La Scimitarra di Budda/6. L'isolotto

6. L'isolotto

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6.

L'ISOLOTTO


La notte fu tranquilla. Non ci furono allarmi, né visite di belve, né visite di ladri, quantunque questi pullulino in tutte le province cinesi e specialmente lungo i fiumi, dove esercitano su vasta scala la pirateria. Quando il polacco mise la testa fuori della tenda, i tan-kia e il pilota dormivano ancora.

– Ah! Sir James, – diss'egli rivolgendosi all'americano che sbadigliava come un orso che non dorme da una settimana – il nostro whisky era proprio di prima qualità, poiché quei dannati barcaioli dormono ancora e con una beatitudine che fa venire la volontà d'imitarli.

– Tu vuoi burlarmi, cacciatore di oche – rispose l'americano, ruvidamente. – Ma sta' a vedere, ragazzo mio, che tiro giuocherò a quei cani di musi gialli. Non andranno no, a strombazzare ai quattro venti di aver burlato un onorevole cittadino della libera America.

– Ed io, se sarà possibile, vi darò una mano.

– Non spingiamo di troppo le cose – fe' osservare il Capitano. – Luè-Koa potrebbe tradirci a Tchao-King e sollevare contro di noi la popolazione.

– Al diavolo Tchao-King! – esclamò lo yankee. – Poffare! Che tre uomini della nostra fatta abbiano paura di un pugno di cinesi? Via! Voi scherzate.

L'americano, senza dir altro, uscì seguito dal polacco. Vedendo Luè-Koa che stava per alzarsi e aprire gli occhi, gli corse addosso.

– Ah! Sei qua, pezzo d'animale! – gli gridò piantandoglisi minacciosamente dinanzi colle mani chiuse. – Dov'è il mio whisky?

– Date degli animali ai vostri pari, innanzi tutto – rispose insolentemente il cinese.

– Eh! Sei ancora ubriaco, pirata! – gli urlò agli orecchi il polacco, misurandogli un pugno.

– Rompetegli la testa, Casimiro – gridò James, alzando le mani.

Il cinese saltò indietro.

– Giù quelle mani, straniero – urlò egli. – A me, Lifu! a me, Liang!

I suoi uomini accorsero in suo aiuto.

– Ah, brigante! – esclamò James, incollerito. – Aspetta un po', muso giallo, che ti raddrizzi quei due occhi loschi. Vieni qui, Casimiro, che lo gettiamo nel fiume.

L'americano, unendo i fatti alle parole, mandò a gambe levate il pilota, il quale, prontamente rialzatosi, estrasse il coltello urlando:

– Se voi mi toccate, vi trascino dinanzi ai tribunali. Voi siete uno straniero!

– Morte agli stranieri! – vociarono i tan-kia, stringendosi attorno al pilota.

– Ah, ubriaconi! – gridò l'americano. – Giù quell'arma, brutto pirata! Vuoi rappresentare qualche ridicola tragedia?

– Giammai! – esclamò il pilota, con rabbia concentrata.

– Gli schiaccio gli occhi – gridò il polacco.

Il Capitano, udendo quel baccano, uscì dalla tenda. Vedendo i rissanti colle armi in pugno, pronti ad appiccare battaglia, si precipitò in mezzo a loro.

– Che diavolo succede? – domandò. – Volete ammazzarvi per sei bottiglie di whisky? Abbassa le armi, James.

– E tu, sta' zitto, brontolone – disse Min-Sì al battelliere. – Finirai col buscarti una palla nel cervello.

– Lasciami sgozzare uno di quei cani, Giorgio – vociò il furibondo americano. – Se non ci mettiamo rimedio, un dì o l'altro scapperanno colle nostre armi.

– Finitela, James.

– Siete troppo buono, Giorgio. Quei brutti musi gialli meritano una lezione.

La contesa, che poteva terminare con qualche morto, cessò, ma non del tutto. Vi furono ingiurie da ambe le parti, delle minacce, dei rimproveri, e ci volle tutta l'autorità del Capitano per ridurre al silenzio quegli eterni brontoloni.

Fatta piegare e imbarcare la tenda, il Capitano si affrettò a dare il segnale della partenza. La giunca, sotto la spinta dei sei remi vigorosamente manovrati, prese il largo e rimontò la corrente radendo la riva destra.

A mezzodì arrivò dinanzi ad una borgatella composta di una cinquantina di capanne, ma non poté accostarsi alla riva, in causa della popolazione, che l'accolse con urla tutt'altro che rassicuranti. Anzi, più d'uno di quei cinesi scagliò sassi contro la piccola tettoia e qualche altro alzò il fucile, risoluto, a quanto pareva, a servirsene.

– Dannati cinesi! – esclamò l'americano. – Hanno paura che ci impadroniamo del loro impero di carta pesta?

– Ah! Sir James, voi mi scandalizzate! – esclamò il polacco. – Vi pare che un Celeste Impero meriti tale ingiuria?

– Celeste Impero! Chi è quello stupido che chiama la Cina Celeste Impero?

– Tutti quanti, compresi gli americani.

– Non lo crederò mai. Perché vuoi che un impero simile meriti tal nome?

– Il perché c'è – disse il Capitano. – La Cina, mio caro, che voi tanto disprezzate, gli asiatici dicono che è una terra prediletta, un vero impero celeste, e questo non è tutto, poiché chiamano la Cina Ciung-co o Ciù-cu, vale a dire impero centrale. La nostra vecchia Europa e la vostra America, a udire loro, non sono che satelliti.

– Come! – esclamò James con un tale impeto che pareva volesse divorare il Capitano. – Quei mariuoli osano dire...

– Che la Cina è il sole e l'America un meschino satellite.

– È troppo, Giorgio, per un americano puro sangue.

– È troppo anche per un europeo, James.

– Voi mi raccontate delle frottole.

– Vi assicuro che dico la verità.

– Voi volete farmi scoppiare come una caldaia. Questi brutti musi gialli, che ancora ieri non si sapeva che esistessero...

– Ohe, James! – l'interruppe il Capitano. – Cosa dite mai? La Cina che ancora ieri non si conosceva? Ma voi siete pazzo, mio caro.

– Pazzo io?

– Diamine! La Cina si conosceva parecchi secoli prima dell'America.

– Per Bacco! – tuonò l'americano che usciva dai gangheri. – Voi errate, non è possibile; l'America fu conosciuta...

– Dopo la Cina – disse il Capitano.

– Ma no, vi dico di no.

– Ed io vi dico che si sapeva esserci un impero chiamato Cina nove secoli prima della venuta di Gesù Cristo.

L'americano si lasciò cadere sul banco, pallido come un morto, emettendo un lungo sospiro.

– Ebbene, James? – chiese il Capitano. – Che ne dite?

– Non so cosa dire. Perché non hanno scoperta l'America prima della Cina?

– Ve la prendete con Cristoforo Colombo? – chiese il polacco ridendo. – Avete torto, sir James, anzi dovreste ringraziare il grande concittadino del capitano Giorgio.

– Io lo ringrazio, ma poteva scoprirla prima.

– Consolatevi, James – disse il Capitano. – L'America, quantunque scoperta appena tre secoli e mezzo fa, ha superato di gran lunga il decrepito impero cinese. È pur vero che nei passati tempi la Cina fu alla testa della civiltà, e che si lasciò indietro anche l'Europa, ma è pur vero che da più di duemila anni si è arrestata come una macchina a cui siansi spezzate le ruote.

– Bravo Capitano! – esclamò James. – Se continuavate un minuto ancora, io scoppiava come una bomba di otto pollici.

In quell'istante la giunca approdava ad un isolotto coperto di fitte piantagioni di bambù, di piccoli gelsi, di ananassi e di arecche fornite di foglie gigantesche.

Luè-Koa, ad un cenno del Capitano, legò la barca al tronco di un albero.

– Ah, il bell'isolotto! – esclamò l'americano, saltando a terra col fucile in mano. – Guarda, Casimiro, quante anitre e quante oche svolazzano per l'aria. Faremo un macello.

– Peuh! – fe' il polacco, alzando le spalle. – Il vostro bell'isolotto non è che un pugno di terra.

– Alto là, ragazzo! Se tu disprezzi questo Eden, ti metto alla porta, ti proibisco di sbarcare.

– Non vedete che non c'è nemmeno una taverna?

– Oh, il beone! È appena sbarcato e cerca già una taverna per ubriacarsi. Brutto vizio, ragazzo mio.

– Credevo che anche voi l'aveste.

– No, ma se metto piede in una taverna, berrò tanto whisky da dormire un inverno intero.

– Ah! Sir James...

– Zitto, rosicchiamo un biscotto e poi in marcia. Andremo a cercare una bottiglia di liquore e un colossale arrosto.

I barcaioli avevano prontamente rizzata la tenda e acceso il fuoco. I due beoni divorarono una ventina di biscotti, tracannarono un paio di teiere di thè, caricarono con cura le carabine e si cacciarono in mezzo alle piantagioni.

La notte cominciava a calare. Il sole, rosso come un disco di rame, s'abbassava rapidamente dietro le grandi montagne di ponente, gettando gli ultimi sprazzi di luce sulle più alte cime degli alberi. Una brezzolina fresca fresca, carica dei deliziosi profumi delle magnolie e dei lillà, spirava facendo lievemente ondeggiare le piantagioni di bambù.

Da tutte le parti dell'isolotto, schiere di anitre azzurre, di oche, di fagiani, di gallinelle e di shui-su s'alzavano, facendo un baccano assordante colle loro grida acute e scordate.

– Il paese mi sembra disabitato – disse l'americano, dopo qualche tempo. – Come mai questo Eden non tentò quei musi gialli?

– Temo, sir James, di non trovare un sorso di whisky.

– Troveremo invece delle oche. Dirigiamoci verso la riva dove s'ode un gridìo indiavolato.

– E se...

– Alto là! – interruppe l'americano, girando sui talloni.

– Avete veduto qualche bottiglia di whisky?

– Qualche cosa di meglio, ragazzo mio. Vi sono dei beef-steak a poca distanza. Ho visto una bestia che cercava di battersela senza il nostro permesso.

– Una tigre forse? Io mi ritiro.

– Peuh! – fe' l'americano, con profondo disprezzo. – Aver paura di una tigre cinese! Orsù, salta al di là della macchia prima che la bestia si rintani.

– Corpo di una pipa! È una vera bestia!

L'americano si abbassò, seguì con la canna della carabina qualche cosa che sgattaiolava fra i cespugli, poi sparò.

Il polacco si cacciò sotto un cespuglio e afferrò pel collo una bestia che contorcevasi negli ultimi aneliti.

– Oh! Oh! – esclamò egli. – Che razza di animale è mai questo? Non ne ho mai visto uno simile.

James l'osservò attentamente. Era un mammifero, non troppo grosso, col corpo avvolto da squame embricate, e che somigliava più ad un pesce che ad un mammifero.

– È un pangolino – diss'egli. – Un bizzarro animale al quale i cinesi danno il nome di ling-lai o carpione di terra e gli scienziati quello di pholidotus dahlmauni, parole arabe per te, ragazzo mio.

– È buono a mangiarsi?

– Altro che! Il tuo Capitano me ne ha fatto mangiare a...

Un fischio lamentevole gli tagliò la parola. Si guardò rapidamente attorno per vedere chi l'aveva emesso.

– Oh! – esclamò il polacco, facendo un salto indietro.

Dietro un cespuglio si era improvvisamente alzato un soldato cinese, con una lunga zimarra azzurra e in testa un elmetto sormontato da uno strano pennacchio. Aveva in mano un archibugio munito di due baionette.

– Che fa quel scimiotto con quella forca in mano? – si chiese l'americano.

– Battiamocela, sir James – disse Casimiro.

– Oibò! Toh, guarda, degli altri fantocci.

Altri tre soldati erano usciti da una piantagione di bambù e anche questi erano armati d'archibugi.

– Ehi! – gridò l'americano, vedendo che lo prendevano di mira. – Non siamo briganti da pigliare a schioppettate. Giù quelle forche!

Uno di quei soldati gl'intimò di allontanarsi, ma il testardo finse di non comprendere e si mise a fare un discorso, frammischiando parole cinesi e inglesi, spiegando lo scopo della sua visita. I soldati, sorpresi da quel torrente di paroloni rimbombanti, non risposero.

– Non capiscono un cavolo – disse l'americano. – Andiamo a vedere se hanno del whisky.

Ma al primo passo che fece, quattro fucili lo presero di mira. Non volle saperne di più; volse i talloni e se la batté, salutato da una scarica che per buona fortuna andò a vuoto.

– Ah briganti! – vociò egli, arrestandosi. – È così che si accolgono dei galantuomini che domandano un sorso di whisky?

– Venite, corpo di una pipa! – esclamò il polacco.

Un'altra archibugiata rimbombò, la palla tagliò un bambù a pochi pollici da loro.

I due cacciatori ne avevano abbastanza e si misero a trottare in mezzo alle piantagioni, senz'altre molestie e non si arrestarono che presso la riva del fiume.

– Ehi, ragazzo! – esclamò l'americano. – Credi che io sia un mulo per farmi trottare in tal modo? Canaglie! Prendere per un brigante uno yankee puro sangue? Prendere a fucilate due uomini della nostra fatta! Che ne dici, Casimiro?

– Che avevano ragione sir James. Non vi sembra che abbiamo l'aspetto di pirati?

– L'aspetto di pirati! Ah, briccone! Tu vuoi burlarmi!

– No, sir James. Vedendoci così armati, passeggiare ad un'ora tarda in un isolotto deserto, quei bravi soldati del Celeste Impero non potevano sicuramente prenderci per galantuomini. Eppoi, pronunciavate quel whisky con un certo tono da mettere in sospetto anche un cosacco. Certamente non comprendevano la parola.

– Sì, la scambiavano per qualche seria intimazione. Orsù, la è finita; non si può bere un sorso di liquore in questo paese. Quando arriveremo a Tchao-King ne berremo tanto da scoppiare.

– E ne faremo una così ampia provvista che potrà durarci fino al Pe-Kiang.

– Di' addirittura fino in Birmania. Caricheremo la giunca.

Tirato il fiato, i due cacciatori si rimisero in via, seguendo le sinuosità della riva, volgendo spesso il capo verso la piantagione quando un rumore insolito giungeva ai loro orecchi, e alle dieci di sera giungevano al campo, nel momento che il Capitano, assai inquieto, si accingeva a mettersi in cerca di loro.

– Dove siete stati? – chiese.

– A caccia – rispose l'americano.

– Avete incontrato nessun abitante?

– Dei brutti soldati che ci hanno accolti a colpi di fucile.

– Avrete commesso certamente qualche mariuoleria.

– Niente affatto, ve lo giuro.

– Corichiamoci, ché è tardi.

– E i cinesi?

– Non ci inquieteranno. Sono troppo poltroni e troppo paurosi per molestarci

Si ritirarono sotto la tenda senza più curarsi dei cinesi, che non si fecero, del resto, più vedere. Alle sei del mattino la giunca si rimetteva in via con un forte vento del sud-est e camminò così bene, che all'alba del giorno seguente gettava l'àncora a poche braccia dallo scalo di Tchao-King.