femminucce, adunque, i visi bianchi? Scendiamo in istrada sparando fucilate e trottiamo verso il fiume.
– Al diavolo i vostri progetti – disse il Capitano. – Non avrete fatto venti passi che vi troverete alle spalle tutta la guarnigione della città. Che proponi tu, Min-Sì?
– Io approvo il vostro progetto – rispose il cinese. – Ma saranno nella giunca i barcaioli? Bisogna prima esserne certi e poi battercela, poiché, se rimaniamo qui, domani mattina ci faranno una brutta dimostrazione sotto le finestre.
– E le nostre provviste? – chiese l'americano.
Il cinese alzò le spalle, poi disse:
– Ou-Tcheon non è lontana.
– Il cinese parla bene – disse il polacco.
– Come un coniglio – ribatté l'americano. – Che bella cosa vedere dei visi bianchi fuggire per una finestra, come dei veri ladri! Il mio sangue si ribella ad una simile ritirata. Eppoi, troveremo del whisky a Ou-Tcheon? E i barcaioli li troveremo noi?
– Qualcuno andrà a cercarli.
– E chi sarà questo qualcuno?
– Uno di noi certamente – rispose il Capitano.
– Allora andrò io – disse l'americano.
– Adagio, James. Occorre un uomo prudente per una simile impresa, e voi non siete tale.
– Cosa intendete dire?
– Che siete troppo focoso.
– Sarò prudente.
– Non vi crederò. Lasciate fare a me e vi assicuro che tutto andrà bene.
– E se andassi io? – disse Casimiro. – Sir James è pericoloso, voi siete il capo della spedizione, quindi l'ultimo che deve arrischiare la pelle, e io sono invece un intruso.
Ma anche Min-Sì intendeva di concorrere al brutto pericolo e la generosa gara minacciò di diventare interminabile. Il Capitano, per accontentare tutti, dovette ricorrere alla sorte. Scrisse tutti e quattro i nomi su pezzetti di carta, che arrotolò con cura e li gettò nel suo cappello. Min-Sì estrasse il nome dell'americano.
– Lo dicevo io che sarei il preferito – disse James con un sorriso di trionfo. – Orsù, amici, consolatevi, ché io condurrò bene la faccenda.
– Lo spero – disse il Capitano. – Spicciatevi, fate i vostri preparativi.
– Son pronto. Ma da qual parte uscirò? Dinanzi all'albergo passeggiano delle spie. Cercatemi un'altra via, se è possibile.
– Hum! – fe' il polacco. – Non sarà cosa facile.
– Non trovo altra strada che quella d'una finestra – disse il Capitano.
– Buono! – disse l'americano. – Purché non mi fratturi le gambe!
Il Capitano aprì una finestra che guardava su di una stretta viuzza fiancheggiata da casupole e da giardinetti e collo sguardo misurò l'altezza.
– Dodici piedi – disse.
– Non mi sembra troppo alta – disse l'americano. – Orsù, facciamo il salto, e se non mi vedrete tornare, dite pure che sono morto.
Strinse la mano ai compagni, scavalcò il davanzale e si lasciò cadere dritto, sprofondando sino a mezza gamba in una polvere giallastra.
– Avete nulla di rotto? – chiese il Capitano con ansietà.
– Sono tutto d'un pezzo – rispose l'americano.
– Vedete gente all'estremità della via?
– Nemmeno un gatto. Avanti.
Salutò i compagni colla mano e si mise in cammino colla mano sinistra sul calcio di una pistola.
La notte era oscura, senza stelle e senza luna, una notte da imboscate. Non si vedeva anima viva, fuorché qualche magro cane che dissetavasi nelle pozzanghere e non si udivano rumori salvo che il cigolìo delle banderuole e dei draghi che il vento faceva girare.
– Hum! – mormorò l'americano. – Che notte! C'è buio più che nel fondo della canna d'un cannone da trentasei. Orsù, coraggio, mio caro James, e occhi aperti e orecchi tesi. Ah! Se potessi trovare quei cani di barcaioli! Eh! Sarà un affare un po' serio. Scommetterei mille dollari contro uno che si sono ubriacati e che russano allegramente in qualche taverna.
Così monologando, il bravo yankee percorse tutta la viuzza e sboccò in una larga strada in mezzo alla quale saltellavano alcuni cani.
Due o tre di essi gli mostrarono i denti e ringhiarono in un modo inquietante.
– Maledetti cani! – esclamò. – Anch'essi urlano contro gli stranieri. Che paese è mai questo? Sono tutti idrofobi?
Stava per girare l'angolo di una casa quando si trovò di fronte ad un uomo. Era un cinese alto quasi sei piedi, con due larghe spalle, una testa enorme e due baffi lunghi mezzo braccio.
– Oh! – esclamò lo yankee, mettendo le mani sulle pistole.
– Oh! – esclamò il gigante.
S'avvicinò all'americano e lo guardò dall'alto in basso, poi, senza dubbio soddisfatto di quella ispezione, si mise a ridere fragorosamente, aprendo una bocca che giungeva quasi fino agli orecchi.
– Per Bacco! – esclamò l'americano. – Sei abbastanza audace, mio caro Ercole, per ridermi sotto il naso, ma ti avverto che se sei un ladro non ti darò un sol sapeke.
Il gigante continuò a ridere.
– Cosa trovi sul mio volto che ti fa ridere tanto? – chiese l'americano, che cominciava a perdere la pazienza.
– Sei uno straniero, tu – disse il gigante.
– Ah! Mi conosci? Tanto meglio, avanti, gira sui talloni, marche! – gridò James impugnando una pistola.
Il colosso non si fece ripetere due volte l'intimazione. Girò sui talloni e si allontanò di galoppo prendendo una stretta viuzza.
– Là, così va bene – mormorò l'americano. – Al trotto.
Armò la pistola e allungò il passo, guardando a destra e a sinistra e arrestandosi di quando in quando per tendere gli orecchi.
Percorse sette od otto vie, seguito da una banda di cani che mandavano lugubri ululati, poi giunse in una larga piazza dove si arrestò nuovamente udendo uno strano rumore.
Era un lungo muggito confuso a mille scricchiolii e a sordi colpi.
– È il fiume! – esclamò. – Dio sia ringraziato.
Affrettò il passo e in breve giunse sulle rive del Si-Kiang, ingombre di barche e di barconi, su' cui alberi brillavano grandi lanterne di carta oliata. La corrente, che scendeva con furia, muggiva e rimuggiva nel frangersi e faceva scricchiolare tutti quei legni che si urtavano l'uno contro l'altro.
Si spinse fino al molo e dopo una lunga ispezione trovò la giunca legata ad un palo. Vi entro e sollevò la tenda, ma era vuota.
– Dove si sono cacciati quei cani di barcaioli? – mormorò con stizza. – Eccomi in un bell'impiccio. Cosa fare ora?... Aspettiamoli.
Si stese mollemente su di una stuoia, caricò la pipa, l'accese e attese senza più curarsi dei suoi compagni che l'aspettavano fra ansie crudeli. Per un po' di tempo tenne aperti gli occhi, ma poi, un po' per la fatica, un po' perché dolcemente cullato dalla corrente, lasciò cadere le palpebre e profondamente s'addormentò. Si svegliò al fracasso che faceva la popolazione acquatica occupata ad allestire le barche.
– Benone, – mormorò l'americano stiracchiandosi le indolenzite membra – la città si sveglia, speriamo che anche i tan-kia si sveglino.
Si accomodò sulla stuoia e riaccese la pipa.
Il sole si alzava rapidamente, indorando le cime dei monti, poi le cime dei comignoli più elevati, le guglie, le antenne, le terrazze, i templi e giù giù le case, le casupole, le capanne e le piantagioni.
Sotto ogni coperta, sotto ogni stuoia che copriva le barche, faceva capolino l'abbronzato volto di un barcaiolo che osservava il tempo; ad ogni finestra appariva una testa rasa o gialla come un popone, e ad ogni porta un naso schiacciato e un paio di baffi pendenti. Qui s'udiva una chiamata, là uno scroscio di risa, altrove allegre esclamazioni, ritornelli monotoni, uno sbattere di remi, un cigolìo di carrucole, uno scricchiolìo di antenne che venivano issate. Alcuni barcaioli attingevano acqua, altri pulivano i battelli, rizzavano attrezzi, spiegavano vele, salpavano le ancore.
Erano trascorsi più di quaranta minuti, quando da una via James vide sbucare mastro Luè-Koa che barcollava magnificamente.
– Ecco il brigante – disse saltando sulla riva. – Ehi, ubriacone di casa del diavolo, sono quattro ore che ti aspetto.
– Ah! – esclamò il cinese, sorpreso. – Siete voi? Vi credevo addormentato in qualche taverna, o a cavalcioni di una botte di chou-chou1. Avete passato la notte nella mia giunca?
– No, per mille saette! Son qui venuto per farti preparare la barca, e ti ripeto che son quattro ore che ti aspetto.
– Ho giuocato tutta la notte con un lavadu di Ou-Tcheon. Si parte?
– Sfido io! Tutti gli abitanti sono diventati idrofobi e ci urlano dietro.
– Ah! – fé' il pilota con un riso sardonico. – E partiremo senza aver fatto le provviste?
– Le farai tu. Eccoti due tael, e non dimenticarti di imbarcare un barilotto di sam-sciù. Spicciati.
Pigliò al volo le due monete e se ne andò, ma senza fretta e ridendo come un pazzo.
– Che il diavolo ti impicchi! – esclamò l'americano. – Ed ora rechiamoci nella taverna di ieri sera a comperare un paio di bottiglie di gin. Senza una sorsata di quel liquore non si viaggia bene in questo brutto paese.
Girò sui talloni e ritornò in città. Dopo aver percorso un mezzo chilometro, giunse alla taverna. Si guardò d'attorno temendo di avere qualche spia alle calcagna, esaminò le pistole ed entrò a testa alta con una cert'aria da conquistatore.
Il taverniere stava seduto dietro il suo banco ed era solo. Scorgendo l'americano sbarrò gli occhi e la più grande meraviglia si dipinse sul suo volto.
– Amico mio, – disse James ridendo – hai paura, che mi fai quegli occhi?
– No – disse il taverniere. – Mi sorprende invece la tua audacia.
– Non occuparti se io sia audace o no. Ecco un tael, portami dieci bottiglie di gin.
– Dieci bottiglie! Il mio gin vale assai di più.
– Cosa dici, cane d'un taverniere?
– Che il mio gin vale un mes la bottiglia.
– Tu sei un ladro! – esclamò l'americano che cominciava a scaldarsi. – Fortunatamente sono ricco e pagherò quanto tu chiedi. Spicciati.
Il cinese si grattò la nuca, ma non si mosse. Quel birbante sembrava imbarazzato.
– Ebbene? – chiese l'americano.
– Gin non ne ho. Se volete del sam-sciù...
Il taverniere fece per andarsene, ma l'americano con due salti lo raggiunse.
L'aveva sorpreso a fare un gesto ad un uomo che era improvvisamente comparso sulla porta della taverna.
– Tu mi tendi un agguato! – urlò lo yankee furibondo.
– Io!... – esclamò il cinese.
James l'afferrò per il collo e lo trascinò presso la porta mostrandogli alcuni uomini armati di moschettoni e di coltellacci, appostati presso una casupola. Il cinese impallidì.
– Vedi? – domandò l'americano. – Di' a loro di andarsene, o ti rompo la testa contro il muro.
– Io non conosco quegli uomini.
– Sgombrami la via, ti dico.
– Lasciatemi – gridò il taverniere.
– Sgombrami la via – ripeté l'americano.
– Aiuto! Accoppate questo straniero!
L'americano mandò un vero ruggito. Afferrò il cinese a mezzo corpo, l'alzò e lo scagliò in mezzo alla strada rompendogli la testa contro i ciottoli. Ciò fatto, rovesciò i tavoli e le sedie, formò una barricata e vi si nascose dietro, mentre trenta o quaranta cinesi si affollavano dinanzi alla porta urlando a squarciagola e agitando minacciosamente le armi.
Note
- ↑ Bevanda molto spiritosa.