La Scimitarra di Budda/7. Tchao-King
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7.
TCHAO-KING
Tchao-King, o Ciao-King, è situata sulla riva destra del Si-Kiang, a venti sole leghe da Canton. È una città di molta importanza, quantunque non molto vasta, difesa da bastioni e cinta da solide muraglie, con popolosi sobborghi ombreggiati da bellissimi giardini, con belle case dipinte a vivaci colori, sormontate da terrazze di bambù, da antenne, da comignoli e comignoletti e da una vera foresta di banderuole di tutte le forme e di tutte le dimensioni. Ha un bel palazzo abitato dal governatore della provincia e una superba torre a nove piani, robusta, massiccia, a tetto arcuato.
I quattro avventurieri, indossate nuove casacche scendenti fino al ginocchio e aperte da un lato, cinte larghe fasce, assicuratesi le false code alla nuca e messisi in testa i grandi hong-coi-mo, sbarcarono sul molo.
Facchini, barcaioli e negozianti lo ingombravano, quantunque fossero appena le sette del mattino. I nostri uomini attraversarono in fretta quella folla e s'incamminarono per una larga strada fiancheggiata da botteghe abbastanza belle, con insegne veramente mostruose, da casette dipinte di giallo, di rosso, di verde, da graziosi giardini e da filari di alberi. Avevano già percorso un quarto di lega cercando un albergo, quando il Capitano s'accorse che alcuni cinesi li seguivano a certa distanza facendo gesti di meraviglia.
– All'erta, amici – diss'egli. – Siamo spiati.
– Da chi? – domandò l'americano.
– Da un gruppo di oziosi.
– Bah! Non c'è da inquietarsi per tre o quattro briganti. Forse invidiano i nostri baffi che hanno le punte rivolte al cielo, invece di pendere umilmente verso terra. Siamo bianchi, miei cari, e di razza pura, noi.
L'americano, per far meglio vedere i suoi baffi, li rialzò alquanto, ma in quell'atto gli sfuggì il cappello, mostrando la sua testa irta di lunghi capelli rossi. I cinesi mandarono un grido di sorpresa.
– Corpo di una pipa! – esclamò il polacco. – Cosa diavolo fate che quei cinesi strillano?
– Niente paura, Casimiro. Ora che hanno ammirato la mia testa, non ci seguiranno più. Mostra anche la tua, ragazzo mio.
– Non commettiamo imprudenze, James – disse il Capitano. – Volete farci assassinare o espellere dalla Cina?
– Bah!
– Zitto!
In cima alla via s'udiva un rullìo, un salmodiare monotono, un rullar fragoroso di tam tam e un concerto di pifferi che lacerava le orecchie. La gente accorreva in massa schiamazzando verso quel luogo.
– Oh! – esclamò l'americano, cacciando le mani nelle saccocce dove teneva le pistole. – Cosa c'è?
– Qualche processione, senza dubbio – disse Min-Sì. – Forse un matrimonio o un funerale.
– Accorriamo! – esclamò l'americano, prendendosi in mano la zimarra per non cadere.
I quattro viaggiatori raggiunsero la folla, in mezzo alla quale sfilava una strana processione. Una ventina di suonatori aprivano la marcia battendo furiosamente su dei sonori tam tam e soffiando, a rischio di scoppiare, in certi pifferi e in certe grosse ocarine. Dietro a loro venivano altrettanti cantori che salmodiavano dei versetti di Confucio, indi una lettiga dorata, sostenuta da una dozzina di paggi, poi un bel cinese, vestito sfarzosamente e montato su di un bianco cavallo, un servo recante un cuscino con suvvi una chiave e da ultimo una lunga fila di persone munite di lanterne accese e cariche d'ogni sorta di regali.
Min-Sì e il Capitano capirono subito di che si trattava.
– È un matrimonio – disse quest'ultimo all'americano.
– Toh! La credevo una processione! – esclamò sir James. – E gli sposi, quali sono? Forse quel petulante cavaliere e quella lettiga?
– Sì, un fidanzato che forse non conosce nemmeno la sposa.
– Oh! Questa è curiosa!
– I matrimoni, in Cina, si concludono senza che i fidanzati si siano conosciuti. I padri si intendono fra di loro, le donne fissano la somma che dovrà sborsare lo sposo ai parenti della sposa, si scambiano regali e si uniscono senz'essersi amati...
– Curiosa...
– Lo sposo non conosce la sua cara metà che per la descrizione che ne fanno i parenti. Se questi alterano però l'età, tanto lo sposo che la sposa hanno il diritto di annullare il matrimonio. Alcune volte, e non crediate che io le inventi, concludono i matrimoni prima ancora che gli sposi siano nati.
– Si direbbero frottole.
– Vi narro delle verità, James.
– Ed ora dove va questa processione?
– Alla casa dello sposo, dinanzi alla quale verrà aperta la lettiga.
– Sicché noi, seguendo il corteo, vedremo la sposa?
– Sì, James.
Il corteo, seguito da una folla di curiosi, percorse le vie principali della città, poi si arrestò dinanzi ad una casa di bella apparenza, con verande e terrazze dipinte a nuovo e sormontata da una foresta di bandiere di carta di tutti i colori e di tutte le dimensioni. Il fidanzato discese da cavallo, prese la chiave che gli veniva sporta e si avvicinò alla lettiga.
I tre bianchi, a furia di spinte e anche di pugni, raggiunsero la prima fila. L'americano, per meglio vedere, inforcò un paio d'occhiali di quarzo.
– Vediamo questa cara fanciulla – borbottò egli.
Il fidanzato con mano tremante aprì la lettiga. L'americano, aguzzando gli occhi, scorse una fanciulla, che quantunque fosse una cinese, trovò straordinariamente bella, ma tale non parve al fidanzato, poiché, invece di invitarla a scendere, richiuse violentemente la porta, risalendo tutto confuso a cavallo.
– Che vuol dir ciò? – chiese l'americano stupefatto.
– Che il fidanzato rifiuta la ragazza – rispose il Capitano.
– Sicché torna via solo.
– Perdendo, per di più, la somma che aveva sborsata ai parenti della giovinetta.
– Oh, povero diavolo! Perdere tanto in un sol colpo è troppo.
– Usciamo da questa folla – disse Min-Sì all'orecchio di Giorgio. – Ho scorto quei tre o quattro oziosi che ci seguivano poco fa.
– Che abbiano delle cattive intenzioni?
– Può essere. Affrettiamoci, Capitano.
Uscirono dalla folla e si allontanarono con passo rapido. Non si arrestarono che dinanzi ad un albergo di rispettabile apparenza, uno dei migliori di Tchao-King.
Salirono la gradinata ed entrarono in un vasto salone le cui pareti erano coperte di carta fiorata di tang-poa e il pavimento di lucentissimi scacchi. All'ingiro v'erano dei tavolini bassi assai, ingombri di porcellane, delle leggerissime sedie di bambù e delle stuoie artisticamente lavorate. In un angolo, un bizzarro orologio composto di un bastoncino d'incenso, segnato a eguali distanze bruciava spandendo un grato profumo, bruciando le tacche che volevano essere ore.
Un omiciattolo, con un paio di enormi occhiali sul naso e un kwei-sheu, o ventaglio di foglie di palma, in mano, mosse incontro a loro inchinandosi a più riprese e borbottando:
– Isin! Isin!1
Il cinese della compagnia lo informò di ciò che desideravano, cioè un lauto pranzo, e delle stanze. Il trattore, dopo nuovi inchini, li condusse in una seconda stanza e servì loro un pranzo che l'americano trovò eccellente.
Una abbondante bevuta di thè, servito in chicchere di Ming color verde acqua di mare, e alcune tazze di una birra assai forte finirono col renderli molto allegri.
Il sole cominciava a declinare quando, armati di coltelli e di pistole, lasciavano l'albergo coll'intenzione di recarsi in qualche taverna a bere una bottiglia di liquore.
Con loro grande sorpresa e stizza, ai piedi della gradinata dell'albergo scorsero un gruppo di cinesi che pareva li aspettassero. Uno di quei curiosi osò guardare l'americano sotto il naso.
– Cos'hai, giovinotto, da guardarmi così? – chiese sir James, dandogli una potentissima spinta.
Il cinese si mise a ridere sgangheratamente e raggiunse i compagni.
– Corpo di una pipa! – esclamò il polacco calandosi con un pugno l'hong-coi-mo sugli occhi. – Pigliamo il largo, ché ho scoperto uno di quelli che stamane ci seguivano.
Volsero i talloni, e tutti e quattro si allontanarono, senza accorgersi che due di quei cinesi si erano messi a seguirli. L'americano, che guardava attentamente a destra e a sinistra, non tardò a scoprire una tavernaccia.
– In fede mia, – diss'egli arrestandosi davanti alla porta – vi è della confusione lì dentro, ma ciò non c'impedirà di fare un brindisi all'Italia, all'America e alla Polonia.
Quella taverna era addirittura spaventevole. Una cinquantina di individui, abbrutiti dalle orge, cenciosi, ubriachi fradici, in piedi, o seduti, o sdraiati a terra, ingollavano infernali bevande all'incerto chiarore di una mezza dozzina di lanterne appese alle pareti nere e sudicie.
Alcuni, pallidi, disfatti, inebetiti, fumavano l'oppio, emettendo risa smodate, agitando le labbra come volessero bere in una coppa immaginaria e spandendo all'intorno un'onda di fumo oleoso, fetente, soffocante.
Gli avventurieri, fattisi animo, si tuffarono in quella atmosfera satura di effluvii velenosi, e si assisero all'estremità di una tavolaccia zoppicante.
Il taverniere, un uomo obeso, dal volto bestiale, con la coda avvolta attorno al capo, si fece innanzi chiedendo cosa desideravano.
– Del whisky, galantuomo, ma del whisky americano – disse James facendogli brillare dinanzi agli occhi un tael.
– Chi parla di whisky? – chiese ruvidamente il taverniere. – Non si conosce questa bevanda a Tchao-King.
– Vada pel gin – disse Giorgio.
L'americano gettò sul tavolo due mes e le due bottiglie furono portate. Il polacco stava sturandone una, quando sei o sette cinesi entrarono sedendosi di fronte agli avventurieri.
– Oh! – esclamò il Capitano. – Ancora gli spioni!
– Oh! – esclamò l'americano, stringendo le pugna. – Quei furfanti cominciano ad annoiarmi.
– Prudenza, James.
– Finché non faranno nulla, Giorgio. Poi... oh! Ci divertiremo.
L'americano empì le tazze e vuotò la sua.
– Il taverniere ci ha ingannati – gridò.
– Questo non è gin – disse il Capitano. – È sam-sciù mescolato con qualche altro liquore.
– Taverniere ladrone! – mormorò il polacco. – Eppure non è cattivo, e son certo che quegli spioni là vuoterebbero volentieri le nostre bottiglie, se potessero averle in loro mano. Guardate come le ammirano.
– T'inganni, ragazzo, – disse l'americano – guardano noi.
Infatti quei sei o sette cialtroni guardavano attentamente gli avventurieri e parlavano con molta animazione. Dopo di aver vuotato alcuni vasi di sam-sciù, non si accontentarono più di guardare e di ciarlare, ma si misero a ridere insolentemente e più d'uno mostrò la scintillante punta del suo coltello.
– L'aria si oscura, amici miei – disse il Capitano.
– Lo vedo bene – disse l'americano che si agitava sulla sedia.
– Abbandoniamo questo luogo prima che scoppi qualche uragano – suggerì il prudente Min-Sì.
– Ancora una mezz'ora, poi ce ne andremo – disse l'americano.
– Battiamocela, – comandò il Capitano – qui si trama qualche cosa.
Vuotarono le tazze e si alzarono per uscire, ma si arrestarono subito vedendo sei o sette barcaioli seminascosti dietro le piante di thè che abbellivano l'entrata della taverna.
– Oh! Oh! – esclamò l'americano, inarcando le braccia. – Ci si comincia a divertire.
– Tutti dietro a me – comandò Giorgio.
Camminò dritto verso il primo barcaiolo che sbarrava il passo e lo respinse vigorosamente gridandogli:
– Fammi largo!
Il barcaiolo si mise a ridere. L'americano si slanciò innanzi e con un terribile pugno applicatogli in mezzo alla faccia, lo mandò a gambe levate:
– Avanti! – gridò.
Ributtarono gli altri barcaioli che accorrevano in aiuto del loro compagno e trottarono verso l'albergo, ma fatti dieci passi nuovamente si arrestarono.
– I cinesi! – esclamò il polacco.
Una truppa d'uomini, munita di lanterne e armata di bastoni, occupava l'estremità della via. Urla acute salutarono la comparsa dei quattro avventurieri.
– Che facciamo? – chiese l'americano.
– Tiriamo innanzi – rispose il Capitano.
– Ma bisognerà venire alle armi – osservò il polacco. – Succederà un gran baccano e accorreranno i soldati.
– Hai ragione, Casimiro – disse il Capitano. – Volgiamo a dritta.
Svoltarono l'angolo di una stretta viuzza e partirono di corsa, ma fatti cinquanta metri si trovarono dinanzi ad una seconda banda di cinesi, la quale si mise a urlare:
– Fan-kwei weilo! Weilo!2
– Siamo presi! – esclamò il Capitano.
– Attacchiamoli – disse l'americano.
– Ma faremo baccano.
– E allora?...
– Ritorniamo.
– E ci troveremo dinanzi ad un terzo drappello di briganti.
– Sir James ha ragione – disse il piccolo cinese.
– Allora attacchiamoli! – comandò il Capitano. – Mano alle armi e avanti!
Armarono le pistole e affrontarono coraggiosamente la banda. Il Capitano respinse il primo uomo che urlavagli contro e gli mise sotto il naso una pistola gridando:
– Largo! Largo!
Il furfante, atterrito, indietreggiò vivamente fin presso i compagni, i quali s'affrettarono pure a sgombrare la via.
I quattro avventurieri svoltarono l'angolo della stradicciola e si cacciarono in mezzo ad un vero labirinto di viuzze. Una mezz'ora dopo, ansanti per la lunga corsa, giungevano dinanzi all'albergo, mentre sei o sette cinesi attraversavano correndo la via, seguiti a poca distanza da una compagnia di soldati.