La Scimitarra di Budda/36. Nella stiva d'una barca

36. Nella stiva d'una barca

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36.

NELLA STIVA D'UNA BARCA


Dopo una dormita di quattordici ore, il Capitano si svegliò. Da un piccolo pertugio aperto sul tribordo entrava un superbo raggio di sole, il quale illuminava vivamente la stiva della barca, che era ingombra di barilotti sfondati, di catene, di ancorotti e di palle di cannone di diverse grossezze. James, Casimiro e Min-Sì, sdraiati l'uno accanto all'altro, con armi a portata della mano, dormivano russando molto forte. Giorgio, stropicciatisi vigorosamente gli occhi, si alzò con l'intenzione di guadagnare la scala e salire in coperta, ma, fatti due soli passi, si arrestò colla più grande sorpresa scolpita sul viso. La barca non era più immobile come la sera innanzi. Ondeggiava da tribordo a babordo facendo gemere le tavole e i corbetti e traballare il carico. Lungo i fianchi si udiva anche l'acqua spumeggiare. Il Capitano, credendosi ancora addormentato, si pizzicò le carni e si stropicciò di nuovo gli occhi, ma la barca continuava a far rotta e la sentiva correre con rapidità non comune.

– Questa è strana! – esclamò. – La barca cammina!

Tese gli orecchi e udì perfettamente il cigolìo del gran timone che girava sui cardini, il tamburellare delle vele, lo scorrere delle corde dentro i boscelli e alcuni passi affrettati. Si precipitò verso il pertugio e vide la riva fuggire rapidamente co' suoi boschi, colle sue piantagioni e colle sue capanne e l'acqua spumeggiare sui fianchi del legno. Uno scroscio di risa gli uscì dalle labbra.

– Eh! – esclamò James, svegliato di colpo. – Cos'è accaduto che v'odo ridere? È saltata in aria Saigaing con tutti i suoi abitanti?

– No. C'è invece che noi scendiamo l'Irawaddy a gran velocità.

– Abbiamo rotto gli ormeggi? – domandò il polacco.

– C'è un equipaggio in coperta.

L'americano e il polacco scoppiarono a loro volta in una risata.

– Bella sorpresa! – esclamò il polacco.

– Ma sapete almeno che equipaggio sia? – chiese l'americano.

– No – rispose il Capitano.

– Rimarrà di stucco quando ci vedrà comparire in coperta.

– Purché non ci prenda a bastonate – disse il polacco. – Potrebbero crederci ladri o pirati.

– Andiamo a bussare – disse il Capitano. – Diremo all'equipaggio che non siamo merce da accontentarci dell'aria e della luce che penetra da quel pertugio.

Salirono la scala e si fermarono sotto il boccaporto ad ascoltare. Si sentivano gemere gli alberi, sbattere le vele, parecchie voci cianciare e un correre di qua e di là.

– Abbiamo a che fare con dei birmani – disse Casimiro.

– Olà!... – gridò il Capitano, accostando le labbra ad una fessura.

Sul ponte si udì strascicare uno sciabolone, poi quattro colpi sordi come di fucili che si posano sul tavolato e una voce fessa domandare pure in cinese:

– Chi siete?

– Qual voce! – esclamò il Capitano. – Io l'ho già udita.

– Dove? – chiese James.

– Non ricordo, ma vi dico che non mi è nuova.

– Come siete lì dentro? – ripeté la voce fessa.

– Abbiamo sbagliato barca – rispose il Capitano. – Eravamo tutti ubriachi ieri sera, faceva scuro e siamo entrati in questa stiva.

– Quanti siete?

– Quattro. Tu dove vai?

– A Prome su barca dello stato.

– Anche noi eravamo diretti a Prome. Leva il boccaporto e ti darò un pugno d'oro pel tuo disturbo.

Il birmano, che doveva amare assai il prezioso metallo, si affrettò a trarre i catenacci e ad alzare il boccaporto, ma lo lasciò subito ricadere con violenza, mandando un grido di stupore.

– Siamo perduti! – esclamò Giorgio.

– Perché? – chiese James. – Non capisco nulla.

– Ma non avete riconosciuto quel birmano?

– No, Giorgio.

– È il caporale che abbiamo ubriacato ad Amarapura.

Sebbene la loro posizione non fosse troppo bella, l'americano, il polacco e persino il piccolo cinese si misero a ridere.

– Non c'è da ridere, amici miei – disse il Capitano. – Quel brigante non si lascerà ubriacare due volte. C'è in aria un maivum e dietro il maivum il carnefice colle tenaglie roventi.

– C'è da rabbrividire – disse James. – Se non troviamo il modo di battercela, il caporale ci consegnerà ai giudici di Prome.

– Tentiamo di corrompere il birbante. I birmani, chi più chi meno, sono tutti venali.

– Allora bussiamo, Giorgio. Di oro ne abbiamo e non poco.

Il Capitano risalì la scala e si mise a picchiare col calcio della carabina. Per alcuni minuti nessuno rispose, poi il caporale tornò a far udire la sua voce fessa.

– Che cosa domandano i miei prigionieri? – chiese scuotendo il suo sciabolone.

– Ho un affare d'oro da proporti, ma tu devi lasciarmi salire sul ponte.

Il caporale si mise a ridere.

– Credi tu che non abbia visto la tua carabina? – diss'egli. – Bah! Non sono così stupido da cadere nel laccio. Se ti piace, parliamo attraverso al boccaporto.

– Pezzo d'asino! – brontolò James. – Se potessi averti in mano...

– Giacché non vuoi aprire, parlerò col boccaporto chiuso – disse il Capitano. – Dimmi, se ti offrissi duecento once d'oro in cambio della nostra libertà, accetteresti?

– Nemmeno per mille. L'imperatore me ne darà cinquemila, forse diecimila, fors'anche ventimila.

– Miserabile! – gridò il Capitano che perdeva la sua flemma. – Ascoltami ancora, ladrone. Se ti offrissi mille once oggi e quattromila a Rangun?

– Vado a Prome e non a Rangun.

– Se riesco a prenderti, ti sgozzo!

– Come ti piace.

– Io ti strapperò il cuore! – urlò l'americano, che non si teneva più. – Apri, o faccio saltare il boccaporto!

Il caporale si allontanò ridendo allegramente. James si mise a tempestare inutilmente il boccaporto coi pugni e colla carabina.

– Calmatevi – disse Giorgio, che aveva riacquistato il suo solito sangue freddo. – Troveremo qualche mezzo per battercela.

– Ma come uscire di qui?

– Con un po' di pazienza apriremo un buco, magari a livello dell'acqua, e usciremo.

– Bel piano! – esclamarono Casimiro e James.

– Ma i birmani ci vedranno – osservò il piccolo cinese.

– Di notte non si distingue troppo bene, Min-Sì.

– Al lavoro! Al lavoro! – esclamò lo yankee.

– Sì, al lavoro e cerchiamo di far presto, – disse Giorgio – poiché Prome non è molto lontana.

Esaminò i fianchi della barca e, trovate alcune tavole un po' meno solide delle altre, vi disegnò sopra un cerchio del diametro di settanta od ottanta centimetri. Subito James e Casimiro, impugnati i coltelli, si misero febbrilmente al lavoro. Il legno, essendo tek, era estremamente duro, ma i bowie-knife avevano la lama solidissima e le mani che li stringevano vigorose. A mezzodì il Capitano e il cinese diedero il cambio ai compagni e, lavorando con pari lena, riuscirono a staccare non poche schegge di non piccole dimensioni. Quando il sole tramontò, una tavola era già stata levata e un corbetto tagliato. Giorgio si avvicinò al pertugio e guardò. La barca passava allora dinanzi ad un enorme agglomeramento di rovine. La riva, fin dove giungeva lo sguardo, era coperta di piramidi diroccate, di pagode sfondate, di palazzi sventrati, di colonne mozzate, di archi infranti. Alcuni templi immensi si ergevano ancora in mezzo a quei monti di macerie.

– Deve essere Pagan – disse Giorgio a James.

– Cos'è questa Pagan?

– Una città distrutta.

– Deve essere stata grande.

– Grandissima, James, poiché le sue rovine coprono la riva per ben tredici chilometri. Si dice che contasse, un tempo, oltre novecento pagode.

– Siamo lontani molto da Prome?

– Domani sera di certo vi giungeremo.

Rosicchiati alcuni pezzi di pesce secco, vuotata una fiaschetta di arak e fatta una fumata, i prigionieri si stesero ai piedi della scala mettendosi accanto le armi. Durante la notte i birmani non si fecero vivi. All'alba James e Casimiro ripresero il lavoro con vero accanimento. Avevano paura che la barca giungesse a destinazione prima che fosse aperto il buco. Il legno pareva fosse diventato più duro, sembrava ferro. Malgrado i colpi violentissimi che l'americano vibrava, si staccavano delle schegge microscopiche. Un coltello fu ridotto, in breve tempo, inservibile. A mezzodì, mentre staccavano un'altra tavola, sul ponte della barca fu segnalato Mengun.

Giorgio provò un brivido.

– Animo, non perdiamo tempo. Questa barca fila come uno steamer. Forza, Casimiro, forza, Min-Sì, strappate quel chiodo, James.

Tutti raddoppiarono gli sforzi. Non c'erano che due tavole da levare, ma non cedevano.

Alle otto di sera non ne mancava che una. Le tenebre, disgraziatamente, invadendo la stiva, resero il lavoro più difficile.

– Coraggio! – disse Giorgio. – Siamo vicini a Prome.

I bowie-knife assalirono con nuova furia quell'ultimo ostacolo. Alle dieci tutti i chiodi erano stati strappati. Il Capitano stava per dare il comando di levare la tavola, quando sul ponte s'udirono i barcaioli correre da prua a poppa trascinando catene e gomene. Subito dopo si udì la voce fessa del comandante gridare:

– Prome!

La barca, due minuti dopo, si arrestava e veniva gettata l'àncora.